Capitolo 10

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Jackson sbuffò rumorosamente, camminando a cerchio attorno all'auto rossa. Guardò l'orologio del telefono e alzò gli occhi al cielo, esasperato dall'attesa. Dylan gli aveva detto di dover andare in bagno, e sembrava essersi perso ai cessi pubblici del parco naturale. Gli aveva suggerito di limitarsi a farla dietro un albero – non perché volesse guardarlo, sia chiaro – ma lui sembrava avere un senso del pudore più alto di quello di Jackson. Decise di provare a chiamare Thomas nell'attesa, così selezionò il suo numero e lo premette, portandosi il cellulare all'orecchio. Dopo qualche squillo, la voce dell'altro rispose.
«Ciao, tutto okay?» esordì il più giovane. Jackson sorrise. Era piacevole sentirlo. Ormai lo considerava di famiglia, quindi la sua voce gli ricordava casa, un concetto che per lui era sempre stato molto importante, sin da bambino quando una casa vera non l'aveva, se non grazie a suo fratello.
«Ciao. Sì, ti racconterò poi quando torno. Voi? La casa è ancora in piedi?» domandò quindi Jackson.
«Assolutamente sì, Rudy mi ha insegnato a maneggiare una pistola e a sparare» raccontò Thomas. Il più grande spalancò gli occhi.
«Cosa cazzo... mi prendi in giro?» reagì, Thomas scoppiò a ridere.
«Sì, certo che ti prendo in giro. Abbiamo visto un film e tra poco faremo una passeggiata» confessò. L'altro si sentì più leggero.
«Molto spiritoso. Passate una bella giornata» si congedò.
«Anche voi. E usate il preservativo» disse il più giovane, attaccando subito dopo. Jackson si sentì arrossire e rimase qualche secondo a guardare il telefono prima di riporlo in tasca. Come gli era potuto venire in mente che lui fosse interessato a Dylan? Aveva appena capito come, forse, avrebbe potuto superare il suo lutto, da lì a instaurare rapporti pericolosi con qualcun altro ce ne passava.
«Scusa il ritardo, c'era fila» fece il biondo alle sue spalle. Jackson si voltò e sentì il cuore sussultare. Era senza maglietta e poteva indistintamente contare tutte le onde che faceva il suo addome muscoloso, i centimetri di altezza del suo petto e le dimensioni perfette dei bicipiti: né troppo sviluppati, né troppo poco. Era semplicemente bellissimo.
«Io ehm... a cosa dobbiamo lo spettacolo?» domandò, indicando col capo il suo petto nudo. L'altro si guardò per un momento, poi sorrise, illuminando il proprio volto con quel semplice gesto.
«Oh, nulla, mi sono bagnato. Il rubinetto schizzava ovunque. Ora mi cambio, ho sempre dietro una maglietta di scorta in auto» chiarì, frugando nel bagagliaio e reperendo il campo del quale parlava.
«Quindi, dopo esserci introdotti illegalmente nel parco, aver fatto un bagno non consentito nel lago ed essere sfuggiti ai ranger, cosa prevede la tua giornata di fuga dalla città?» si informò.
«Il piano è di pranzare da qualche parte e poi andare a Eugene» spiegò Dylan, salendo in auto. L'altro lo imitò, accomodandosi sul sedile del passeggero.
«Io non mangio pesce» lo avvisò Jackson. Il biondo si voltò, incastonando i suoi bellissimi occhi azzurri nelle pupille quasi trasparenti del moro.
«Come mai? Problemi a gestirlo?» chiese il coach, sorridendo. Jackson si sentì avvampare. Non aveva pensato al possibile doppio senso della sua frase.
«No, intendo che non mi piace mangiarlo» tentò di chiarire, ma si rese conto che qualsiasi cosa avesse detto avrebbe potuto essere equivocabile.
«Ah, ora mi è più chiaro. Nemmeno a me entusiasma il pesce in realtà, ma sono uno che mangia un po' di tutto, dipende dalla qualità della cucina» raccontò, mettendo in moto e iniziando a guidare. Jackson corrugò la fronte, voltandosi dall'altro lato per far sparire il rossore sul volto. Dal tono e dalla frase, gli sembrava che non stessero più parlando di cucina, ma forse era solo una sua impressione.
«E cosa deve avere una cucina di qualità?» lo imbeccò, tentando di capire meglio il senso di quel discorso.
«Beh, deve essere pulita, avere camerieri gentili, simpatici e possibilmente non dei Giants, ma questo è un dettaglio trascurabile. In realtà l'importante è che mi emozioni, mi coinvolga, che non siano semplici piatti, ma che scatenino vere e proprie sensazioni positive. E ammetto che è raro che io trovi questo tipo di cucina. Non credo di averla mai trovata al cento percento nella mia vita» rispose Dylan. A quel punto, Jackson era più che certo che non stessero parlando di cucina. «E a te che cucina piace?»
«È un po' complicato. Diciamo che da un po' di tempo non sono tipo da ristorante, ma se lo fossi penso che cercherei le tue stesse cose» tagliò corto. Il resto del viaggio trascorse in un imbarazzante silenzio. Dopo quel discorso equivocabile, nessuno dei due voleva prendere la parola. Avrebbero, probabilmente, dovuto raccontarsi cose troppo serie, troppo personali. E non erano ancora pronti. Almeno, Jackson era sicuro di non esserlo. Forse non era nemmeno una questione di tempo, ma di contesto. Erano in auto, viaggiavano in cerca di un luogo dove poter mangiare, non gli sembrava il caso di rovinare la giornata e parlare del suo marito morto. Un tuono ruppe il silenzio, mentre le nuvole, alte in cielo, minacciavano pioggia. Jackson deglutì. Odiava i temporali, sin da prima che Sam vi guidasse dentro, lasciandolo per sempre, ma dopo quell'episodio aveva smesso di uscire col mal tempo, che non faceva altro che provocargli sensazioni negative. «Cosa ne pensi di questo posto? È un motel con ristorante, mi sembra che sia accettabile.»
«Io... onestamente speravo in qualcosa di più raffinato, ma penso possa andare bene» acconsentì Dylan, accostando. Jackson voleva semplicemente togliersi dalla strada prima che venisse a piovere, e sperare che smettesse per quando dovevano rimettersi in auto.
«È che ho una certa fame, e mi sembra che non ci siano posti diversi da questo nei paraggi» mentì. L'altro parcheggiò, quindi entrambi scesero dal veicolo. Un vecchio motel con le stanze che davano su balconate esterne si presentava dinnanzi a loro. A destra, lontano dalla zona dove le persone potevano dormire, vi era un edificio alto con l'insegna di un ristorante. I due vi entrarono, notando come l'interno fosse tenuto meglio dell'esterno. Un cameriere sorridente si recò da loro con la divisa del luogo e li condusse a un tavolo per due nei pressi di una finestra che dava sul boschetto posto alle spalle della struttura. Il tavolo era pulito ma abbastanza piccolo, quindi i due, sedutisi agli estremi opposti, erano molto vicini in linea d'aria. Il ragazzo gli consegnò due menù e si allontanò sorridendo.
«Cosa prendi?» chiese subito Dylan. Jackson, che aveva perso il brio e la spensieratezza di prima, osservò la pioggia che iniziava a cadere all'esterno e rabbrividì.
«Io penso che mi accontenterò di queste costine di maiale con salsa BBQ» decise, totalmente a caso, il moro. La sua attenzione era concentrata sul temporale che stava per abbattersi su di loro e su come avrebbe potuto chiedere all'altro di non guidare nella pioggia.
«Allora direi due porzioni» concordò, sorridendogli. Jackson tentò di ricambiare, ma gli uscì un'espressione forzata ed evidentemente falsa. Per sua fortuna, il cameriere li raggiunse per raccogliere le ordinazioni. Dylan si occupò di comunicargli il tutto, poi lo ringraziò e questi si allontanò nuovamente. «Mi sembri... distante. È successo qualcosa?»
«No, va tutto bene. Sono solo stupidi pensieri» cercò di liquidarlo Jackson.
«Ti va di condividerli?» domandò Dylan. L'altro serrò la mandibola e rimase qualche secondo in silenzio.
«Non ha senso annoiarti con queste cose. Piuttosto, perché non mi racconti qualcosa di te?» chiese, cambiando discorso.
«Beh, alcune cose già le sai. Dopo quella finale, sono rientrato subito all'NYU con una borsa di studio. Sono stato il miglior running back del campionato il primo anno, quindi ho ricevuto subito l'offerta dai Jets. Così, ho mollato l'università e ho seguito il mio sogno. Ho debuttato sei mesi dopo in NFL, ma le cose non sono andate bene. Alla mia quarta partita, un placcaggio finito male mi ha costretto in ospedale. Sono stato fortunato a non finire sulla sedia a rotelle, e mi è stato detto che non avrei più potuto giocare» raccontò. Jackson sospirò, scuotendo il capo.
«Cristo, mi dispiace molto. Era il tuo sogno...» commentò, cercando di prestare attenzione solamente a lui e ignorare l'impetuoso temporale.
«È la vita dei running back. Lo sappiamo sin dall'inizio, per la maggior parte di noi finisce così» affermò poi il coach.
«E cosa è successo dopo?» tentò di capire Jackson.
«Ho passato un anno in riabilitazione, poi ho cominciato a bere. Il mio sogno era andato a farsi fottere, e io ero devastato. Poi, ho incontrato il mio coach delle superiori. Mi ha detto semplicemente una cosa: "Dawson, sei nato per essere un vincente, un campione. Ma non c'è solo un modo di vivere, di coltivare i propri sogni. Quindi posa il bicchiere, alza il culo e rimettiti in piedi, perché non meriti di finire così"» disse il biondo. L'altro sorrise.
«E aveva ragione» fece il moro, mentre il cameriere portò i due piatti con le costine ai due, augurandogli buon appetito.
«Sì, l'aveva. Mi sono rimesso in piedi, ho preso il patentino e ho guardato le scuole dove potevo cominciare. Ho scelto Myrtle Point perché era abbastanza lontana dal mio passato» concluse, cominciando a mangiare il contenuto del piatto. «Tu, invece?»
«La mia storia è molto più semplice: ho iniziato a giocare a football perché beh, cos'altro potevo fare? A Manor, dove sono cresciuto, o giochi a football o sei una femminuccia. Così, ho cominciato a dimostrarmi valido e sono diventato il wide receiver titolare, ma non ho mai avuto la passione per quello sport. Sì, lo seguo, ma la scintilla negli occhi che hai tu quando ne parli non mi ha mai contraddistinto. In università sono entrato in squadra per riempire i buchi di tempo, ma il coach non faceva che ripetermi che ero scarso, così per quello e altro ho mollato. Ho trovato una passione nella pasticceria, e ora è tutto ciò che ho» confessò Jackson.
«E come sei finito a fare il tutore legale di un sedicenne?» si informò il biondo.
«Coincidenze strane e diverse sfortune. Tu, piuttosto, oltre al football, sei fidanzato?» cambiò subito discorso, per evitare di dover dare spiegazioni troppo dolorose da tirare fuori.
«No. Devo ancora trovare la persona speciale che mi riesca a rinchiudere in gabbia» rispose, sorridendo, Dylan.
«Eppure sei molto bello, quindi penso tu sia abituato ad avere la fila di pretendenti» suppose Jackson. L'altro sospirò.
«Diciamo che so di essere guardato. Ma non m'importa. E tu? Anche tu sei molto bello» disse il biondo. Jackson sorrise istintivamente. Non era decisamente molto bello, ma apprezzava il suo commento. Sapeva di non essere brutto, ma era sempre stato la parte meno attraente della coppia. Sam, invece, era veramente bellissimo. Era qualcosa che andava oltre il mero aspetto fisico. Era una luce, un colore, un'aura: qualcosa che lo metteva talmente in risalto da renderlo sempre costantemente bellissimo, dentro e fuori. Deglutì, pensando al marito e si accorse che, ancora una volta in presenza del coach, stava lacrimando. Si asciugò la guancia con un tovagliolo e si alzò in piedi.
«Scusami» fece, allontanandosi dal tavolo. Spalancò le porte dei bagni e si chinò sul lavandino, poi iniziò a piangere a dirotto. Aveva deciso di lasciare andare Sam, e probabilmente quella tristezza, quello sfogo, sarebbero serviti allo scopo. Aveva deciso di andare avanti, ma non poteva farlo senza guardarsi indietro. Aveva capito che poteva farcela, ma il ricordo di lui era ancora talmente forte da condizionarlo. Si sentiva tremendamente solo, ma stava migliorando. Un mese prima si sarebbe sentito in colpa per aver passato qualche ora di felicità accanto a un altro uomo, in quell'istante però non ci pensò. Era semplicemente stanco, provato da quel vorticare di emozioni dentro di sé. Così rimase lì, chinato sul lavandino a piangere e sfogarsi, mentre la pioggia crepitava sulle finestre del ristorante e il rumore dei tuoni rompeva il suono dei singhiozzi che Jackson, nel suo piccolo momento di debolezza, non riusciva a evitare. E la memoria del ragazzo lo riportò a quella maledetta notte, a quel dannato temporale e all'ultima volta che aveva visto la persona migliore che avesse mai conosciuto. Il pensiero corse a quelle ultime parole, prima che la porta di casa si chiudesse per sempre. Le sentì come se fossero ancora lì, nelle sue orecchie, a riempirgli il cervello e scaldargli il cuore. Ti amo.

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