Capitolo 13

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Il vociare negli spogliatoi riempiva le orecchie dei presenti e rendeva quasi impossibile ragionare. Tutti parlavano, sovrapponendosi l'uno all'altro senza un minimo d'ordine. D'un tratto, calò il silenzio non appena il coach spuntò dalla porta del tunnel. Questi passò lo sguardo su tutti i giocatori, squadrandoli a uno a uno e scuotendo poi il capo.
«Schifo. Stiamo facendo semplicemente schifo. Vi avevo chiesto una reazione, vi avevo chiesto di dimostrare a tutti che squadra siamo, e invece non state facendo altro che deludere ogni singola aspettativa» esordì. I ragazzi abbassarono tutti lo sguardo, non riuscendo a sostenere il tono di quella conversazione. «Non dite nulla? Tyler?»
«Ha ragione, coach» rispose Tyler Warren, alzandosi in piedi. «Dobbiamo tirare fuori le palle!»
«Buffone» commentò Thomas, rendendosi conto solo dopo di averlo detto ad alta voce. In un secondo, tutti gli sguardi furono puntati su di lui.
«Come?» lo invitò a ripetere il capitano e quarterback titolare. Thomas sospirò, ricordando le parole di Jackson e il racconto su Sam. Era quello il momento di imporsi, ne andava della stagione e della sua carriera.
«Ho detto che sei un buffone. Non sono loro che devono tirare fuori le palle, ma tu. Non sai giocare, non sai leggere il campo, non sai gestire la squadra. Sai solo lanciare, ma il football non è solo quello, anzi. Meglio un quarterback che non sappia lanciare ma che sia un leader, piuttosto che uno come te» disse pacatamente il ragazzo. Tyler scattò in avanti, ma venne fermato da un paio di giocatori che lo placcarono per impedirgli di colpire l'altro. Thomas si voltò e guardò Philip che gli sorrideva, quindi puntò dritto al coach.
«E chi sarebbe questo leader? Tu?» domandò Tyler. Thomas lo ignorò, continuando a guardare l'allenatore.
«Merito la possibilità di provare a ribaltare la partita. Mi prendo le mie responsabilità, sono conscio del rischio, ma non possiamo continuare a giocare senza un quarterback. Coach, mi mandi in campo e non solo vinceremo, ma avremo anche una squadra. Oppure, continui a far giocare Warren e la stagione sarà finita con stasera» tentò di convincerlo. Dylan lo squadrò da testa a piedi, poi sorrise.
«Con te, invece, passeremo il turno?» lo imbeccò. Thomas si alzò in piedi e allargò le braccia.
«Con me avremo una possibilità quantomeno» rispose. Dylan rimase qualche secondo immobile, mentre lo spogliatoio attendeva, silenziosamente, la sua decisione, poi si voltò e aprì la porta che conduceva al tunnel.
«Preparati, Garrington, entri in campo» sentenziò poi, generando mormorii e sussurri tra tutti gli altri che, però, si alzarono e seguirono il quarterback verso il campo. Tyler fu l'ultimo a uscire dallo spogliatoio e guardò di sbieco il coach prima di abbandonare la stanza. Thomas percorse il tunnel fino al termine, poi mise piede in campo e inspirò a pieni polmoni l'adrenalina e l'odore del terreno bagnato dagli irrigatori poco prima. Afferrò il casco e cercò Jackson con lo sguardo. Questi gli sorrise, alzando il pollice e dimostrandogli il suo sostegno. Il più giovane si sentì rincuorato, era contento che lui fosse lì per lui. Sapeva che poteva contare su Jackson, e che non ne avrebbe mai dovuto dubitare. Indossò il casco e si posizionò in campo, pronto a dare il via alla sua prima azione. Chiuse per un momento gli occhi, inebriandosi della sensazione piacevole e familiare che gli trasmetteva quella situazione. Tutti si affidavano a lui, avevano bisogno che si inventasse qualcosa, che giocasse bene, che accendesse la luce in una partita dove, sino a quel momento, era rimasta spenta. E lui si gasava con quelle emozioni, si sentiva importante, un re in campo. E sapeva esattamente che schema avrebbe dovuto chiamare per dare la scarica di adrenalina alla squadra.
«Blue 22, red 34, set... hut!» gridò, poi tutto si svolse in fretta. La palla ovale gli arrivò e lui fece un passo indietro. Si voltò e finse di passare al running back, che corse in avanti insinuandosi tra i difensori avversari e attirando la loro attenzione. Nel frattempo, Philip aveva già percorso diverse iarde, correndo come gli aveva visto fare la prima volta che avevano giocato assieme, non troppo tempo prima. Thomas alzò il braccio e in una frazione di secondo calcolò il vento, la velocità del wide receiver e la posizione dei difensori, quindi attese l'ultimo momento utile e lanciò il pallone. Il tempo sembrò fermarsi. Tutti osservavano lo strano oggetto ovale roteare in aria. Lo stadio rimase in silenzio, i giocatori in campo alzarono la testa, nessuno emise un fiato. L'unico movimento che si poteva udire era quello dei tacchetti delle scarpe di Philip che lenivano il terreno, sollevando zolle e portandosi dietro due difensori avversari. Ma per loro non ci sarebbe stata chance: il pallone arrivò tra le braccia del WR con una precisione tale da lasciare sbigottito persino Thomas stesso. Un metro dopo, Philip segnò il primo touchdown dell'ultimo quarto di gara, facendo esultare lo scarno pubblico ospite e la panchina degli Eagles. Thomas alzò lo sguardo verso Jackson e lo vide dimenarsi, abbracciando il fratello e urlando di gioia. Sorrise, venendo travolto da alcuni compagni, poi decise di posare le sue pupille sul coach. Questi era immobile con un ghigno soddisfatto sul volto, come se avesse pianificato tutto, come se Thomas non avesse giocato dall'inizio proprio per sentirsi spronato a dare il meglio in quel quarto, ad esporsi in spogliatoio e a prendersi sulle spalle la squadra da solo. E, probabilmente, era esattamente così che era andata. Il giovane rivalutò immediatamente il coach. Forse non era così incompetente come pensava...

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