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By ochaurobora

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Anna Baroni ha 27 anni, un incarico da interprete e una vita noiosa. Fino a quando, un mattino, esce di casa... More

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By ochaurobora


Lo spazio. L'immensità di tutto quello spazio, cielo, terra, buio ma non come là dentro, un buio nuovo, fatto di mille bui diversi. La vertigine, agorafobia non riconosciuta, troppi respiri tutti insieme. E poi il gelo a morderla, azzannarle le spalle per prime, poi i fianchi, le gengive mentre l'aria veniva risucchiata tra i denti. E tutto questo senza fermarsi un istante, nessuno schiocco a raccontarle di una porta chiusa che invece era stata bloccata a metà strada mentre lei correva storta, mille sassolini a ferirle la pianta dei piedi già nei primi dieci passi. Teneva la scheggia stretta nel pugno, la punta in avanti.

Se spara

se sento il bruciore alla spalla

meglio morire libera, pur di non essere presa di nuovo

ammazzata sì, prigioniera no.

Come Saverio, come se quel momento si fosse ricollegato con il loro unico bacio, i ricordi delle settimane seguenti strappati a rinnegare se stessa, Anna corse incontro alla morte, senza ricollegare che Lui gli aveva sparato, con un proiettile, non con il narcotico. Ogni balzo rachitico la spingeva verso un buio di fronde e frasche ed erbe immobili senza strade o sentieri o luci che non fossero quella della luna, due metri e sarebbe stata su un terreno incolto, dieci metri e cominciava il bosco, intorno l'abbandono a perdifiato. E Anna lo puntò, mentre alle sue spalle il fucile scattava, ricaricato, i passi arrivavano alla ghiaia, poi si fermavano, ma lei corse, corse lo stesso, aspettando il bruciore, la scheggia sul collo, ma invece

forse

no

no, ne era sicura

un motore.

Il silenzio interminabile. Anna si sentiva ferma, era ferma, e invece il bosco le veniva incontro e nessuno sparava ma nemmeno il motore si sentiva più. Uno scatto lontano. Un suono? Era un uccello notturno? Qualunque cosa fosse la ghiaia crepitò, i passi rientrarono precipitosamente, la porta non sbatté ma faceva lo stesso e Anna trovò tronchi e rami e i piedi si ferirono ancora, rumorosi sugli aghi secchi e le foglie morte e la neve, sì, ancora una rimanenza di neve. Dal buio un grido

«Oh cazzo! Oh dio, oh cazzo!»

e poi la luce.

Fari. Fari che arrivavano da un sentiero che invece c'era, eccolo, eccolo lì, c'era un'auto poco lontana, magari qualcuno che era finito in panne proprio lì, e Anna avrebbe dovuto gridare "State attenti! Non venite, ci sono i mostri!" ma batteva i denti e non se n'era accorta, li batteva così forte che non riusciva ad aprire la bocca. Il motore ripartì e lei si mosse istintivamente in direzione dei fari.

Poi uno sparo.

Uno sparo vero, non il narcotico, e non veniva dal capannone ma dall'auto.

Sono i rinforzi. Cercano me.

E anche se il freddo e il dolore la piegavano ricominciò a correre perché adesso i fari si avvicinavano e potevano essere altri mostri al servizio del mostro, potevano essere lì per portare la nuova bestia per la gabbia di Saverio, e piuttosto che farle compagnia si sarebbe fatta dilaniare dalle spine e divorare dai lupi. La macchina le passò accanto e lei si buttò nel punto più fitto, nel buio più nero. Qualcosa le bucò la pianta del piede, cercò di non urlare, incespicò due, tre volte mentre alle sue spalle la luce si fermava una decina di metri e si girava verso di lei. Allora si disse

Ferma, Anna, stai ferma, non farti sentire.

accucciandosi a terra, tremando, i denti che sbattevano così forte che si prese il mento con due mani per farli stare fermi.

Rumori.

Qualcuno che correva, una sagoma nera che le passava vicinissima andando verso il capannone. Strinse ancora più forte la mascella mentre si tuffava di nuovo nel nero più nero, frustate di foglie in faccia, graffi, pietre dure, aghi a infilarsi nei piedi, tutto preferibile a tornare lì dentro, tutto, tutto, tutto. Aveva corso per altri mille anni, per pochi minuti, e il bosco era finito, che bosco non era ma solo una striscia di alberi aggrappati gli uni agli altri. Davanti a sé quella campagna incerta, abbandonata e quindi indomita, vigorosa. La luna illuminava tutto ma le ombre la facevano da padrone. Non aveva direzione

morirò di freddo

prima dell'alba non sarebbe stata in grado di capire dove fosse il nord

morirò di freddo

e anche una volta capitolo non avrebbe potuto che tirare a sorte, per scegliere dove andare. Vasco aveva nominato un paese, ma non se lo sarebbe mai ricordato, e comunque diceva che era lontano, in auto ci voleva mezz'ora, conoscendo la strada, a piedi facevano in tempo a riprenderla mille volte. Se si voltava le sembrava di riuscire a vedere ancora un riverbero delle luci dell'auto. Sperava che gli altri non si svegliassero, che non li vedessero.

Davvero te ne frega qualcosa?

Davvero.

Uno schiocco.

Leggero ma reale, evidente. Si voltò intorno, due, tre volte, al punto da non saper riprendere la posizione iniziale. Poteva essere un altro mostro del mostro, quello che veniva a piedi dietro gli altri due per sorprendere le fanciulle scappate. O poteva essere un lupo. Il freddo la invase di colpo, era una notte d'inverno, lei era nuda e lei stava rallentando. Sentì i crampi che le mordevano il ventre, il corpo crollava, si piegò in avanti, l'intestino che voleva lasciar andare, il pianto che veniva su dalla gola con un bolo di catarro e vomito, il dolore al fianco richiamò i piedi, che richiamarono i crampi, che le tirarono fuori un lamento che era un principio di pianto, e allora la luce fortissima, in faccia, insopportabile. E la voce bassa, che pareva venire dal cuore della terra.

«Che ti è successo, picceré?»

E allora trovò la forza di urlare.

*

Il mostro che non era un mostro l'aveva presa per le spalle e scrollata, mentre lei cercava in tutti i modi di portarsi la scheggia al collo, ma la mano era rigida di freddo e quella le cadeva e allora si artigliava la faccia. Quindi lui aveva tuonato

«Ferma! Polizia! Agente Francesco Caparzo!»

e la mente le si era disfatta, come un castello di sabbia. Poliziotto. Picceré. No, poliziotto. Lo aveva guardato.

«Lei è un poliziotto? Veramente?»

le parole le erano biascicate fuori insieme alle poche forze rimaste, le gambe l'avevano mollata, ma lui la teneva ancora e aveva accompagnato il movimento, ecco, ci era voluto un attimo. Il mostro che non era un mostro era una montagna d'uomo, calvo, dal fiato acre, senza occhi né viso perché schermato ancora dalla luce fortissima e azzurra proveniente da un cellulare che teneva in mano insieme alla sua spalla. Anche l'altra mano era occupata, ma da una pistola.

Ci stavano trovando. Sono scappata per niente.

Le veniva quasi da ridere. Il poliziotto, gigantesco, incombeva su di lei, le lasciava le spalle, spegneva la torcia.

«Dove stanno le gabbie?» aveva chiesto.

E Anna finalmente era scoppiata a ridere e a piangere insieme, e avrebbe voluto rispondere ma non conosceva più le parole che servivano, così si era limitata a stendere il braccio verso il punto da cui era venuta, verso la luce dell'auto, verso il capannone. L'uomo aveva mosso un passo e il sollievo era stato subito sostituito dal panico. Si era aggrappata alle sue gambe, come una bambina che non vuole lasciar partire il padre.

«No! Non mi lasci sola!»

L'uomo si levò il giubbino che indossava e ce la avvoltolò dentro, accucciata a terra come era veniva avvolta da capo a piedi, un mucchio di ossa. Le aveva dato in mano il cellulare.

«I colleghi miei stanno arrivando, mi rintracciano con questo, tu tienilo che loro ti trovano.»

Anna aveva afferrato il telefono, luminoso solo a sfiorarlo, e l'uomo era sparito tra le frasche, veloce e silenziosissimo, per la sua stazza.

Ci avrebbero trovati.

si ripeté. Oppure anche il suo salvatore sarebbe finito chiuso in una gabbia.

Come lo chiamerebbe, grosso com'era?

Potrebbe essere un orso.

Ripensò a

гиена

scritto sopra la sua gabbia. Per caso avviò la fotocamera, che inquadrò il buio. Allora selezionò il flash, girò l'inquadratura e premette. Quel che il cellulare le restituì non assomigliava a lei, era una bizzarra donna selvatica, primitiva, la moglie della mummia del Similaun. Le venne da ridere, così ricominciò a piangere. Il calore del giubbino faceva man mano rinvenire tutte le parti del suo corpo, le faceva male tutto, ma stava bene, non era mai stata meglio. Toccò lo schermo e quello si riaccese senza chiedere il PIN.

Non posso, la polizia potrebbe chiamare.

ma mentre il suo cervello formulava faticosamente questo pensiero razionale, le sue mani avevano già composto il numero. Uno squillo. Due squilli.

«Pronto?»

La voce di sua madre, da un'altra galassia.

Ho ucciso un uomo. Ho fatto stuprare una donna e l'ho fatta quasi ammazzare.

Quel poco di anima che le era rimasta era stata richiamata indietro.

«Mamma?» mormorò.

Poi sentì lo sparo. Poi un altro.

E mentre da lontano vedeva i lampeggianti azzurri avvicinarsi, dall'altra parte del telefono il mondo esplose.

*

L'avevano pulita con delle garze e il disinfettante. Appena arrivati i poliziotti, di Sassuolo, in attesa che arrivassero quelli di Firenze, le avevano detto di andare alle auto, subito, ed erano corsi verso il capannone armati fino ai denti. L'auto era calda, restò lì dentro, immobile, il telefono del poliziotto che continuava a squillare, finché uno non tornò indietro e le chiese come si chiamava e come stava. Poi iniziò la processione delle ambulanze. Anna non chiedeva, non voleva sapere. Altre auto si erano unite alle prime, poi era sceso un elicottero poco distante, ne aveva sentito il rumore, ed era arrivato un pezzo grosso, entrato subito nell'auto con lei, un tale ispettore Ridenti. Altre domande. Dopo un po' si era sentita in diritto di farne una anche lei.

«Chi è morto?»

L'ispettore aveva esitato.

«Hanno sparato, è morto qualcuno, chi è morto?»

«Mi hanno riferito che ci sono due vittime. Una è probabilmente la persona che vi aveva rinchiusi, l'altra era dentro una delle gabbie.»

«Chi?»

«Non è ancora stata identificata. Lei li conosceva tutti? Vuole accompagnarmi dentro?»

«Piuttosto ammazzatemi.»

Non aveva protestato, ma le aveva chiesto di uscire di lì per farsi medicare in una delle ambulanze. Un secondo poliziotto era venuto a verificare il suo nome mentre il disinfettante le toglieva di dosso mesi di sporcizia.

«Mi avete cercata?»

«Sì, signorina Baroni.» aveva sorriso il poliziotto «L'indagine è ancora aperta, anche all'estero. Nessuno ha creduto a una fuga, sua madre era convinta che il responsabile potesse essere un uomo, magari uno dei suoi clienti.»

Anna aveva annuito.

«Lei ha visto la persona che è morta in gabbia?» Il poliziotto aveva esitato. «Mi dice com'era fatta la gabbia? Il colore?»

«Non glielo so dire, non... c'è tanta roba lì dentro. E' assurdo.» poi gli era venuto in mente «Era più bassa delle altre. Si vedeva a occhio nudo.»

Non si parla al coccodrillo, non gli si deve dare un nome.

Perché il coccodrillo è morto.

«Sembra che...» il poliziotto esitò di nuovo, poi lei gli sembrò così piccola e pallida e stanca, e allora «Pare che lo abbia ucciso suo figlio, Lucio. Lucio Donadio. Si è sentito braccato e allora...»

«Un omicidio-suicidio?»

«Non ha fatto in tempo, lo ha abbattuto il collega.»

Abbattuto. Collega. Il coccodrillo non era pazzo. Il coccodrillo non dormiva. Il coccodrillo era il nostro carceriere.

Narciso.

Ti ho dato il nome giusto.

Non aveva voluto sapere altro, chi fosse l'ultima persona rapita, come stessero i suoi compagni, infilati uno a uno nelle altre ambulanze che andavano e venivano, mentre arrivava la scientifica e si discuteva animatamente su come estrarre Giulio dal suo sarcofago di legno. L'ambulanza serviva per portare in ospedale qualcuno, pareva che il narcotico buono fosse toccato in sorte solo a lei, erano tutti in coma farmacologico. Le avevano offerto una tuta arancione catarifrangente ma l'aveva rifiutata, voleva tenersi il giubbotto dell'uomo che l'aveva salvata, Francesco Caparzo, il suo eroe. Salì su un'auto della polizia che l'avrebbe portata a Firenze, da dove era partita l'indagine, visto che non erano venuti lì per cercare lei ma avevano seguito l'ultima vittima rapita dal figlio del coccodrillo. Dall'altro lato era montata una donna giovane, carina, i capelli corti, quella a cui era destinata la gabbia di Saverio. Per qualche minuto avevano viaggiato il silenzio, poi l'altra donna le aveva chiesto

«Sei davvero riuscita a scappare?».

Anna sentì l'eco di una sensazione di fastidio, ecco, come la Petite, le deboli incredule che non si capacitano delle imprese di loro forti. Ma aveva anche voglia di parlare. Non parlava davvero con qualcuno da troppo tempo.

«Diciamo di sì.» aveva sbuffato «Mi ha lasciata scappare. Mi ha lasciata scappare solo per darmi la caccia e spararmi. L'avevano già fatto con altri prigionieri. Ce l'avevo dietro, potevo correre quanto volevo ma ce l'avevo dietro. Ho sentito lo sparo e ho pensato che era fatta, ma invece non aveva sparato lui, aveva sparato qualcun altro, qualcuno che arrivava con la macchina. Per questo è rientrato e mi ha lasciata andare nel bosco, forse pensava di venire a riprendermi dopo, tanto dove andavo?» aveva abbassato la voce «Piuttosto che farmi riprendere mi sgozzavo con un ramo secco.»

Quell'altra aveva inghiottito più volte, sopraffatta da chissà che cazzo di emozione, lei, a cui alla fine non era successo niente, era lì, stava benone, perché faceva tante scene?

«Hai conosciuto un ragazzo lì dentro? Che si chiamava Saverio Bartolomei?»

La rabbia scappò via. Freddo. Incredulità, colpa. Poi la rabbia di ritorno.

Maria?

La Maria di Saverio?

Adesso arrivi?

Aveva cercato di non guardarla, non voleva far trasparire nulla

aveva scelto me, non te

dei suoi sentimenti negati fino a poche ore prima. Le rispose, invece.

«Lui lo diceva sempre. "Un giorno la mia Maria arriverà qui e ci salverà tutti. Perché lei è la mia Madonna.".»

L'altra aveva preso a tremare, gli occhi che cercavano qualcosa fuori dal finestrino, là dove c'era solo nero e campagna.

Anna la odiò.

«Hai fatto tardi.»

Non si dissero più una parola fino a Firenze.

Non si resero mai conto di essersi già incontrate.

*

Rientrare.

Via gli stivali.

Via i vestiti.

Dentro.

Chiudere il fondo della gabbia.

Eccola.

La sua voce.

Stanno arrivando.

DIODIODIODIODIODIO!!!

Il poliziotto.

Resta immobile.

Eccola, è lei, lei che passa.

Mi prendono.

Mi caricano sulla barella.

L'aria è gelida, l'ambulanza.

Immobile.

Partiamo.

Non se ne sono accorti di quello che ho.

Sono solo due, uno alla guida, l'altra qui dietro.

Si china su di me.

Più vicino.

Più vicino.

Aspettami, Anna.

Vengo a prenderti.

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