Se solo tu mi amassi || Ereri...

By vivodinagato

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[IN REVISIONE dal primo capitolo in poi]. Eren Jaeger è uno studente della scuola Shiganshina, nella città di... More

Prologo
Capitolo I - Haiku e musica
Capitolo II - Levi... sei innamorato?
Capitolo III - Tempo
Capitolo IV - Neve
Capitolo V - La persona sbagliata
Capitolo VI - Senza di te
Capitolo VII - Te lo prometto
Capitolo VIII - A volte, va bene piangere
Capitolo IX - Il festival scolastico
Capitolo X - Eroe
Capitolo XI - Rimpianto o rimorso?
Capitolo XII - Ti amo
Capitolo XIII - Vivi
Capitolo XIV - Orgoglio
Capitolo XVI - Violino e pianoforte
Capitolo XVII - Lacrime di ghiaccio
Capitolo XVIII - Futuro
Capitolo XIX - Addio, arrivederci
Capitolo XX - Lettere di un Concerto
Capitolo XXI - Punizione
Capitolo XXII - Figlio
Epilogo

Capitolo XV - Fiorire

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By vivodinagato

I giorni avanzavano, inesorabili. Aprile, con le sue giornate di sole, in cui le ore di luce iniziavano a superare quelle d'ombra, il cui fiore del mese era il tulipano e la pietra il diamante, era ormai arrivato alla sua metà inoltrata, in procinto di finire il turno, lasciare il posto al collega successivo. Al castano, però, maggio non era mai piaciuto molto.
Era quasi un mese che Eren e Levi si frequentavano costantemente, tanto da dormire la maggior parte delle volte insieme, alternando le due case: per quanto preferisse di gran lunga andare dal professore, per scrollarsi di dosso tutti i suoi brutti ricordi, non poteva di certo trasferirsi lì. Per di più, sapeva che scappare non avrebbe mai risolto i suoi problemi, modificato la sua memoria o cancellato il passato.
«Dai, basta studiare, giuro che domani non ti interrogo amore...»
Secondo alcune interpretazioni, il nome 'aprile' derivava dall'etrusco 'Apro', a sua volta derivato dal greco Afrodite, dea dell'amore, a cui era dedicato il mese.
«Non ti conviene farlo, o potrei abituarmici», controbatté il più piccolo, lasciandogli un leggero bacio a fior di labbra, senza però distogliere l'attenzione dal libro di letteratura. In realtà non aveva specificato a cosa si riferisse: all'interrogazione del giorno dopo o al nomignolo con il quale Levi l'aveva chiamato?
Da quando aveva avuto la febbre, la settimana prima, e gli aveva inviato quel messaggio, il corvino si era sentito giustificato nel ricambiare allo stesso modo. La cosa faceva impazzire il suo povero cuore, ancora fragile ed inesperto; ma nonostante questo, aveva quasi timore ad abituarcisi: era troppo presto, e nessuno dei due si era ancora aperto del tutto all'altro.
«Quanto sei noioso».
Secondo altre teorie, il nome 'aprile' derivava invece dal latino 'aperire', cioè 'aprire', per indicare il mese in cui si "schiudevano" piante e fiori; era infatti il mese della rinascita, del risveglio della natura dopo il sonno invernale.
Casa sua, nel giro di poche settimane, sembrava completamente diversa, stravolta: le luci rimanevano spesso accese, data la presenza di un'altra persona, e lo Jaeger si era ritrovato costretto a sistemare più spesso, conoscendo la mania di Levi per la pulizia.
Aveva comprato pentole, padelle, un tagliere e perfino dei piatti nuovi, visto che il professore cucinava spesso per lui, ed aveva anche sostituito la lampadina posta vicino alla scrivania, dove ormai era solito correggere i compiti in classe; Eren si era inoltre disfatto di tutte le sue cianfrusaglie, come certe penne scariche che da anni si ostinava a conservare, e perfino lasciato vuoto un comodino per gli oggetti personali dell'Ackerman, come il telefono, i romanzi e gli occhiali da riposo.
Sorrise involontariamente alla pagina del libro dedicata al 'male di vivere' di Eugenio Montale: anche se non sapeva quanto a lungo sarebbe durata quella felicità, sperava in un 'per sempre', uno di quelli che nelle fiabe vede i protagonisti innamorati fino alla fine dei loro giorni, avviluppati fra le braccia della magia del vero amore.
Per quanto sperasse in quel futuro, il suo cuore rimaneva tormentato. Non sarebbe mai stato in pace finché non avesse scoperto la verità su sua madre, convinto di riuscire a smettere di incolparsi, di odiarsi.
«Moccioso!», lo rimproverò il maggiore, guardandolo mentre si accendeva una sigaretta.
Eren era convinto che, prima o poi, sarebbe riuscito a volersi bene, anche solo un po'.
«Casa mia, regole mie».
Eppure, non smetteva di sorridere. Levi si stava davvero preoccupando per lui, come aveva sognato da ragazzino. Forse era ancora piccolo, impossibilitato dalle circostanze a definirsi un "uomo", ma gli sbuffi del corvino lo tirarono incredibilmente su di morale.
Il giorno dopo avrebbe affrontato il professor Smith, sicuro del fatto che - una volta conosciuta la verità - avrebbe finalmente potuto vivere normalmente, come gli altri ragazzi della sua età. Avrebbe dimenticato suo padre, frequentato l'università, comprato una casa; avrebbe sposato colui che aveva sempre considerato l'amore della sua vita, adottato un figlio. Ma prima di tutto, doveva parlare con Levi, ed era certo che l'avrebbe fatto; ne era sempre più convinto, mentre osservava la sigaretta consumarsi ad ogni tiro.
Gli venne voglia di suonare, di impugnare il violino e consumarsi tra le note, ma la trattenne a malincuore: doveva tornare a studiare, per non sprecare la vita che gli era stata concessa, per onorare quella perduta della madre. Un giorno non avrebbe più fatto certi pensieri, ma avrebbe fatto le cose per sé stesso, e non per onorare vecchie promesse e debiti impossibili da colmare. Non sarebbe bastata la sua intera esistenza per farlo, e non poteva sprecarla nel tentativo di cercare di riportare in vita i morti; erano solo nella sua testa, e lì sarebbero dovuti rimanere fino a scomparire, incapaci di perseguitarlo oltre.
La corsa, il semaforo, le urla, il sangue.
Perché Carla l'avesse salvato, nonostante tutto, non lo capiva ancora. Sapeva che l'amore per i figli fosse imprescindibile, anche da un'azione sconsiderata come la sua, ma non riusciva comunque a capire. A quel tempo era solo un bambino, tanto sciocco da sbagliare in tutto: solo la musica l'aveva salvato. Non avrebbe mai potuto dimenticare le lacrime degli spettatori, gli applausi dei giudici, il sorriso commosso di sua madre, lo sguardo orgoglioso di Grisha.
Carla sembrava così fiera di lui, di dove la vita lo stesse conducendo; non era mai stata un genitore opprimente o una maestra severa, ma era comunque riuscita a lasciargli un ricordo pesante come un macigno sull'anima.
Ironico come per la musica avesse perso sua mamma, e come per Carla avesse abbandonato il violino: suonare era diventato doloroso, come a ricordargli cosa sarebbe potuto diventare, ma chi, in fondo, era realmente. Non avrebbe più potuto pizzicare quelle corde, non dopo aver visto sua mamma spegnersi lentamente, mentre cercava di insegnargli, tra i sussurri, come vivere la vita. E, da quando aveva ripreso l'archetto in mano, che si dimenava come terrorizzato dai sentimenti del musicista, il castano non riusciva a pensare ad altro che al passato, e al suo divenire.
Anche ad Eren, un giorno, sarebbe stato concesso di fiorire. Magari in un aprile come tanti.

Il risveglio della mattina seguente fu il più difficile mai provato per lo Jaeger; aprì gli occhi, piantandoli sul soffitto. La sveglia non era ancora suonata, segno del fatto che fosse ancora l'alba, se non prima.
Tastò l'altra parte del letto con la mano, ritraendola velocemente: aveva dimenticato che Levi era tornato a casa, e la sensazione di trovarsi in un letto troppo grande per una persona sola lo investì in pieno, portandolo a sospirare.
Si erano salutati la sera prima, ed Eren lo aveva pregato di stare attento, di non usare il telefono alla guida, di scrivergli non appena fosse stato al sicuro. Il professore lo aveva baciato di rimando, intenerito da quelle preoccupazioni, ignaro di quanto - in realtà - il più piccolo avesse bisogno di lui, proprio quella notte.
Con una morsa soffocante allo stomaco, si alzò; si diresse in cucina ma, una volta resosi conto di non essere nelle condizioni di fare colazione, si lavò e vestì con calma e lentezza, per impiegare il tempo.
Non poteva biasimare Levi: in fin dei conti era stato lui a non parlargliene fino a quel momento. Non voleva tenerglielo nascosto, ma sarebbe stato incosciente accrescere inutilmente il suo odio nei confronti del collega di musica, senza nemmeno sapere ciò che era realmente accaduto.
Le mani non smettevano di tremargli, mentre uno strano calore doloroso gli si espandeva per il petto e le braccia.
"Chiarirò con Erwin, tornerò a casa e gli dirò tutto. Così, magari, anche lui mi parlerà di sé", pensò insistentemente Eren, pregandosi di avere abbastanza coraggio.

La giornata sembrò non finire mai, nonostante Armin tentasse in ogni modo di tenerlo distratto, ridendo e scherzando, evitando di nominare ciò che sarebbe successo in poche ore. Tutto avrebbe finalmente avuto un senso; e forse, pensò l'Arlert, il suo migliore amico avrebbe smesso di tormentarsi, incolparsi. Con tutto quel veleno che gli marciva dentro, di certo, non avrebbe resistito a lungo.
«Buona fortuna, Eren. Ti voglio bene... fratello», gli disse, abbracciandolo, una volta arrivati di fronte all'aula di musica.
«So che sei preoccupato, ma non ce n'è alcun bisogno... ti voglio bene anche io, non sai quanto», lo rassicurò il castano, sorridendo.
Immaginava quanto il suo migliore amico fosse in pensiero: in fondo, con lui aveva condiviso tutta la vita. Era l'unico che conosceva il suo segreto, la verità sulla famiglia Jaeger. Eppure non l'aveva mai trattato diversamente, giudicato o guardato con pietà: anche quando Eren si sentiva solo al mondo, e così facendo lo feriva, lui non si era mai mosso dal suo fianco. Non avrebbe mai potuto desiderare di meglio, se non smettere ardentemente di invidiarlo: chissà dov'erano i suoi nonni. Se li avesse avuti, sarebbero venuti a cercarlo? O avrebbero preferito restarne fuori, rimanere fantasmi del suo passato, piuttosto che convivere con una situazione disperata come quella?
Il nonno di Armin era immensamente dolce, nonostante avesse vissuto la guerra sulla sua pelle; le sue mani, che nella giovinezza avevano ricaricato fucili e spostato cadaveri, erano tanto gentili quante erano le volte che aveva premuto il grilletto.
Se solo la verità sulla sua vita non fosse stata un segreto da custodire gelosamente, avrebbe voluto porgli innumerevoli domande, a costo di riportare egoisticamente in superficie vecchi ed orridi rimorsi.
Come aveva fatto a superare quegli infidi ricordi? Come riusciva a dormire la notte senza gli incubi del sangue versato, le medagliette strappate, le grida di terrore?
Ma soprattutto, come riusciva ad avere mani così delicate con suo nipote, senza vederle piene di sangue?
«Avanti», disse una voce familiare, una volta che Eren ebbe bussato.
Entrò prepotentemente nella stanza, conscio del fatto che se avesse vacillato anche solo per un secondo, sarebbe corso via senza guardarsi indietro.
«Eren, a cosa devo questa visit-».
«Erwin... come hai potuto? Sapevi chi ero, cosa mi avevi fatto... ma hai ugualmente deciso di farmi crescere, ti sei anche permesso di illudermi! Io ti consideravo mio padre!», urlò il ragazzo, con le lacrime agli occhi, «Mi incitavi a tornare a suonare nonostante quello che hai fatto a mia mamma, nonostante sapessi che avevo smesso di suonare! Però adesso basta: voglio sapere tutta la verità, e stavolta da te in persona».
Il professor Smith sospirò profondamente, passandosi una mano tra i capelli. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato prima o poi, soprattutto dopo che il senso di colpa, oramai giunto al limite, gli aveva strappato quella confessione sussurrata all'orecchio del suo alunno e musicista preferito.
Lo invitò a sedersi ma il ragazzo rimase vicino alla porta, senza muovere un muscolo, fissandolo intensamente. Non poteva scappare, Eren non gliel'avrebbe permesso.
Le sue parole lo avevano ferito profondamente: non pensava di essere tanto importante per il castano, e ciò non fece altro che appesantire il suo racconto, impregnandolo di lacrime e dolore.
«Eren... quel giorno, io...», iniziò, incapace di continuare.
Il castano trattenne il respiro, tentato dal tapparsi le orecchie: non era pronto a sentire quelle parole, non dal suo professore di musica, a cui aveva sempre voluto bene e che aveva sempre rispettato. Non si meritava anche quella pugnalata, l'ennesima che aveva ricevuto da quella vita ingrata in cui si era ritrovato catapultato all'improvviso.
«...ho investito tua madre».

8 anni prima
«Non posso arrivare in ritardo anche questa volta», borbottò Erwin, guidando per le vie di WallMaria.
Il successo della carriera di Erwin Smith era arrivato senza preavviso: da semplice musicista era diventato professore di musica e, dopo aver vinto un concorso, giudice. Quel giorno, in particolar modo, avrebbe dovuto presiedere per la più importante delle competizioni: la stessa che, da giovane, aveva fallito miseramente. Era riuscita a far scomparire in una sola esibizione il suo entusiasmo, la sua passione e il suo duro lavoro. Sorrise a quel ricordo.
Quel giorno sarebbe stato diverso; nessuno lo avrebbe giudicato, ma sarebbe stato lui a decidere le sorti di quelle giovani promesse.
Nonostante avrebbe dovuto, non aveva seguito molto le esibizioni e le storie dei vari ragazzini; sapeva solo quante esibizioni avrebbe dovuto ascoltare e, per di più, i programmi di ognuno erano scritti nei fascicoli forniti ai giudici.
Solo un bambino aveva attirato realmente la sua attenzione: un "prodigio della musica", come veniva definito da molti, il terrore degli altri partecipanti, "l'erede di Chopin e Paganini". Cosa aveva di tanto speciale quel marmocchio, di cui tutti parlavano tanto?
Gli ricordava il sé stesso del passato, quando ancora non era entrato in quello schifoso circolo di musicisti, rovinati dalla loro apparente fama e temibile talento.
Li odiava. Il ricordo delle loro facce soddisfatte gli fece stringere con forza le mani attorno al volante.
Voleva zittirli, dimostrare loro quanto fossero in realtà delle nullità in confronto a lui, distruggerli a suon di ottave. Se solo avesse potuto, sarebbe tornato indietro e gli avrebbe-
«Mamma!»
Uno schianto, un urlo.
Preso com'era dai pensieri, non si era accorto di un ragazzino che aveva attraversato all'improvviso la strada, nonostante il semaforo fosse verde per le auto.
La madre, per salvarlo, lo aveva spinto di lato, venendo colpita in pieno.
Erwin non riuscì a muoversi dal sedile: osservava il bambino piangere, singhiozzare, disperarsi, mentre la madre lo guardava con il sorriso sulle labbra.
«Sono stato uno stupido, non dovevo farti fretta per il ritardo, non dovevo attraversare, ma ti prego, non andartene».
Il ragazzino continuava a scusarsi, finché la madre non iniziò a parlare, a sussurrargli dolci frasi che sembrarono solo farlo soffrire di più.
A quel punto, preso dal panico dopo essersi reso conto di ciò che stava accadendo, Erwin fuggì.
Incidente stradale, omicidio, omissione di soccorso.

Eren pianse per tutta la durata del racconto, trattenendo il respiro nel sentirsi narrare da Erwin. Aveva osato dire ad alta voce la sua colpa, il motivo per cui Carla era morta. Aveva cercato di dimenticare, di nascondere tutto dentro di sé: la lite con sua mamma per il ritardo, l'immagine di lui che - con le manine paffute, tipiche dei bambini - lasciava andare la presa di Carla per attraversare senza di lei.
Era colpa sua e sentendoselo dire da qualcun altro, e non solo da sé stesso, si sentì nuovamente incapace di perdonarsi. Come mai avrebbe potuto farlo?
Era un mostro, un dannato, un peccatore. Ma nonostante questo, tutti erano andati a vederlo suonare, impazienti nell'ascoltare il No. 6 Concert Variations on 'The Last Rose of Summer' in G major di Heinrich Willhem Ernst - lo stesso brano che Levi gli aveva chiesto durante il festival scolastico -, rimanendo delusi nel sapere che non si era presentato.
Il professor Smith, vedendolo piangere, si sentì stringere il cuore; eppure era arrivato ad un punto di non ritorno, per cui si fece forza per continuare.

Poche centinaia di metri dopo, il professore frenò di colpo.
Cosa stava facendo? Non poteva far finta di niente, andare avanti come se nulla fosse con la sua vita; andare alla competizione, fare da giudice a ragazzini che avrebbero potuto benissimo avere la stessa età di quello a cui, pochi minuti prima, aveva appena portato via la madre.
Sbattendo i pugni sul volante, nella più completa disperazione, il professor Smith cambiò direzione, convinto di essere ormai troppo lontano per tornare indietro.
«Buongiorno. Ho investito una donna e sono scappato... vorrei costituirmi».

Grazie alla sua confessione, pochi giorni dopo ci fu il processo.
Una volta entrato in aula, però, non vide il ragazzino di quel giorno, ma solo un uomo con gli occhi di fuoco, che stringeva i pugni come a costringersi di non saltargli addosso e strangolarlo. Doveva essere il marito di quella donna.
«La corte si aggiorna per il verdetto finale», concluse il giudice, incapace di prendere una decisione sul momento. C'erano innumerevoli fattori che la procura aveva sottolineato, ma altrettanti che la difesa aveva evidenziato.
Per ciò che aveva fatto, come minimo, la pena non poteva essere inferiore a 5 anni; ma essendo che l'incidente era avvenuto anche per colpa della vittima, la pena sarebbe stata diminuita a metà, quindi 2 anni e mezzo. Inoltre, essendo il suo primo reato, il suo avvocato aveva giocato la carta della sospensione condizionale della pena. A causa dell'insistenza della procura, però, la condanna non era stata scontata del tutto. Pochi giorni dopo, infatti, ricevette la notizia.
«Erwin Smith: la condanno ad un anno di arresti domiciliari e uno ai servizi sociali per l'omicidio di Carla Jaeger, avvenuto per incidente stradale ed omissione di soccorso da lei commesso».
L'avvocato di Erwin, infatti, gli aveva consigliato l'affidamento in prova ai servizi sociali, che poteva essere concesso al condannato alla pena dell'arresto o della reclusione non superiore a tre anni; a fine processo gli aveva battuto il cinque, ma Erwin non ne era affatto entusiasta: avrebbe preferito marcire per tutta la vita in carcere, piuttosto che sopportare quel peso.

Pochi anni dopo, era tornato ad insegnare.
Nessuno conosceva il suo passato, e fu grato di poter ricominciare da capo: dimenticare quella storia, riprendere la sua vita da uomo libero.
Non avrebbe mai potuto tornare a fare il giudice, però: nonostante avrebbe benissimo potuto portare un'autocertificazione del suo periodo di assenza - come aveva fatto con il Ministero dell'Istruzione, che non richiedeva più i documenti originali - avrebbe potuto benissimo giustificarsi in qualche modo. 
Ma davvero sarebbe stato riaccolto a braccia aperte, dopo quello che aveva fatto? Quello dei musicisti era un circolo ristretto, chiuso, viscido; nessuno lo avrebbe più accettato realmente, ed Erwin non aveva più l'età, e la voglia, di farsi trattare con superficialità.

«Perché non ne sapevo niente?», lo interruppe il ragazzo, incapace di ascoltare oltre; aveva smesso di piangere già da qualche minuto, devastato come un mondo in guerra.
Non poteva credere a ciò che aveva sentito; o meglio, non voleva farlo.
«È venuto solo tuo padre al processo».
Eren aveva già capito il perché non conoscesse la verità sull'omicida della madre, ma stava cercando in ogni modo di ritardarne l'effetto su di sé. Non voleva ricadere in quel baratro, nell'abisso dei ricordi di quei giorni passati nella paura.
Grisha se n'era andato da casa il giorno stesso del processo.
Si era forse reso conto di ciò che aveva fatto, spaventato dalla sua violenza? Si era forse accorto di ciò che toccava a chi infrangeva la legge, della possibilità di andare in carcere?
Era scappato come un codardo dai suoi sbagli, compreso suo figlio, lasciato da solo in quella casa a decomporsi.
«E poi, quattro anni fa... ti ho incontrato».

Erwin non credeva nel destino. Ma quando lo vide entrare nella sua aula di musica, con quegli occhi verdi tanto splendenti da far invidia alla natura, lo riconobbe subito.
Era il figlio di quella donna, il bambino che - anni prima - si era accasciato vicino al flebile corpo della madre, implorandola di perdonarlo.
Il professor Smith iniziò a sudare, nella più completa agitazione, tanto che fu sul punto di scappare.
«Buongiorno professore. Mi chiamo Eren Jaeger e... vorrei sapere qualcosa in più su questo club di musica, visto che penso di iscrivermi in questa scuola. Lei se ne intende di violino? Non lo suono da un po', ma vorrei riprenderlo».
Eren Jaeger.
Il ragazzo prodigio, il bambino graziato dal talento dei grandi compositori, il musicista più bravo della sua età.
Non poteva scappare di fronte a lui, non di nuovo; l'aveva già fatto e la sua mancanza aveva portato alla morte di Carla. Decise quindi di aiutarlo: si informò su di lui, scoprendo che quel ragazzino, dopo non essersi presentato alla competizione, era scomparso ed aveva smesso di suonare. Inoltre tra i suoi avversari, oltre ai sospiri di gioia nel suo ritiro, erano circolate strane voci: che avesse smesso per un lutto di cui lui stesso era la causa, che suo padre lo picchiasse, che avesse perso la passione di suonare, o addirittura che il tutto fosse solo una copertura perché era stato coinvolto in qualcosa di più grande di lui.
Erwin non sapeva quale di quelle supposizioni fosse corretta o, perlomeno, realistica: dopo aver scoperto la sua identità, però, non poteva fingere di non conoscerlo.
Decise che l'avrebbe cresciuto, aiutato a tornare a suonare davanti ad un pubblico, su un palco trepidante e impaziente di vederlo inchinarsi, inspirare quell'aria carica di adrenalina e tensione, sentirlo suonare, tastare con mano i suoi sentimenti e gustarsi la sua esibizione.

«Eren, so che non ti ho mai chiesto scusa per quello che ho fatto qualche mese fa, ma... mi dispiace», sussurrò il professore, abbassando lo sguardo, vergognandosi delle sue azioni. Si sentiva come se non ne facesse una giusta, perseguitato dal suo talento nel commettere errori e rovinare sempre tutto.
La verità era che, con il passare degli anni, si era affezionato al castano: sentiva di volergli bene in modo morboso, era geloso, si sentiva possessivo, e per questo si era avvicinato pericolosamente a lui, mesi prima. In realtà non desiderava il ragazzo, come poteva in realtà sembrare; il suo era un modo per allontanarlo da chi credeva tossico, nocivo per la sua salute. Sapeva già da tempo che Eren era innamorato di qualcuno e, quando le sue attenzioni sembrarono fin troppo rivolte verso il suo collega Ackerman, decise di intervenire; ma alla fine non fece altro che peggiorare le cose, avvicinando i due e spezzando la fiducia dello Jaeger nei suoi confronti.

Eren continuò ad ascoltare in silenzio, senza versare nemmeno una lacrima. Si sentiva svuotato, incapace di sopportare oltre; i ricordi sembrarono smembrarlo dall'interno, scomporlo fino a ridurlo in microscopici frammenti, ostruendo le fessure della sua corazza che gli permettevano di respirare, di nascosto, come se non lo meritasse, come avrebbe fatto un ladro.
Stringeva i pugni in silenzio, fissando un punto imprecisato del pavimento, evitando lo sguardo del professor Smith, che invece lo fissava intensamente, in attesa di una risposta.
Lo Jaeger provò talmente tanto odio da doversi conficcare le unghie nel palmo della mano per impedirsi di gridare; lo riteneva colpevole di tutto.
Se Erwin fosse stato più attento, se solo non avesse pensato solo a sé stesso, se solo non fosse scappato senza soccorrere Carla... sarebbe stato tutto diverso. Sua madre, probabilmente, sarebbe ancora viva, Grisha non l'avrebbe odiato, avrebbe continuato la sua carriera nel mondo della musica, e di certo non sarebbe cresciuto solo.
Continuava ad appuntarsi mentalmente quell'elenco, ripetendolo come un mantra, cercando di autoconvincersene; in verità, il ragazzo sapeva che la colpa, a pari merito, era anche sua. Se non avesse peccato d'impazienza, Erwin non avrebbe avuto niente di cui stare attento; eppure solo il professore aveva scontato la sua pena, compresa quella di Eren stesso.
Scacciò prepotentemente quel pensiero, deciso a non prendersi la colpa per intero come aveva fatto in tutti quegli anni. Aveva passato tutta la vita a darsi la colpa, senza pensare che - in fondo - non era lui al volante, quel giorno.
Chi era stato quindi ad aver ucciso Carla? Erwin, o lui stesso?

«Eren... non sprecare la tua vita odiando qualcuno...»

In quel momento, nonostante l'assassino avesse finalmente acquisito una forma, sfregiato un viso e disonorato un nome, Eren non riuscì a ritenerlo colpevole.
Erwin aveva già pagato per il suo errore, scontando la pena - anche se non interamente - che la giustizia aveva ritenuto più consona. Era giusto odiarlo ancora?
Sì, lo era; lo odiava da impazzire, gli aveva rovinato la vita. Però no, non lo era; e in fin dei conti non lo odiava nemmeno più di tanto.
Alzò lo sguardo, incontrando finalmente gli occhi di quell'uomo distrutto che, per dimostrargli la sua sincerità, si era spogliato del suo orgoglio; con lo sguardo del primo peccatore della Terra, che aveva condannato di conseguenza le sorti dell'intera umanità, Erwin gli sorrise, per trattenere le lacrime.
Come aveva fatto sua madre, mentre si spegneva di fronte alle lacrime del figlio, a sapere di quali parole avrebbe avuto bisogno nel momento in cui avrebbe affrontato quella realtà?
Perseverando con quel rumoroso silenzio, il ragazzo lasciò la stanza, abbandonando il suo maestro nonché professore di musica solo con sé stesso. Non aveva bisogno di urlargli contro, di rimproverarlo: bastavano già i suoi demoni a tenerlo sveglio la notte, ed Eren non voleva essere complice dell'annichilimento di quell'uomo al quale, anche se fece fatica ad ammetterlo, aveva sempre voluto bene come un padre.

In realtà, era fin troppo semplice rispondere alla domanda che, per tutto il tragitto verso casa, frullava nella mente del castano.
Benché il giovane non se ne capacitasse, né potesse credere in un'assurdità come il vero amore, ebbene: quest'ultimo esisteva davvero. Tant'era che Carla, mentre gli suggeriva sottovoce come vivere al mondo, non pensava ad altro che al pargoletto dagli occhi di smeraldo che aveva stretto tra le braccia fin dalla sua nascita.
Eren era stato il motivo per cui, anche quando tutto sembrava infrangersi con violenza al suolo, lasciandole unicamente i cocci rotti del suo cuore spezzato, era riuscita ad andare avanti. Lo amava profondamente, senza "se" e senza "ma", come solo una madre poteva fare con il bambino che aveva messo al mondo, sperando che anche lui - crescendo - potesse dare ad un'altra persona quello stesso amore. E, per quanto fosse questo concetto degno del periodo del Dolce Stil Novo o, addirittura, di un poema epico, la verità dietro le madri era semplicemente che, anche di fronte al rifiuto dei propri ragazzi, non desideravano altro che la loro felicità, pronte a mettersi da parte per far sì che raggiungessero quello scopo.
L'amore materno, al ragazzo che camminava strisciando i piedi sull'asfalto per le vie di WallMaria, era materia sconosciuta; aveva sentito dire che i genitori fossero in grado di amare anche senza aspettarsi nulla in cambio. E sapeva che era possibile, se non addirittura reale: e così aveva sempre giurato a sé stesso che se mai fosse rinato, avrebbe dedicato la sua vita a far sentire amata la sua mamma. Le mancava, tanto da avere il terrore di dimenticarla.
Non la vedeva da troppo tempo, e la possibilità che la sua memoria potesse cancellare dai suoi ricordi il candido volto di quella donna non faceva che aizzare la sua più infima paura. Il viso di sua madre, anche se avvolto dai fari delle auto e dai colori sgargianti del semaforo, l'aveva sempre sentito inciso sulla sua pelle, marchiato a fuoco sul suo cuore gelido. Una dolce incrinatura, che nessuno avrebbe mai potuto limare via.
L'aggrapparsi a Carla era di certo un profondo gesto d'amore, ma anche uno immensamente egoista: la costringeva a rimanere in eterno in quel luogo, tra le pareti di quella casa; la invocava ogni qual volta l'archetto passava sulle corde tese del suo violino, quasi a ricordargli che, avendo avuto una madre, lui esisteva. O, perlomeno, era esistito. Non voleva che il suo nome riecheggiasse nelle sale dei concerti, ma desiderava prendere di suo pugno scalpello e mazzuolo per scavare la sua musica nelle anime degli altri.
Ed Erwin, che l'aveva sempre spinto a tornare a suonare, non riusciva proprio ad odiarlo. Ma con chi poteva prendersela allora, per quella vita dannata, se non con sé stesso?
Rientrò a casa sbattendo la porta, ignorando la presenza di Levi seduto sul divano. Senza degnarlo d'uno sguardo, infatti, prese il violino ed iniziò a suonare con tanta rabbia da essere certo di star facendo soffrire il suo amato strumento.
Gli chiese perdono quando, insoddisfatto, lo mise da parte per un attimo per accendersi una sigaretta, inalando a pieni polmoni quella droga e sbuffando dal naso, come un drago, il fumo in eccesso.

Shostakovich - Symphony no. 10, Movement 2

«Eren, che cazzo ti è successo?»
Il castano ignorò la domanda, suonando i quattro minuti di quel brano completamente imbottito dalla rabbia, mentre la cenere della sigaretta cadeva per terra e il fuoco la consumava fino al filtro, dove si mormorava aleggiassero tutte le peggiori malattie.
Levi lo fissava incredulo, vedendolo pervaso dalla furia degli elementi, ma sempre capace di suonare impeccabilmente, forse fisicamente incapace di sbagliare una nota.
Prendendo tempo per rispondere al corvino, Eren tentennò: fino alla sera prima si era deciso di essere sincero e raccontargli tutto, dato che non poteva rimproverarlo di avere dei segreti se lui stesso, per primo, si teneva tutto dentro.
Consapevole che quella storia avrebbe alimentato maggiormente l'odio di Levi nei confronti del suo collega, dopo aver sospirato sommessamente ed aver posato sul tavolo il violino, gli raccontò ogni cosa.

«La cosa peggiore è che per quanto io stia cercando di arrabbiarmi, te lo giuro, non ci riesco... forse perché do più la colpa a me che a lui per quello che è successo. Oggi, quando mi ha ricordato quello che le ho fatto... quell'errore, che tanto ho cercato di dimenticare... mi è tornato tutto in mente, come se fosse successo per la seconda volta: l'incidente, le parole che mi ha rivolto...»

«Eren...»
Nel raccontare a Levi del suo passato, si sentì catapultato nuovamente nell'incubo che lo perseguitava da tempo ormai immemore; la sua voce era ruvida, rauca, segno dello sforzo che stava facendo per raccontare; le sue corde vocali si strinsero, come nell'abbraccio di due amanti gelosi.
«Eren... sono egoista ad andarmene così, ma ti prego, non perdere la speranza», sussurrò la donna una volta che il bambino ebbe smesso di urlare, chiedendole scusa mentre la pozza di sangue si allargava. La mora allungò il braccio verso di lui, come a volerlo cogliere, consapevole - però - di non averne le forze. Il bambino la fissava in preda all'angoscia, sperando solo in un brutto sogno dal quale si sarebbe presto svegliato. Trascinandosi senza forze sull'asfalto, mentre il conducente dell'auto fuggiva e la folla intorno a loro si riuniva per chiamare un'ambulanza, Eren raggiunse la madre, poggiando il viso sulla sua mano.
Se solo non avesse, se solo non, se solo, se...
«Eren, mangia cibo salutare. Lavati ogni giorno e dormi il giusto, così avrai la forza di affrontare la giornata. So bene che l'alcol e il fumo attirano quando si è ragazzi, ma ti prego, ricordati che nella vita gli eccessi fanno male in tutto.
Rispetta gli insegnanti, lavora sodo, fatti degli amici fidati, impegnati nello studio, divertiti, stai attento quando presti o prendi in prestito del denaro, fai sempre ciò che ti fa stare bene, suona il violino con il cuore, trova una persona che ti ami per quello che sei...
Vivi, Eren».
Fu a quel punto che il bambino non riuscì a trattenere le lacrime, che gli solcarono il viso impedendogli di vedere chiaramente. Lei asciugò il viso del figlio, per poi sorridergli.
«Non piangere, amore mio. Ricorda che mamma ti ascolterà suonare, ovunque sarai, per sempre».
Eren continuava il suo pianto disperato, scuotendo la testa, stringendo la mano - inaspettatamente calda - della madre.
Non voleva che se ne andasse, non poteva lasciarlo solo, dovevano fare ancora così tante cose... il bambino guardò dietro di sé, sperando di scorgere l'omicida che, però, era già fuggito.
«Ti prego, non sprecare la tua vita odiando qualcuno. Quando nasciamo, c'è a malapena il tempo di amarsi l'un l'altro», lo rimproverò con lo sguardo, sperando che non dissipasse la sua vita alla ricerca di una stupida vendetta; con le ultime forze rimaste si strappò la chiave che portava al collo, posandogliela tra le mani insanguinate.
«Prendi la mia collana... volevo dartela quando saresti cresciuto, ma fa lo stesso, sei già un ometto così grande!»
Rosso, giallo, verde. Nel silenzio di quella scena, il semaforo continuava imperterrito a lampeggiare, adempiendo al suo ingrato lavoro.
«Eren... d'ora in poi affronterai dolore e difficoltà. Sarà dura, però tu resta sempre te stesso. Ci sono così tante cose... che vorrei dirti, insegnarti...
Vorrei poter restare di più con te, piccolo mio... ti voglio bene...»
L'esile mano che tanto si era ostinato a stritolare aveva improvvisamente lasciato la presa; Carla se n'era andata così, con gli occhi dorati ancora aperti ed un dolce sorriso sulle labbra, consapevole di aver detto tutto ciò che poteva, consumando il suo tempo a disposizione.
E, per quanto amasse suo marito, non gli aveva dedicato una singola parola; sapeva che avrebbe capito, che salutare Eren era più importante del loro amore, che sarebbe durato in eterno.
A quel punto del racconto, però, Eren era fin troppo scosso per continuare; Levi non sapeva tutto, non sapeva che Grisha in realtà non aveva capito la moglie, che non si era comportato da padre, che aveva maltrattato il figlio che Carla tanto amava e per il quale aveva sacrificato la sua vita.
La mattina dopo l'incidente Eren non si risvegliò; questo perché, semplicemente, non era riuscito a chiudere occhio. La parte peggiore fu, in assoluto, ancor più del dolore inflittogli da Grisha, quando si risvegliò dal "brutto sogno" in cui tanto aveva sperato. Solo a quel punto, però, si accorse che non lo era stato affatto, che era tutto reale, e che aveva appena compiuto i diciotto anni di una vita che non aveva fatto altro che deluderlo, trascinandolo sott'acqua e lasciandolo consumare nelle profondità dell'oceano.
Eren non aveva obbedito alla madre: le sue parole lo avevano mantenuto, più o meno, sulla retta via. Ma nonostante questo, nonostante gli avesse esplicitamente chiesto di amare, di continuare a vivere, lui fumava ed aveva sempre odiato una persona; la odiava talmente tanto da vederla ovunque. La mattina, non appena sveglio, sentiva la sua voce rimbombargli in testa, e da quel momento non lo lasciava stare un attimo; lo seguiva tutto il giorno, fingendo di non vederlo, per poi piantare il suo sguardo dentro quello di Eren quando lui si girava per controllare; lo perseguitava davanti alle vetrate dei negozi, nel mare che tanto amava, nei bagni della scuola e perfino in quello di casa sua. Finché, guardandosi allo specchio, non aveva capito: quella persona che tanto odiava, e di cui non era riuscito a liberarsi... era Eren Jaeger, sé stesso.
Avrebbe tanto voluto tornare indietro, guardare Carla negli occhi, baciarle le guance, e - a semaforo verde - afferrarle quel vestito giallo pastello ed attraversare insieme la strada che l'avrebbe fatto diventare un uomo.
«L'ho capito alle scuole elementari; da quando lei non c'era più, la casa era un mortorio, a tavola nessuno parlava. Nessuno voleva arrivare a tanto, ma come se fossimo posseduti da qualcosa, andammo avanti così...»
Non poteva dirgli che dalla morte di Carla aveva smesso di mangiare o che, a volte, non gli era concesso. Non ne aveva la forza in quel momento, scosso dagli avvenimenti, in preda allo sconforto.
«A scuola ho sempre fatto di tutto per non attirare l'attenzione; ho sempre e solo voluto... scappare. Non posso continuare a stare in un posto in cui sto male. Ma anche se non scappassi, sarei comunque solo», disse Eren, zittendo in tempo Levi che voleva rispondergli a tono, «Sì, amore, tutti mi dicono sempre la stessa cosa: "non dovresti scappare via". Ma sai, mi chiedo se è vero. Si è davvero destinati a rimanere soli... nel momento in cui si fugge via?»
Levi, seppur infastidito dall'essere stato interrotto, non riuscì a contraddirlo nuovamente. Voleva fargli capire che l'avrebbero affrontato insieme, che lui non c'era stato fino a quel momento ma che avrebbe rimediato, che avrebbe continuato a chiamarlo con quel dolce nomignolo per il resto della vita.
Si avvicinò lentamente alle sue labbra, congiungendole in un dolce bacio.
«Tu non devi rimproverarti di nulla... hai sempre fatto il possibile», gli disse, tra un bacio e l'altro, «Tua madre ti amava a tal punto da dare la vita per te, e per questo non devi avere paura».
La voglia di unirsi nuovamente salì incredibilmente ad entrambi; e mentre si spogliavano, lentamente, cercando di interrompere il meno possibile la loro collana di baci, Levi continuava a parlargli sottovoce, sperando di colmare il vuoto che si portava dentro da tanti anni. Anche in questo, i due erano talmente simili da ferirlo, ricordargli i suoi peccati, quanto fossero indelebili, e come aveva fallito nel perdonarsi.
Non poteva pretendere questo da Eren, quando il professore stesso non era in grado di dimenticare i suoi errori. Ma di certo poteva ammorbidirgli il dolore, baciargli le ferite, leccare via gli orridi pensieri.
«Non ti lascerò mai solo... non lo sarai mai più, te lo prometto», continuò a sussurrare dolcemente, scendendo a baciare il collo del ragazzo che, nel frattempo, aveva tolto anche l'ultimo indumento rimastogli. Entrambi nudi, l'uno nelle braccia dell'altro, non potevano fare altro che amarsi; Levi si mise prono, con le mani che - smaniose - cercavano il lubrificante nel cassetto del suo comodino.
Subito dopo lo passò ad Eren, guardandolo intensamente nella sua espressione stupita.
«Voglio che tu mi ami, Eren», disse solamente, sperando che bastasse a fargli capire le sue intenzioni. Voleva essere posseduto dal ragazzo, sentirlo dentro di sé e godere nel vederlo venire grazie al suo corpo.
«Levi... amore... ti amo così tanto», disse il castano, preparando l'entrata del professore ad accoglierlo. Non avrebbe mai pensato di poter fare suo il corvino, e vedendo che lui lo riteneva un suo pari, gli si scaldò il cuore.
«Eren... se un giorno ti venisse difficile stare con me... scapperai di nuovo?», sussurrò a quel punto l'Ackerman, una volta che il più piccolo fu dentro di lui.
Stinse con forza le coperte, reprimendo le lacrime: come poteva quel ragazzo aver passato una vita tanto simile alla sua? Perché il destino aveva voluto mettergli davanti quell'amore così forte, legato però a così tanti spiacevoli ricordi?
Le spinte si fecero sempre più intense, ma nessuno dei due era ancora pronto a venire. Eren voleva sentire ancor di più il professore, amarlo fino in fondo e riempirgli il cuore; Levi, invece, tratteneva in sé l'impulso di piangere, di abbracciare l'uomo che in quel momento lo stava amando, raccontandogli tutta la verità sul suo passato.
Anche il corvino aveva peccato, anche lui era solo da tutta la vita. Ma come poteva dirglielo, sperando che ciò lo facesse sentire meglio? Consapevole dei sentimenti del ragazzo, e conoscendo i suoi, sapeva che raccontargli tutto, in quel momento, lo avrebbe distrutto.
«Io non scapperei mai da te... ti amo, ti amo, ti amo...», rispose Eren, quando ormai il professore aveva perso le speranze in una risposta.
Così si lasciò sfuggire dei gemiti di piacere, si lasciò accarezzare con amore su tutto il corpo, lasciando che il suo petto bruciasse dall'intensità; permise a qualche lacrima di eludere il suo controllo, trattenne i singhiozzi, vibrò dal piacere; sudò via ogni ricordo della sua adolescenza, venendo sulle lenzuola invocando il nome dell'amato mentre Eren si svuotava in lui, per poi abbracciarlo di slancio e baciargli la schiena, risalendo fino al collo.
Si accasciarono nel letto, ignorando il seme che ancora stillava dalle loro erezioni; Eren si accoccolò sul petto del maggiore, stringendolo con forza, come se solo lui potesse capirlo nella vastità dell'universo.
Nessuno dei due fiatò, né spiccicò una singola parola: entrambi erano troppo presi a riflettere, per motivi diversi, sull'altro.
"È giusto privarlo della sua giovinezza? Sono pur sempre più grande... è egoista per me desiderarlo tanto? Sono egoista nel volergli raccontare di me, di come abbiamo fatto gli stessi errori?", pensò il corvino, lasciando una serie di baci tra i capelli del ragazzo.

«Non mi sento tanto bene, Levi, per oggi torna a casa».
«Maestro, la prego! Facciamo mezz'ora di lezione, anche meno, e le giuro che andrò via!»
«Va bene, va bene, moccioso. Solo mezz'ora».

"Posso farcela. Con Levi, posso farcela."
Eren continuava a pensare alla stessa identica frase: a volte la riformulava, ci giocava un po', ma alla fine tornava alla sua forma originale, soffermandosi su ogni singola parola. La analizzò attentamente: analisi grammaticale, logica e del periodo.
Si sentì, per qualche attimo, felice. Se ne accorse dal peso sul petto che sembrava finalmente scomparso, dal suo mal di testa perenne che era scemato velocemente, dal sorriso che gli nacque spontaneo nell'incontrare gli occhi grigi dell'uomo che amava.
«Grazie, amore», disse, baciandolo.

Sperava ancora di rincontrare Carla, un giorno. Se esisteva un Dio, magari l'avrebbe capito, concedendogli un incontro prima di farlo sprofondare all'inferno.
L'avrebbe guardata di nuovo con gli occhi di un bambino, si sarebbe fatto cullare dalla sua voce e dal suo caldo abbraccio, dentro il quale si era sempre rifugiato.
Avrebbe nuovamente goduto di tutto quell'amore che gli era sempre mancato, raccontandole di sé, della vita che aveva appena vissuto, scoprendo magari che lei l'aveva osservato per tutto il tempo, ridendo nel pensare alle follie che aveva commesso, come al passare diciotto anni nel rimpianto, nel rimorso, suonando solo con nostalgia.
Immaginava di vederla uguale a come la ricordava: le lunghe ciglia, gli occhi di caramello, i capelli lunghi sempre tenuti legati per la paura che potessero cadere nei piatti mentre cucinava.

Le avrebbe sorriso con amore,
«Mamma, adesso però basta. Lasciami fiorire».
per poi andarsene, senza più voltarsi indietro.


🌸Angolo S e r e n a🌸
Buonasera/giorno cari lettori e lettrici ♡
Vi presento il secondo capitolo più lungo che io abbia mai scritto: 6879 parole 😂 Spero vi piaccia, è stato pesante da scrivere ma talmente importante da farmene innamorare.
E poi ehi, non avete dovuto aspettare troppo questa volta per l'aggiornamento! 🥰
La fine mi dà un senso di pace finalmente raggiunta... non so come spiegarlo, ma mi fa stare bene.

Voi che ne pensate?
Soprattutto date le recenti scoperte... voi avreste perdonato Erwin?

Se non dovessimo risentirci, buon Natale a voi e famiglia! 🎅🏻🤶🏻💕

Grazie infinite, come sempre, per tutto il supporto ed i vostri meravigliosi commenti! Spero di non essermene perso nessuno, in ogni caso cercherò di rispondere a tutti 🙈 Vi voglio bene, grazie per tutto!

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