Il Figlio Dei Miei Vicini

Autorstwa xkinishinaix

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Non tutti siamo forti, non tutti riescono a trovare la soluzione e uscirne ancora in piedi e senza cicatrici... Więcej

Prologo.
Primo.
Secondo.
Terzo.
Quarto.
Quinto.
Sesto.
Settimo.
Ottavo.
Nono.
Decimo.
Undicesimo.
Dodicesimo.
Quattorcidesimo.

Tredicesimo.

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Autorstwa xkinishinaix

Wes ha guidato per poco più di un quarto d'ora prima di arrivare in un fast food a tema americano. Stranamente ho fame, e in modo altrettando strano ne ho all'una del mattino. Scendiamo dall'auto dopo averla parcheggiata, e ormai del tutto sobria richiudo lo sportello, per poi raggiungere Wes dall'altra parte del veicolo.
Non appena lo affianco, mi circonda teneramente la schiena con un braccio. Alzo lo sguardo e noto che gli si sono colorate le guance alla luce del lampione, ed entriamo nel ristorante ancora aperto nonostante l'orario. Subito mi travolge un profumo di patatine fritte e panini, che non fa altro che far aumentare il mio appetito.

I pavimenti sono ricoperti da piastrelle a scacchi e per la sala sono cosparsi di qua e di là tavoli circondati da due o quattro sedie, o anche da panche imbottite ai lati della stanza. Di fronte a noi, sfila un bancone rosso dove si trova la cassa, e dietro di quest'ultima, la cucina. Appese alle pareti ci sono varie targhe e manifesti ispirati a quelli degli anni 60, con donne e macchine sportive.

"Ci sediamo? Altrimenti, se vuoi, rimaniamo in piedi ad ammirare il panorama. Solo che sembreremmo degli psicopatici, sai?" Propone il ragazzo dopo aver visto che mi stavo dilungando un po' troppo, quindi ridacchio in risposta.

"Scusami, è che non ero mai stata in un posto come questo" ammetto con leggero imbarazzo. Credo che chiunque dia per scontato che tutti, almeno una volta, siano stati in un fast food del genere, ma in realtà non è così ovvio dato che sono un'eccezione. Wes, però, fa spallucce con un sorriso in faccia e mi leva un grande peso di dosso. Pensavo mi avrebbe preso in giro, o quanto meno che avrebbe fatto qualche battuta.

Ci sediamo uno davanti all'altro ad un tavolino, e involontariamente vengo attratta dal modo distratto in cui si spettina il ciuffo dal color dell'inchiostro mentre consulta il menù. Prima che possa notarmi, prendo a mia volta il foglietto con le portate e leggo i nomi delle portate. Hamburger di manzo, hamburger di verdure per vegetariani, panino con cotoletta, cheeseburger, cheeseburger doppio, pepite di pollo, alette di pollo, patatine fritte, bastoncini di mozzarella. Tutte queste cose mi stanno facendo venire l'acquolina.

"Buonasera ragazzi, avete già scelto?".

Non l'ho nemmeno sentito arrivare, ma all'improvviso si materializza un cameriere alla mia destra.

"Prima le signore" fa Wes riponendo il menù sulla superficie lignea.

"Ehm..." i miei occhi iniziano a correre ancora sulla carta, andando a scegliere qualcosa che non avrei mai ordinato; "hamburger vegetariano" dico alla fine, pentendomi subito. Non sono per niente un'amante delle verdure, tanto meno degli hamburger senza carne. Non che sia una carnivora ossessionata da tutto ciò che non nasce da un seme; diciamo piuttosto che non mangio insalata ogni giorno.

"Per te, invece?".

"Heather, cosa mi consigli?".

Mi fa l'occhiolino. Come? Ha capito che non era ciò che volevo? L'ho reso così ovvio?

"Direi... un hamburger, senza cipolla" sto al gioco, sorridendo dopo di lui.

Ordiniamo le bibite e dopo aver terminato, il cameriere se ne va lasciandoci soli e permettendomi di ringraziare Wes.

"Dio, non so come avrei fatto a mangiare quel coso se non avessi preso quel panino... grazie".

Gli prendo la mano senza accorgermene ma dopo un secondo la rimuovo. Che cavolo mi prende?

"Scusam-

- non scusarti. Ho perso il conto delle volte in cui hai chiesto scusa stasera" ride.

"Scusa".

Mi copro subito la bocca e mi mordo la lingua.

"Vedi? È di questo che parlavo".

Scoppiamo a ridere. È proprio bello sentirsi bene dopo quasi tre settimane di permanenza a Wheatley.
Mi manca ancora la mia vecchia casa di Londra, dopotutto ci sono cresciuta e lì ho tutti i miei ricordi d'infanzia. Avevo la mia migliore amica e qualche conoscente che mi stava vicino, ed erano abbastanza per distrarmi da quello che mi dava tanto da ricordare a scuola. Era sia la mia ancora, che il mio carcere: allo stesso tempo mi aiutava e mi buttava giù. Non la scuola in sè, in cui me la cavavo, ma le persone che la frequentavano. Forse ero io che ci davo troppo peso, o forse venire spinta addosso agli armadietti era normale, scherzoso. Da fare tra amici. Però quando mi ricordavo che non erano miei amici, le illusioni finivano e realizzavo che non avrebbero preferito ridere con me, ma di me.

I miei pensieri vengono interrotti dall'arrivo del cameriere dal sorriso stanco dopo una giornata di lavoro, che ci porta i piatti pieni di cibo.
Mi mette davanti l'hamburger di verdure con patatine fritte e osservo la pietanza rigirando il piatto tra le mie mani come se fosse andata a male.

"Dammi qui" consiglia Wes scambiando i panini, passandomi quello che avevo ordinato per lui.
"Buon appetito".

"Anche a te" rispondo prima di soddisfare finalmente il mio stomaco. Già al primo morso, sento i cori di voci bianche che cantano nelle mie orecchie l'alleluia, mentre mugugno qualcosa  di incomprensibile sulla bontà di ciò che mangio.
Il moro sorride a bocca piena e si gusta la mia ordinazione. È stata una fortuna che gli piacesse, altrimenti sarebbe stato un vero spreco.

Solo ora mi rendo conto del fatto che siamo soli; effettivamente chi andrebbe in un ristorante all'una e mezzo del mattino, per evadere da un locale rumoroso, con un ragazzo che nemmeno conosce fino in fondo? Ecco, io.

"Allora, possiamo dire di aver passato una bella serata?" Domanda Wes riponendo il panino sul piatto per pulirsi le dita col tovagliolo di carta.

Finito il boccone, ripeto il suo gesto.

"Oh, sei sporca".

Prendo di nuovo il fazzoletto e cerco di togliere il cibo sulla mia bocca, ma Wes mi pulisce senza esitazioni. Passa il tovagliolo a lato delle mie labbra strofinandolo con delicatezza sulla mia pelle chiara.
Si trattiene qualche secondo in più in quel punto e vedo il suo sguardo farsi più intenso, fissato su di esse.

"Oh... grazie" spezzo quel momento, appoggiando la schiena allo schienale della sedia.

Dovrei detestarmi, ma non posso farmi coinvolgere così.
Sembra deluso, ma si ricompone subito e torna a mangiare.
Faccio finta di nulla e dò ancora qualche morso al panino, terminandolo dopo alcuni minuti.

"Comunque sì, ma non siamo nemmeno a metà" gli sorrido "vedremo come va".

Mi fa l'occhiolino, e sento il mio cuore battere più velocemente.

"Quindi... dove abitavi un mese fa?".

"Londra".

"E com'è? Ti manca?" S'incuriosisce.
Si appoggia al tavolo sui gomiti e posa il mento sui pugni, sporgendosi verso di me.

Una volta ho letto un articolo sul linguaggio del corpo. Insomma, avete presente? Se una persona incrocia le gambe, bisogna guardare se con la punta del piede vieni indicato - e significa che è attratta da te -, se tiene le braccia conserte non si vuole rendere disponibile, e così via. Infine, se qualcuno si sporge, credo sia chiaro: c'è un minimo di attrazione.
Ma non è possibile. Mi ha incontrata tre ore fa, a malapena sa il mio cognome, perciò scaccio i miei ragionamenti idioti. Credo farei meglio a smettere di leggere i giornalini da donna mentre aspetto il mio turno dall'oculista.

"Come la casa in cui sei diventato grande, è speciale e avrà sempre un posto riservato nel tuo cuore. La capitale non era tranquilla come Wheatley, ovviamente; è trafficata e brulica di persone che corrono di qua e di là" ridacchio spiegando, e Wes mi incita con un "continua".

"Ci vivevo con i miei genitori. Anche loro erano indaffaratissimi con i loro lavori. Mio padre viaggia molto per affari..." dico con un velo di tristezza nella mia voce, ma tento di nasconderlo procedendo; "e mia madre lavorava nella sua azienda come sua segretaria. Gli organizzava gli appuntamenti, consultava la sua agenda per lui, cose così.

"Quando ci siamo trasferiti - ah, ci siamo trasferiti perchè lui aveva deciso di spostare l'azienda ad Oxford, dove credeva avrebbe avuto maggiori profitti - lei ha scelto di licenziarsi. Non perchè il lavoro le andasse stretto, ma perchè...".

Mi blocco. Non so se rivelargli la vera ragione per cui Gemma, l'impiegata modello ammirata dalle colleghe e dal marito, si fosse licenziata improvvisamente in un periodo di massimo splendore per l'attività di papà. Così, tengo la bocca chiusa, mentendo.

"Perchè voleva cambiare. Diceva che sì, non era male, ma preferiva provare qualcos'altro. D'altronde la teneva occupata per undici ore al giorno. Quindi siamo venuti qui e ora non vedo mio padre da due mesi circa" concludo. Sospiro. Riavvolgere il nastro della mia vita fino a questo momento e guardarlo con Wes è stato come fare un viaggio nel tempo, che però è stato come uno sfogo per me. Lui è la prima persona a sapere di questo particolare del mio passato.

Non mi ha mai staccato lo sguardo di dosso mentre parlavo, a volte mi toccava il dorso della mano quando mi fermavo a rimuginare, e a volte sorrideva se anche io lo facevo. Gli parlo di Cara e di come ci fossi rimasta male quando ero venuta a sapere che se ne sarebbe andata, e gli racconto del primo giorno di liceo, che scopro frequenta anche lui assieme a me.

"Sì, non sono un secchione, per niente. Mi piace più della metà delle materie, ma non posso dire di eccellere" ridacchia.

"Capisco" annuisco seguendolo a ruota quando si alza dalla sedia. Sono le due, il cameriere ci ha già lanciato un paio di occhiate non troppo gentili, quindi usciamo.

Inspiro l'aria fredda di novembre.
Alcune foglie secche sul cemento descrivono delle piroette fluttuando per il vento, e il buio ci circonderebbe totalmente se non fosse per l'insegna al neon del fast food.

"Allora, Heather Richards. Ora puoi dirmelo, penso" si fa serio.
La luce emanata dall'insegna gli illumina solo parzialmente il viso, colorandolo di rosso e blu.

Fa aderire la parte posteriore del suo corpo allo sportello dell'auto, inserendo le mani nelle tasche dei pantaloni.

"Di che parli?".

"Quando siamo arrivati, ti ho chiesto se è stata una bella serata. Ora che è finita - purtroppo oserei aggiungere - te lo domando ancora: sei stata bene?".

Mi avvicino a lui e mi appoggio al suo petto.

"Sì, seriamente. Ti volevo ringraziare per tutto. Sei venuto a recuperarmi in bagno in un momento di debolezza, non ti sei approfittato del mio stato quando eravamo dietro al locale e mi sei stato accanto. Hai visto che ero giù e che avevo bisogno di cibo, il che è assolutamente importante, e mi hai portato in un ristorante a un orario improponibile. Grazie Wes" mormoro  accoccolandomi a lui, che mi stringe in un abbraccio.

"È stato fantastico per me stare in tua compagnia. Non mi divertivo così da un po', e sei divertente Heather, oltre che bellissima".

Mi fa sollevare il viso e avvicina pericolosamente le labbra alle mie, ma invece di baciarmi, fa combaciare le nostre fronti.

Sento le guance andare a fuoco per questa vicinanza, però mi impongo di non muovermi stavolta e di vivere il momento.

"Ti accompagno a casa, che ne dici?" Sussurra.

Annuisco e di malavoglia mi stacco da lui, provando nell'immediato un flebile senso di vuoto.
Mi dirigo al posto affianco a quello del guidatore e richiudo lo sportello una volta all'interno.
Quando anche Wes si siede, accende il motore e dopo aver messo la retromarcia, imbocca la strada di casa mia con le mie istruzioni.

Durante il viaggio, fa finire più volte la sua mano sulla mia coscia, e ogni qualvolta la toglie, la zona in cui era stata si raffredda come se ci avesse lasciato l'impronta.

Si ferma davanti alla mia abitazione e spegne il veicolo, quindi slaccio la cintura.

"So che ormai sarà la centesima volta che te lo dico, ma grazie per la serata. Mi sono divertita tanto con te" ammetto.

"Lo stesso vale per me. Ricordati di quel numero, ci sarà sempre per te se lo vorrai" si riferisce al numero di telefono che mi aveva dato al compleanno di Maggie, e sorrido al ricordo non troppo lontano.

Che faccio? Onestamente vorrei salutarlo con un bacio sulla guancia, ma è eccessivo; in conclusione la distanza diminuisce tra di noi e lo abbraccio per quanto mi è possibile in macchina.

"Ciao".

"Ci si vede Heath, ci conto" ammicca mentre scendo.

Sventolo la mano quando riparte, e afferro le chiavi dalla tasca della gonna, che per miracolo sono ancora al loro posto. Le inserisco nella serratura della porta e la apro cercando di riprodurre pochissimo rumore. Le luci sono spente, perciò mamma deve essere già a letto. Tiro un sospiro di sollievo.
Mi aspetto già la ramanzina di domani mattina, ma all'improvviso una luce gialla si espande dal lampadario del salotto.

"Bene bene bene signorina, adesso puoi considerarti morta. Niente telefono per una settimana, niente tv... no, okay. Non te ne importa nulla della televisione... quindi niente libri! E soprattutto" si diffonde un rullo di tamburi dal suo cellulare "niente gita a Dublino!".


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