In nome del sangue, in nome d...

By kiralalucedelsole

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. 1 . Vecchie cicatrici e nuove ferite
. 2 . La verità
. 3 . Punta d' ago e balsamo guaritore
. 4 . Dal passato nuovi fantasmi
. 5 . Sera di lucciole e mattino d'argento
. 6 . Indecenti proposte
.7 . Un patto col diavolo
. 8 . Confronti
. 9 . Il velo caduto
. 10 . Grandi speranze
. 11 . Promesse.
. 12 . Terra e acqua, muschio e sale
. 13 . Un passo indietro
. 14 . Preludio
. 15 . Miele
. 16 . Rivelarsi
. 17 . Il diavolo e l'acqua santa
. 18 . Come fratelli
. 19 . Prima di partire
. 20 . Il fiume dell'ira
. 21 . Sulla strada di casa
. 22 . Nessuno tranne una
. 23 . Incubi e sogni di un prigioniero
. 24 . La mano del gigante
. 25. Ad un passo dalla libertà
. 26 . Il prezzo della libertà
. 27 . Un nuovo giorno
. 28 . Una effimera tregua
. 29 . 7° 24' 25''
. 30 . L'esca
. 31 . Quando viene il buio
. 32 . Giochi di potere
. 33 . A casa prima dell'uragano (parte prima)
. 33 . A casa prima dell'uragano (parte seconda)
. 34 . Storia di un duello
. 35 . Tutto il mondo brucia
. 36 . Di piani, di fughe e di abbandoni
. 37 . Oltremare
. 38 . Qualunque cosa accada
. 39 . Lupi e agnelli, falchi e colombe
. 40 . Odi et amo
. 41 . Desiderio
. 42 . Il passato alle spalle
AVVISO
. 44 . Di culle, di baci e di bocciuoli di rose

. 43 . L'ultimo conto da pagare

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By kiralalucedelsole

. 43 . L'ultimo conto da pagare

L'avevano informato che era tornato, che il processo per scagionarlo dalle accuse artefatte si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni.

Gli avevano detto che dormiva nel proprio letto con sua moglie, come se nessuna tragedia l'avesse mai sfiorato. Né la prigionia, né il duello o le fiamme con le quali gli aveva bruciato la barca e il futuro in un luogo lontano e sicuro; nessuna delle trame ordite, neanche una banconota del proprio denaro, usata per fabbricare le accuse e consumare lentamente la sua rivoltante esistenza traditrice, l'avevano scalfito.

Era tornato nello stesso luogo, nella stessa vita di prima, con più forza e più arroganza.

Egli era come la mala erba: il contadino la strappa, la brucia, ma essa torna ad infestare messi e prati, ne mangia il concime, ne beve l'acqua e prolifera indisturbata, verde e brillante.

Doveva accettarlo, non poteva che rassegnarsi.

Eppure non trovava pace.

"La pace sta nel perdono", diceva una voce cigolante nel suo cuore, ma la mente era ancora troppo annebbiata per concedersi al perdono.

- Signore? -

La voce di Saurion lo fece sobbalzare.

- Signore ... - ripeté, - Mi avevate assicurato il danaro per le paghe ... - gli ricordò, - I braccianti sono allo strenuo, signore. Questo mese non sono ancora stati pagati e così i creditori. -

- Parlane con mia madre. -

- L'ho già fatto ... Il mese passato e quello prima ancora ella se ne fece carico con i propri denari. -

- Lo faccia anche questo mese, giacché tiene così tanto a questi sterpi ... -

- Ma, signore, ella non possiede più liquidità! Siamo ad un passo dalla rivolta, padrone. -

Miran gli rivolse uno sguardo vacuo, assonnato, così lontano da quello dell'uomo che era stato il suo padrone, che Saurion fece un passo indietro, intimorito.

- Che facciano ciò che vogliono, che si rivoltino e brucino e protestino armati di forconi. Non mi importa più! -

- Signore, vi prego ... -

- Questa terra è maledetta, io sono maledetto. - lo interruppe, come se la preghiera del servo non fosse mai giunta alle proprie orecchie, - Che tutto bruci, Saurion ... che bruci tutto! - concluse, con un filo di voce e il bicchiere ormai vuoto in mano.

Il servo chinò il capo sconfitto e a passi lenti uscì dallo studiolo, lasciandolo solo a macerarsi.

Ma non passarono che pochi minuti che un chiasso assordante minò il silenzio della casa.

Fuori era già buio, solo verso ovest, dietro le colline, si attardava ancora il cielo rosso di un tramonto invernale. Sembravano le fiamme di un incendio devastante, che invece di dissolversi col passare dei minuti si espandeva sui declivi, con scintille guizzanti, fino ad invadere i campi.

Guadagnò la finestra, strizzò gli occhi, lucidi e infiammati dalla stanchezza e dall'alcool, e mise a fuoco il viale lastricato che conduceva alla casa.

Un serpente di uomini e donne, si allungava dall'imponente arco in pietra, fino all'ingresso.

Le fiaccole che ardevano nelle loro mani, illuminavano i volti scarni, irruviditi dal sole e dalla fatica; brandivano bastoni e mormoravano e le donne si portavano attaccate alle gonne marmocchi mal vestiti.

Erano i suoi braccianti e le loro mogli e i loro figli, quelli che lavoravano per lui da che erano nati e dei quali Miran si era infischiato, poiché la fame di vendetta che gli rodeva l'anima esigeva maggiore cosiderazione di quella che attanagliava loro lo stomaco.

- Vieni fuori, padrone! - gridò uno alla testa di tutti, nella mano destra, una torcia sollevata verso la finestra dello studiolo. - Lo vedi questo? - continuò, strattonando per il bavero della camicia un bimbo di sei o sette anni che si aggrappava disperatamente alle sottane della madre, - Questo è uno dei nostri figli e mangia pane duro da più di una settimana ormai. Lo sai padrone, che non ci paghi da un mese? - insistette, con una voce che faceva rabbrividire.

Miran si ritrasse dai vetri, nascondendosi dietro le pesanti tende che schermavano la finestra, mentre un vociare sempre più rumoroso si levava dalla corte della casa e i pianti dei bambini si facevano più disperati.

- Vieni fuori, padrone! - ripeté e con lui un coro di voci mischiate, fame e pianto, orgoglio schiacciato e miseria.

Miran sentì il sangue gelargli le vene e perle di sudore freddo rigargli la fronte. Nonostante il freddo che attanagliava la stanza, priva del fuoco ormai spento del camino, sentì un calore propagarsi nel cervello e bruciargli le tempie. La gola ardeva, come se non provasse il sollievo dell'acqua da ore, dunque mandò giù un sorso di brandy, ma l'incendio divampò ancora più prepotente, invadendogli il petto e le viscere.

Avrebbe dovuto spalancare la finestra, mostrarsi ai suoi braccianti, imbonirli con parole di scuse e promesse di cibo e doni per la loro pazienza.

Avrebbe dovuto urlare che egli era sempre il padrone, un padrone equo che non si era mai sottratto alle necessità dei propri servi e per questo essi dovevano aspettare in silenzio, stringendo i denti fino alla salvezza.

Ma la verità era che a lui non importava di quelle grida e di quei pianti, le sue orecchie e il suo cuore sgualcito non avevano più pietà per la sofferenza altrui.

Miran era morto, l'uomo onesto e rispettoso, il padrone attento, il figlio e il marito devoto erano crepati di rabbia e di vergogna.

Dell'uomo che era stato non c'erano che ossa e sangue.

Riempì nuovamente il bicchiere, ne bevve tutto il contenuto d'un fiato, fiamme liquide per spegnere un incendio, e voltò le spalle alle suppliche e alle imprecazioni dei cani che chiedevano un osso.

Si accasciò sulla poltrona e bevve, bevve ancora, fino a che la mente perse ogni lume, il corpo divenne inerme, sprofondato nel sonno comatoso della sbornia.

*************

La casa risplendeva delle luci della festa imminente.

Una Natività era sistemata su di un tavolinetto davanti alla grande vetrata sul giardino. Profumi di agrfoglio e rami di pino riempivano il grande soggiorno e nel camino, sui ciocchi ardenti, bruciavano pigne odorose di resine e bosco.

Sedevano l'uno a fianco dell'altra, ciascuno intento nelle proprie occupazioni, in un silenzio carico di pace e armonia.

- Vorrei una grande cena, per la vigilia di Natale. Vorrei invitare mio padre e Betel.
E tua madre ... Vorrei intorno la mia famiglia. -

Ariela appuntò l'ago sul telaio, dove ricamava il corredo del loro bambino: stelle dalle punte arrotondate e una piccola falce di luna decoravano i bordi un candido lenzuolino.

- Non avrei mai creduto che saresti diventato uomo di tradizioni e legami.- constatò, sorridendo e allungando entrambe le mani sul viso di lui.

Le dita si intricarono tra i capelli scuri e scarmigliati, carezzarono le tempie, le guance lisce, avvicinandosi dolcemente alle labbra fintamente inbronciate.

- Non ridere, strega, è colpa tua! Mi hai riempito di così tanta grazia e dolcezza; amore e speranze, che l'anima mia ha ... espulso tutte le sue spine. - dichiarò, strofinando le guance contro il palmo della mano di lei, come i cuccioli che si beano delle carezze del padrone.

Ariela continuò a sorridere soddisfatta, con il cuore inondato di una languida pace, attirò il capo del marito sul proprio ventre, nella cui oscurità il frutto acerbo del loro legame cresceva lento.

- Quasi tutte le spine ... - aggiunse roco, per poi lasciarle un bacio, proprio nel punto in cui la nuova vita si legava a quella della madre.

- Abbi fede, amore mio. Abbi fede e speranza. - lo rassicurò, mentre le braccia di lui le avvolgevano la vita e le proprie dita continuavano il percorso illogico tra le spire dei suoi capelli. - Un giorno anche l'ultima spina lascerà la tua carne e tu e tuo fratello troverete pace. Lo meritate e ne avete diritto. - aggiunse, con nella voce una certezza così viva e brillante da illuminare lo sconforto e la frustrazione che gli rabbuiavano il cuore.

- Non voglio aspettare! - disse, raggiungendo con il viso il volto di lei e guardandola negli occhi.

- Eìos ... -

- Lo so che non approvi ... che temi il peggio, ma io ... - la interruppe, baciandole il collo che si ammorbidì al passaggio delle sue labra calde, - Non sopporto l'idea che mio fratello sia ancora lì a macerarsi per un maligno complotto del destino, mentre io sono qui tra le braccia della donna che amo, confortato dal mio sangue che attecchisce. - concluse, assediando le labbra di lei che tentavano vanamente di ribattere.

- Sai che voglio la vostra pace come voglio la tua felicità, ma tu sei ... -

- ... Sono un soldato e non un conciliatore! - trovò per lei le parole.

Ariela sorrise della definizione che egli stesso aveva trovato per sé.

Le parole erano sempre state per suo marito arcani arzigogoli: più cercava di usarle per spiegarsi, più esse lo tradivano, lo confondevano, si mescolavano come le carte da gioco nelle mani di un baro.

- Ho bisogno di tentare ancora. La mia felicità non sarà completa finché io e Miran saremo nemici. -

- E sia! - acconsentì, lasciandosi baciare le tempie e le palpebre socchiuse, - Dopo ... però! - ammiccò, con la voce sottile e ammaliante, mentre entrambe le mani scendevano sul petto, scotendogli i sensi e annullando ogni resistenza e ogni altro pensiero.

*************

Un rumore di vetri infranti lo fece sobbalzare.

Il bicchiere vuoto gli cadde di mano, frammentandosi in mille schegge luccicanti e aguzze.

Il pavimento ne fu inondato, tanto che Miran, con la bocca ancora impastata di brandy, rimase immobile sulla poltrona, vagando con lo sguardo tra le schegge che, come milioni di cristalli, ornavano gli arabeschi del tappeto.

Un odore acre di fumo gli colpì le narici.

Si guardò intorno, prima verso la bocca del camino, dove ormai erano rimaste solo polvere e cenere; poi verso la scrivania, nel posacenere di alabastro, in cui aveva lasciato bruciare il tabacco di un sigaro, ma nessuna delle due era la fonte da cui si spandeva la zaffata.

Continuò a cercare, finché un crepitio di fiamme lo fece voltare verso la grande vetrata.

I vetri erano completamente infranti e i drappi delle tende bruciavano, espandendo un odore di stoffa bruciata.

Un istante dopo, le fiamme avevano già divorato il telaio dell'infisso e cominciavano a serpeggiare lungo le frange del tappeto, sui broccati delle poltrone, sulle tele dei quadri e sull'intera tappezzeria.

- Adesso ... ci vieni fuori, padrone? - gracchiò la voce di qualche ora prima, ancora più potente, ancora più spavalda.

Miran sbatté le palpebre, cercando nel labirinto confuso del suo cervello la forza per reagire, ma il corpo era ormai svuotato, senza vigore nelle membra e gli occhi cominciavano a lacrimare copiosamente per l'incendio che lo circondava.

L'unica via di fuga era verso il piano inferiore, dunque, doveva riuscire a superare il corridoio e, attraverso la rampa di scale, raggiungere il pian terreno e poi la porta di ingresso.

Se ci fosse riuscito, sarebbe finito in pasto ai lupi, ai servi ammutinati che avevano appiccato l'incendio, ma almeno avrebbe avuto salva la pelle.

Estrasse un fazzoletto dal taschino, lo immerse completamente nella brocca d'acqua che teneva sullo scrittoio e se lo poggiò sulla bocca e sul naso, per evitare di inalare i fumi tossici.

Si avvicinò alla porta, nel tentativo di aprirla, ma le fiamme e il fumo avevano già invaso il corridoio. Una vampata di calore lo investì, così potente e divoratrice, da costringerlo a richiuderla alle proprie spalle, tenendolo imprigionato.

Ormai l'ossigeno andava esaurendosi, facendolo arrancare, bruciandogli i polmoni e intossicandogli le narici, la gola, i pori della pelle.

Si sdraiò sul pavimento, dove l'aria era più pulita, il fazzoletto ormai asciutto ancora sul viso, gli occhi rossi e gonfi di lacrime amare e dolorose e nella testa un'invocazione disperata di salvezza.

Quando Eìos giunse davanti al grande portone della tenuta, le fiamme avevano già mangiato gran parte dell'edificio.
Sulla volta del portone d'ingresso, dalle fauci del grande drago scolpito nella pietra, stemma di famiglia, guizzava una lingua di fuoco, come se la creatura mitologica avesse preso vita, animata dall'elemento che essa stessa dominava.

La folla di braccianti e di servitori scampati al fuoco, rimanevano sul selciato a guardare quell'enorme mostro affamato, mentre consumava le pietre e sbranava gli arredi di quella casa maestosa e fragile, riducendola in polvere e cenere.

- Il padrone ... - mugolò Saurion, strofinandosi la faccia sporca di fuligine e la camicia ridotta in brandelli bruciacchiati, - Il padrone è rimasto dentro! - aggiunse, con la voce arrochita.

Eìos si immerse nella vasca della grande fontana in pietra, inzuppando i vestiti e il mantello che li copriva. Strappò il grembiule ad una delle cameriere e ripetè l'operazione, prese un'ultima boccata d'aria pulita, lo legò intorno alla bocca e alle narici e si lanciò nelle fiamme dell'inferno.

Il forte calore ed il fuoco avevano danneggiato la struttura dell'edificio: le enormi travi di legno bruciavano; le fiamme le percorrevano lungo il soffitto, come serpenti di fuoco.

Alcune resistevano al peso dei solai, altre ricadevano al suolo, trascinandosi dietro le orditure lignee, i pavimenti e gli arredi, insieme ad un ammasso di polvere e fumo.

La scalinata che raggiungeva il piano nobile era ancora integra, fatta eccezione per il corrimano e la ringhiera di legno ormai distrutta, così la raggiunse in una gincana spericolata, avendo cura che i propri indumenti non fossero intaccati dal fuoco inseguitore.

Salì i gradini a due a due, cercando di respirare il più lentamente possibile, nonostante la fatica e i polmoni minati dell'aria satura.

Sapeva di dover essere veloce, ma sapeva anche che la prima cosa da fare in un incendio è mantenere calma e lucidità, così da non compiere mosse azzardate e finire in trappola.

Il fuoco è un essere vivente, un animale a caccia: respira, annusa la preda, la rincorre, insinuandosi negli anfratti più piccoli; allunga la lingua e le zampe fino a che non l'agguanta.

Ma Eìos era preparato ai suoi agguati e soprattutto non aveva alcuna intenzione di finire nelle sue fauci, non adesso che aveva la propria vita sicura, fertile e promettente che lo aspettava nella sua casa.

Corse per il corridoio, fino alla porta dello studiolo, sperando che Miran vi si fosse asserragliato. Si fasciò la destra con un lembo del mantello ancora umido e abbassò la maniglia. Era rovente, segno che probabilmente il fuoco avesse già invaso la stanza. Spinse la porta lentamente, tenendola col piede, per evitare possibili vampate di fuoco e fumo e vi entrò, richiudendosela alle spalle.

Il locale era invaso dalle fiamme, ma il fumo trovava via di sfogo all'esterno, attraverso i vetri rotti delle finestre, permettendo una discreta visibilità e la possibilità di respirare.

Miran giaceva a terra bocconi, le mani ancora strette sul fazzoletto a coprire la bocca.

Vi si inginocchiò a fianco, lo mise supino e lo scosse per gli omeri, tentando di rianimarlo. Il respiro era così flebile che dovette avvicinare l'orecchio al viso per accertarsi che fosse vivo.
All'improvviso, cominciò a tossire e rantolare, come un animale ferito.

- Apri gli occhi! - lo esortò, dopo essersi liberato del bavaglio, - Dannazione, Miran, apri gli occhi! - insistette, scuotendolo con più veemenza.

Gli occhi di Miran si aprirono uno alla volta, pur rimanendo due fessure rosse, come lembi di pelle di una ferita.

- Che ci fai tu qui, maledetto diavolo! - imprecò, non appena al cervello giunse l'immagine di suo fratello, inginocchiato accanto a lui.

- Dobbiamo uscire di qui subito, prima che il fuoco ci divori insieme alla casa. - gli ordinò, senza dar peso alle parole dell'altro.

- Va' via! - gli urlò contro, in un colpo di tosse.

- Non essere idiota, tirati su. - continuò, facendo leva sulle ginocchia e sollevandolo di peso. - Dobbiamo cercare una via d'uscita. Il corridoio è invaso dalle fiamme. -

- Non voglio che tu mi aiuti! Non ti darò la soddisfazione di salvarmi la vita così che tu possa diventare il santo o l'eroe che salva il suo stesso nemico! -

- Ti facevo meno stupido, fratello. Preferiresti bruciare vivo piuttosto che essere aiutato da me? -

- Mi hai già umiliato troppe volte, perché ti permetta di farlo ancora. -

- Sai che ti dico? Se è all'inferno che vuoi finire ... padronissimo. Ma non oggi, fratello, non stanotte. E adesso tirati su e non costringermi a trascinarti! - gli ordinò.
Miran tossì ancora un paio di volte, digrignò i denti e mandò giù un groppo di saliva e orgoglio.

- Ci caleremo giù per la pluviale. - suggerì, - Come facevamo da ragazzi per sfuggire a tua madre. - ricordò, con una smorfia.

- Eravamo più magri e piccoli di statura allora. La pluviale non reggerà al nostro peso. - gli fece notare, mentre si metteva faticosamente in piedi.

- Allora preparati a finire con le gambe all'aria davanti ai tuoi servi, fratello. - ripeté, con quel tono canzonatorio che Miran detestava fin dagli anni in cui Eìos era giunto alla tenuta.

Continuava a provocarlo, ma in realtà voleva solo che la rabbia che gli vedeva montare dentro attaverso gli occhi, lo inducesse a reagire e a salvarsi.

- Prima i nobili e i gentiluomini ... - aggiunse con un leggero inchino.

- Bastardo!- biascicò tra i denti.

Eìos finse di non sentire, anche se quella parola ancora bruciava l'anima, come il marchio a fuoco che si imprime sulla carne delle bestie.

Afferrò una seggiola e la scaraventò contro la vetrata. Gli ultimi vetri ancora intatti andarono i frantumi e fumo e fiamme uscirono all'aperto, alimentandosi del nuovo ossigeno che la stanza aveva guadagnato.

Il canale di scolo correva sul lato destro della finestra, dal tetto al suolo. Era più piccolo e meno saldo di quanto ricordasse, ma avrebbe retto.

Comunque, rimaneva l'unica via di uscita.

Miran inspirò un paio di volte l'aria che si era fatta accettabile, ne incamerò una dose sufficiente a compiere l'impresa che, quando era ragazzo, lo faceva sentire un uomo audace e coraggioso, e si calò.

La presa era difficile e scivolosa e il cigolio del tubo di rame era inquietante, come se lo avvertisse dell'imminente distacco dal muro. Ma Miran continuò a scivolare fino a che le mani troppo provate e il fisico stanco gli fecero perdere la presa e rovinare al suolo.

Eìos lo seguì con un'agilità invidiabile acquisita negli anni in mare e sugli alberi maestri delle navi e in pochi minuti fu sul selciato di fronte alla casa.

I servi avevano cominciato a spegnere l'incendio dall'istante in cui Eìos si era gettato al salvataggio del padrone.
Uno dietro l'altro, si passavano i secchi colmi d'acqua che venivano riempiti nella grande fontana e poi svuotati sulle fiamme.

Alla catena umana si unì Eìos, gli occhi verdi e lucidi esaltati dalla fuligine che li circondava; il corpo liberato dal pesante mantello e la camicia logorata dal l'impresa sotto cui i muscoli lavoravano senza tregua.

Miran dietro di lui lo guardava e l'odiava.

L'incoscienza con cui si era lanciato tra le fiamme per salvarlo; la foga con cui instancabilmente partecipava al tentativo disperato di salvare anche i poveri resti di quella casa che li aveva visti amici, fratelli, pur senza averne coscienza, gli torcevano le budella e lo confondevano.

Perché aveva rischiato la vita per salvare la sua?

Perché non l'aveva lasciato così, a morire dannato, giacché egli stesso era stato causa del suo inferno?

- Sporcati le mani anche tu! - gli urlò, svuotando l'ennesimo secchio, - Non pretenderai che oltre alla vita, ti salvi anche la casa? - lo provocò ancora, col fiato corto per la fatica.

- Bastardo! - imprecò, esasperato dal suo ammirabile sacrificio.

- Sta' attento, fratello, non fingerò di non aver sentito un'altra volta! -

Miran ingoiò la bile che gli intossicava la gola e si mise in fila insieme agli altri, per contribuire.

L'incendio si acquietò alle prime luci dell'alba, quando, nel gelo del mattino della Vigilia di Natale, uomini e donne, servi e padroni, bastardi e onorabili, erano ormai esausti e completamente devastati da quella notte di fiamme.

La campana della piccola cappella di famiglia suonò a festa, come fosse il giorno del santo patrono, celebrando la sconfitta del mostro e al tintinnio allegro si accompagnarono le risa dei bimbi e le voci rauche e stanche degli uomini, i pianti liberatori delle loro donne, che con la stessa determinazione e forza li avevano aiutati.

Eìos crollò sul selciato, distrutto dalla fatica, la testa tra le mani e le dita tra i capelli sporchi.

Miran gli si fermò davanti, la stessa spossatezza delle membra e la stessa espressione stravolta.

- Perché? - chiese soltanto, con la voce del ragazzino di dieci anni prima, commossa e flebile, temendo la risposta che Eìos avrebbe potuto dargli, qualunque essa fosse.

Eìos tirò su la testa, l'immagine del suo volto riportò la mente di Miran agli anni in cui tutto era facile, in cui tutto si poteva fare.

Quegli anni in cui un bastardo straccione, senza origini e senza futuro, poteva diventare l'amico del figlio del padrone e il futuro si poteva costruire insieme, così come essi stessi desideravano.

- Perché, nonostante tutto ... - rispose, cercando negli occhi dell'altro la stessa purezza di sentimenti di quegli anni. - Tu sarai sempre e comunque mio fratello! -

Miran sbatté le palpebre e ricacciò in gola le lacrime per la sorte che li aveva messi uno contro l'altro, che li aveva resi soldati di due eserciti opposti, piuttosto che alleati prolifici, come avrebbero dovuto essere.

Tese la destra, tremante, come fanno i bambini per fare la pace, il palmo aperto, le dita sottili e delicate, e attese in silenzio.

Eìos abbozzò una smorfia che dentro nascondeva un sorriso e gli offrì la propria.

Le mani si afferrarono, si strinsero, scambiandosi gli ultimi brandelli di forza e di speranza rimaste.

Eìos fece leva sulle gambe e Miran tirò, finché furono l'uno di fronte all'altro, occhi negli occhi, alla stessa altezza.

Finalmente uguali.

************

Ben trovate!
Siamo giunti all'ultimo capitolo, ma la storia non è ancora finita.
Pubblicherò al più presto un epilogo.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e avrei piacere non solo nei vostri voti, ma anche nei vostri commenti.
Vi lascio un bacio e a presto!

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