Tears of an Angel [AngelxDemo...

By Harashan

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Tsarn odia gli umani, perché non sopporta che Dio possa perdonare la peggior feccia quando la sua gente, gli... More

Dies Irae
Réquiem Ætérnam
Mea Maxima Culpa
Homo Homini Lupus
Actus Contritionis

Angelus

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By Harashan


Trono delle Virtù, Cielo di Marte, Paradiso

Aveva iniziato a percepire diversamente la propria esistenza da molto prima di conoscere l'Ira, perché, seppur davanti a lei non l'avesse ammesso, era scesa sulla Terra già molte volte prima dell'anno umano settecentonovantatre, e nella maggior parte dei casi si era vista rinnegare da gesti tremendi che erano stati l'equivalente di una pugnalata al cuore -ma non era mai arrivata a mettere in discussione se stessa; fiduciosa dell'essere l'espressione dell'Amore di Dio, aveva accusato i Vizi di tutta la cattiveria di cui era stata testimone, incapace di comprendere per prima la propria mancanza.

Trovava buffo che fosse stato proprio un demone a togliere il velo dell'ignoranza dai suoi occhi, ma ora sedere sul proprio trono cristallino per restare semplicemente a guardare mentre un'altra anima innocente pagava lo scotto della propria bontà le risultava penoso -si sentiva inutile, e il vuoto che le si era aperto nel petto si ampliava di momento in momento, una macchia nera che non sapeva come lavare via.

Le sue sorelle non facevano caso al suo dolore, troppo impegnate a crogiolarsi nella luce divina che ispirava il loro nullo operato, e oramai persino la loro compagnia era diventata motivo di insofferenza. Come potevano essere così cieche? Come potevano non accorgersi di niente quando l'evidenza era così prepotente da bruciare lo sguardo? E perché sembrava che a nessuno importasse niente?

Era ingiusto ed era reale, e la conoscenza, a discapito di quanto avesse sempre creduto, era peggiore dell'ignoranza, perché non era comunque abbastanza per scoprire il più grande disegno, e la limpidezza delle cose era un tarlo che tormentava mente e anima -il corpo no, ma se ne avesse avuto uno, era certa che anche quello avrebbe sofferto.

Eppure da quando era tornata in Cielo l'ultima volta un'altra urgenza spezzava la monotonia del proprio crogiolarsi nell'autocommiserazione: sentiva impellente il desiderio di rivedere lei, di poterle parlare e trovare conforto nel suo limpido disprezzo... e nel suo volto.

L'Ira aveva un volto meraviglioso, invero, e un sorriso ancora più dolce.


***


5 Novembre 1643, Via di Ripetta, rione Campo Marzio, Roma, Stato della Chiesa, Italia

Definire la Via di Ripetta come l'Inferno in Paradiso era come paragonare acqua e vino: troppo semplice e a tratti inutile, poiché lì, proprio sotto l'occhio della Santa Madre Chiesa, si consumavano gli atti più lussuriosi e infidi tra le gambe di qualsivoglia prostituta imbellettata (o prostituto, nonostante gli idiomi umani preferissero negarne l'esistenza persino nella parola). Persone senza passato né futuro, lucciole nella notte che si vendevano per vivere il presente a spese di chi, volgarmente parlando, non sapeva tenerlo nei pantaloni, ma a far ridere di più Tsarn -che si trovava lì per puro divertimento- era il vedere parroci e prelati acquattarsi negli angoli più bui e cedere alla tentazione del sesso.

Akrasía l'aveva abbandonata all'angolo della via non appena aveva visto il libido brillare negli occhi di un uomo -e non per la vista di un bel seno di donna- e ora vagava sola tra sodomiti e lussuriosi, accompagnata dal vento dell'est e con i gemiti del piacere nelle orecchie, un sorriso ad incurvarle le labbra e il cuore leggero. La maschera che indossava era quella di una donna androgina senza petto né curve ma con la pelle d'avorio e gli occhi di ghiaccio, ed era così reale che il freddo gelido dell'autunno ormai al termine le provocava brividi sulle braccia nude.

Viva -da quanto non si sentiva così?

Due uomini giovani si godevano all'angolo di un palazzo, voluttuosi e peccaminosi e veri, e i loro corpi combaciavano come le due perfette metà di un frutto proibito. Tsarn respirò il loro desiderio come aveva un tempo respirato l'incenso di una chiesa, ma questa volta non furono i polmoni a bruciare.

Tra le gambe, la voglia di essere intera era un prurito che non sapeva come domare.

Distolse lo sguardo, solo per allacciarlo involontariamente in un paio di occhi caldi color della terra bruciata che brillavano di -sollievo? Sul serio?- e riconobbe la Virtù solamente dal sorriso.

Agape aveva scelto di crearsi un corpo, quella volta, un corpo di donna pieno ma casto dalla pelle bruciata dal sole, avvolto da un abito povero che tuttavia non toglieva nulla alla dolcezza del volto tondo e della voce cristallina con la quale la salutò. Sembrava contenta di vederla, e se solo non fosse stato troppo improbabile, Tsarn avrebbe giurato che era persino impaziente.

«Sei qui per misericordia?» Domandò, tentando di rimanere distaccata (puro istinto, perché, anche se non l'avrebbe mai ammesso apertamente, nel profondo aveva sperato di rincontrarla).

L'altra alzò le spalle, le gote umane colorate da un tiepido rossore: «Forse. Tu ne hai bisogno?»

Tsarn rise, riconoscendo in quelle parole un'ironia tutta nuova che scoprì piacerle: «Credevo che agli occhi di un Angelo il Vizio avesse sempre bisogno della Virtù.» Scherzò, poi le porse il braccio come aveva visto gli umani fare più volte, quella e altre notti. «Vogliamo camminare?»


***


Si erano sedute sulla riva di un Tevere limpido come uno specchio e con le luci di una città eterna dietro le spalle, e ora bagnavano le gambe nude nell'acqua per godere dell'innocente illusione di essere chiunque -Agape non se lo sapeva spiegare, eppure da quando si avvolta nella maschera del proprio corpo mortale aveva mutato persino le preoccupazioni, e tutto sembrava così minuscolo di fronte alla maestosa bellezza di Castel Sant'Angelo.

Non era la prima volta che scendeva a Roma, perché era il luogo prescelto da Dio e come Angelo era suo dovere levarlo in gloria con la sola aura della sua divina presenza, ma mai il suo eterno sguardo era riuscito a cogliere la meraviglia dei rioni e del marmo che ne costituivano l'anima o a fermare nel tempo l'immagine pittoresca di migliaia di secoli che convivevano l'uno accanto all'altro.

Ed ora eccola come non avrebbe mai immaginato, in silenzio ai piedi della storia umana e con la sensazione in petto di essere piccola -vedeva con gli occhi finiti dei mortali tutto ciò che le era sempre sfuggito, la luce delle stelle riflessa nell'acqua, il cielo buio che accoglieva le guglie di alte chiese e cupole... la gloria terrena di una divinità degli stracci, anche, perché persino nei quadri della Vergine si leggeva la miseria di una semplice e popolana modella.

Ma era abbastanza per desiderare di essere altro.

«Alla Stella del Mattino non piacerà questo nostro incontro.» Esordì l'Ira, il volto alzato per guardare la volta celeste, ma nonostante le parole non c'era traccia di preoccupazione nella sua voce. Le sue gambe nude ciondolavano immerse nel fiume, e l'acqua smossa le schizzava la lunga gonna.

Agape inclinò un poco la testa: «Lucifero?» Domandò, perplessa: «Non lo temi?»

«Affatto.» L'altra accennò un sorriso, e abbassò gli occhi per poterla guardare: «Io lo rispetto, il che cambia completamente la prospettiva... lo servo solamente per mio volere, perché lui rappresenta tutto ciò in cui più fortemente credo. Ma non so perché ne parlo proprio con te.»

«Forse ispiro confessioni?» Azzardò, gioendo poi nel vedere sortito l'effetto sperato.

L'Ira rideva con la bocca nascosta dietro le mani per nascondere il proprio divertimento, e con piccole lacrime all'angolo degli occhi violetti di peccaminosa e androgina creatura.

Agape rise assieme a lei, ma poi un "non credevo che gli Angeli conoscessero l'ironia" smorzato dall'ilarità uccise il sorriso sulle sue labbra.

Angelo... no, non poteva chiamarsi tale, non se patteggiava con i demoni per riscoprirne la bontà e la bellezza nascosta.

«Non sono un Angelo.» vomitò quasi senza accorgersene: «Sto disubbidendo a Dio stando qui, non mi merito di esserlo.»

Sentì l'Ira sospirare accanto a lei e poi la sua mano gelida sulla spala: «D'accordo, ascoltami, perché quello che sto per dire sarà umiliante e non ho intenzione di ripetermi.»

Agape le rivolse un'occhiata perplessa: «Cosa?»

«Tu soffri, Agape, perché il bene che rappresenti qui sta morendo, nulla più e nulla meno. Se non fossi più degna di chiamarti Angelo solamente per questo, allora Dio non è nient'altro che tiranno e carnefice.» Un secondo sospiro: «Io sono quello che sono perché l'ho voluto, perché ero stanca di servire, ma tu... tu stai solamente amando, e non c'è desiderio più puro e divino.»

«Io..»

L'Ira la fermò on un gesto perentorio: «E adesso basta, ho pur sempre una reputazione da difendere.» Le labbra incurvate verso l'alto nonostante le parole, tornò a scrutare la volta stellata che già schiariva in attesa di un'alba dai contorni d'oro.

Baciarla le sembrò la cosa più giusta da fare, ma quando trovò la sua bocca scoprì di star rispondendo ad un bisogno durato secoli di logorante attesa; saggiò il suo sapore di polvere e fuoco, respirò il profumo sulfureo della sua pelle -non pensò che era l'Inferno quello sulle sue labbra, non pensò al peccato che stava commettendo. Era bello, ed era giusto, e la colpa non rientrava nel quadro perfetto che espandeva ogni suo senso.

L'Ira, dal canto proprio, l'accolse con sorpresa e incredulità, ma non la respinse. Invero, dischiuse le labbra, ubbidendo all'urgenza nel petto, nella testa -tra le cosce, per Lucifero! Era la carne che la chiamava, era il desiderio che urlava e la perfezione infinita della più pura Virtù che le si offriva cercando il suo abbraccio. E Agape -maledetto Dio che l'aveva creata- sapeva di ogni cosa, sapeva di stelle e sole e luna e cielo -di terra, e mare, dei fiori che aveva visto e mai toccato, del Tevere e della notte della Roma papale che le guardava e le avvolgeva, benedicendole col suo eterno abbraccio di marmo e storia.

Assecondò l'istinto di affondare le mani nella criniera dorata dei suoi capelli, voltandole la testa all'indietro per godere ancora di più del suo frutto proibito, ora che non c'erano barriere trascendenti a separarle; succhiò il suo labbro inferiore finché non divenne scarlatto, lo morse e lo vezzeggiò riscoprendone la dolcezza, poi insidiò la lingua nella sua bocca per poterla avere tutta, e Agape la lasciò fare, si lasciò baciare nel più intimo dei modi mentre le sue mani vagavano per conoscere, scoprire e marchiare quel corpo estraneo, quelle forme umane che fin'ora aveva solo visto..

L'Ira la abbandonò senza fretta, perché il respirare era una finitezza che non aveva potuto né voluto permettersi, e quando fu abbastanza distante da contemplare il suo viso, le sue mani carezzarono con nuova delicatezza le sue guance piene e rosee e morbide: «Non credevo che gli Angeli sapessero essere così intraprendenti.» Scherzò, ma senza malizia, e la risata di Agape sembrò quasi competere con le stelle.




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