Era un'altra bugia: ero così delusa e intristita che il solo ricordare l'esistenza del mio apparato digerente mi dava la nausea. Tuttavia Marie parve credermi, perché mi sorrise dolcemente e prese la mano di Jeannot, sparendo in mezzo alla gente.

Max aveva trasformato il salone in una vera pista da ballo, sgombrandolo di tutti i mobili. Rimanevano solo il tavolo del buffet, quello degli alcolici e le sedie lungo le pareti. In pochi secondi persi di vista i miei amici, fagocitati dai ballerini.

 Presi un altro bicchiere, cercando di centellinarne il contenuto. Mi sentivo ridicola. Nel mio corto vestito blu elettrico pieno di paillettes, con i miei tacchi da dieci e la mia pochette, con l'aria annoiata e un po' triste mentre fissavo il vino, era come se il mio intero essere stesse gridando a gran voce: "Sono sola e patetica, aiutatemi! Cercasi compagnia disperatamente".

In un lampo di genio particolarmente filosofico mi ritrovai a chiedermi se Eleonora Gentilini non fosse in realtà la ragazza di Paul Duval. Era lui a definirmi? Dissi a me stessa di no, ma allora come mai senza di lui non sapevo esattamente dove mettermi, in quella sala affollata? Se non avessi avuto il calice frizzante non avrei saputo nemmeno in che posizione tenere le mani. Non mi capitava di sentirmi tanto fuori posto da mesi e mi sarei strappata la faccia piuttosto che provare quella sensazione. Mi accorsi di avere un groppo in gola e gli occhi lucidi: alcool e rancore sono amici di lunga data. Non volevo piangere, chissà cosa avrebbero detto tutte quelle persone.

Stavo per dileguarmi verso il bagno per darmi una sistemata quando una voce alle mie spalle disse: «Ciao».

Mi voltai e vidi il ragazzo della Coca Cola nel naso. Non ci potevo credere: era quello il mio salvatore? Beh, era la prova che la vita ci sorprende sempre. Chiusi gli occhi per un momento, sperando che quando li avessi riaperti lui sarebbe come evaporato. Non accadde: era ancora lì, con un sorriso dolce e gli occhioni spalancati.

«Heylà», risposi.

 Mi tese la mano. Con accento straniero annunciò: «Sono George Addison, vengo da Londra».

 Per il fatto di essere britannico guadagnò parecchi punti. Cercai di figurarmelo al posto del principe Henry. Gli sorrisi, ma non gli strinsi la mano. «Eleonora Gentilini».

 Lo ascoltai biascicare il mio nome in un disperato tentativo di pronunciarlo.

 «Chiamami Léo», quasi lo supplicai.

 «Sei italiana?».

"Però, che spirito di osservazione". «Eh, già».

 Non so cosa sperassi: forse stavo cercando di essere poco loquace per farlo scappare a gambe levate. Non che stessi facendo fatica, dato che non avevo la minima voglia di parlare. Mi dipinsi sul volto un'espressione di circostanza, quella che la gente assume quando non sa cosa dire. Lui continuò a guardarmi con occhi allegri.

 Erano begli occhi: azzurri, chiarissimi, contornati da ciglia scure lunghe come quelle di una donna. Anche le labbra erano attraenti, piene e dall'aria morbida. I capelli, beh, probabilmente se li avesse pettinati prima di uscire non li avrebbe avuti così in disordine. Ora che lo avevo di fronte notai che era alto come lo ero io su quei tacchi. Non molto, considerando che con dieci centimetri di trampoli raggiungo a malapena il metro e settanta. Per essere un uomo era decisamente un tappetto.

 Pensai che Paul lo avrebbe guardato dall'alto in basso con il suo metro e novantasei di bellezza.

 Sembrava in attesa che dicessi qualcosa. Pensai in fretta. «E cosa ci fa un londinese a Parigi?».

 «Mi sono trasferito dopo la laurea», spiegò. La sua voce aveva una nota sgradevole, qualcosa che non mi piaceva per niente, era troppo bassa. «Scienze della comunicazione».

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now