The Art of Happiness

By ___gaimaninthetardis

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Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei v... More

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Epilogo.

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By ___gaimaninthetardis

«Tu sei assolutamente fuori di melone».

Guardai Jacques con odio malcelato. «Sta' zitto, amore».

Dal momento che dovevo fingermi la sua adorata e innamoratissima fidanzata non potevo astenermi dall'accompagnare il mio coinquilino alla gare d'Austerlitz per andare a prendere i suoi genitori in arrivo a Parigi. Il che significava sostenere l'imbarazzante conversazione in cui raccontare le dinamiche del mio incontro con George ad una persona che aveva la sensibilità di una pietra.

«Sono molto serio, mia cara», insistette lui mentre la linea 10 della metro ci portava a destinazione. «Hai davvero intenzione di chiamarlo? Davvero?».

«Beh, perché no?», domandai ad alta voce, rivolta più a me stessa che a lui. «Insomma, non c'è niente di male. Siamo adulti e vogliamo essere amici».

«Non siete stati capaci di essere amici nemmeno per cinque secondi», mi ricordò Jacques con espressione di ascetica saggezza. «Tu hai iniziato ad avere pensieri impuri dopo la prima festa insieme e lui... Beh, non so lui, ma chiunque avrebbe avuto pensieri impuri su di te, con il vestito che avevi».

Risi forte. «Soprattutto tu, caro futuro marito».

Finse di volermi palpare una chiappa. «Per questo mi sono messo con te, un anno fa...».

«...durante una romantica cena sulla Senna...».

«...mentre tu mi parlavi di un manifesto di Mucha», concluse lui. «Vedi? Mi ricordo di Mucha».

«Meno male», commentai mentre il treno rallentava, «visto che te l'ho ripetuto cento volte. Ti ricordi anche cosa mi hai regalato per san Valentino?».

Jacques annuì e mi prese la mano prima di scendere dal vagone. «Il cofanetto con le prime tre stagioni di Boardwalk Empire».

«E io ho regalato a te l'ultimo Uncharted».

«Che è stata una scelta un po' orrenda, visto che io volevo Skyrim».

Ridacchiai e gli allungai un colpo sulla spalla. «Stiamo insieme da mezzo minuto e già ti detesto, come fa Manuel?».

Jacques esitò, sistemandosi meglio la cuffia di lana sul capo. Assunse un'espressione strana, un po' mesta, e fece spallucce. «Non lo so. Non lo so come fa, prima o poi finirà per stancarsi».

Manuel non aveva preso molto bene la decisione di Jacques riguardo i suoi genitori. Non capiva perché non potesse semplicemente dire "Mamma, papà, apprezzo il pene ultimamente" ed aveva immediatamente tirato in ballo la sua famiglia, che non aveva mai avuto alcun problema con la sua sessualità.

La madre di Manuel, Sonie, era di Grasse ed era un'attivista per i diritti delle coppie di fatto, comprese quelle omosessuali: mai avrebbe fatto ostruzionismo a suo figlio. Il padre di Manuel si era volatilizzato quando lui aveva sette anni ed il nuovo compagno della mamma, Philippe, era il sindaco di Chateauneuf-Grasse, piccolo paesino di provincia, era molto aperto e senza troppi pregiudizi. Anche lui non aveva mai avuto problemi.

Nessuno di noi aveva idea di come fossero i genitori di Jacques: sapevamo solamente che lui era un cardiochirurgo e lei una di quelle donne la cui unica occupazione nella vita è presenziare a serate di beneficenza in abito lungo. Continuavano a sborsare denaro contante ogni mese convinti che il figlio stesse studiando, cosa che in realtà Jacques non si era mai dato la pena di fare.

Per quel che riguardava il mio consenso, avevo abbastanza fiducia nella capacità di giudizio del mio amico per capire che era terrorizzato dai suoi. E poi chi ero io per giudicare? Parliamo della stessa scema che ha sputtanato non uno, ma due rapporti amorosi in due mesi. Non potevo proprio dire nulla.

Invece il suo compagno poteva eccome e quella era stata la loro prima crisi. Per qualche giorno Manuel era andato a stare da un amico ed era stato tremendamente imbarazzante incontrarlo al lavoro.

Non avete idea di come diventasse Manuel quando era triste o arrabbiato. Aveva la stessa verve di Ih-Oh, l'asinello di Winnie the Pooh, e si trascinava stancamente da un bancale all'altro del negozio senza avere realmente la volontà di fare alcunché. Il primo giorno rispose al mio saluto con uno sconsolato "Ciao, Léo" e durante la pausa lo trovai a piagnucolare nel ripostiglio dietro le casse. Bette ed io non sapevamo se andarlo a consolare o lasciarlo annegare nel proprio dolore.

Poi, appena tre giorni prima dell'arrivo dei genitori di Jacques, Manuel era tornato a casa. Non so bene cosa si siano detti lui e Jacques per fare pace, comunque sembrava che le cose si fossero risolte. La verità è che Manuel amava Jacques così tanto che si sarebbe fatto uccidere pur di non perderlo.

Così avevamo spostato in fretta e furia le mie cose in camera loro, mentre Manuel aveva messo le sue nella mia. Jacques ed io avevamo concordato una bella storia molto leziosa sul nostro piccolo grande amore e Manuel aveva promesso di non piangere davanti ai suoi genitori – che volevano conoscere tutti i nostri amici.

Ed io volevo invitare George.

«Non pensi sarà imbarazzante, comunque?», domandò Jacques mentre scrutavamo il tabellone nel salone centrale per capire a quale binario sarebbero arrivati i suoi.

«Per Manuel?».

«No, parlavo della cena e di George», fece lui. «Onestamente se fossi al posto suo sarei a disagio. Insomma, tu fingerai di amare un altro uomo e lui si accorgerà presto che tutti noi sappiamo dei vostri trascorsi».

Mio malgrado mi vidi costretta ad annuire. «Sì, forse hai ragione».

«Binario quattro», disse Jacques passandomi una mano intorno alla vita. Iniziammo a camminare verso la destinazione. «Battute a parte, ora che siamo solo io e te vorrei la verità: perché vuoi riprendere a frequentarlo? Il vero motivo».

Sospirai, improvvisamente accaldata sotto il parka di Benetton. «Sinceramente non lo so. Stare con lui mi ha fatto più male che bene, questo è sicuro. Però...».

«Però?».

Mi arrestai di colpo non appena arrivammo sul binario. Il treno sarebbe arrivato nel giro di pochi minuti e volevo affrontare il discorso subito, non avevo voglia di rimandarlo a chissà quando. «Mi manca», confessai. «Mi è mancato ogni singolo giorno. Mi è mancata la passione, mi sono mancate le sue attenzioni, ma soprattutto mi è mancata la sua presenza. La compagnia, sai».

Jacques annuì da dietro la sciarpa. «Ok».

«Lui mi fa ridere», aggiunsi. «E mi conosce. So che sembra stupido, perché siamo stati insieme poco, ma giuro che nessuno al mondo saprebbe capirmi meglio di lui, nemmeno Marie. Nemmeno mia madre».

Dopo avermi fissata per un po' senza aprire bocca, Jacques emise un lungo sospiro. «Non capisco perché non lo hai richiamato, allora».

«Non lo so, mi faceva troppa paura».

«Credi che sarai capace di essergli amica e basta?».

Scossi il capo, senza sapere come rispondere. «Tentar non nuoce, eh?».

«Nuoce eccome. A te e anche a me, per estensione. E a George. Se non ce la farete ad essere amici soffrirete entrambi e allora avrete solo peggiorato la situazione. Per non parlare del fatto che mi toccherà raccogliere i tuoi pezzi un'altra volta».

Feci un cenno di risoluto diniego. «No, giuro che non accadrà. Preferisco essergli amica che non vederlo mai più».

Se Jacques voleva dire la sua a riguardo non lo seppi mai, perché non appena ebbi chiuso la bocca udimmo uno sferragliare su rotaie; mi sporsi oltre la sua figura alta e osservai con il cuore in gola il treno parcheggiarsi al suo posto e una fiumana di gente assieparsi vicino alle porte, in attesa di poter salire.

«Buffo, la prima volta che un uomo mi presenta ai genitori è una bugia», commentai.

Jacques mi afferrò la mano con forza inaspettata: sospetto che lo avrebbe fatto comunque, vista l'ansia che gli provocava la situazione. «Sto per morire».

Gli strinsi di rimando la mano e cercai di apparire incoraggiante. «Andrà tutto bene, vedrai, tu cerca solo di apparire naturale».

«Non noteranno nemmeno la differenza, io sono sempre agitato con loro».

***

La madre di Jacques, a quanto pareva, si chiamava Éloise ed era una donna bionda, con i capelli a caschetto lisci come spaghetti, e nel complesso la si poteva dire davvero bella. Aveva zigomi alti, lineamenti affilati ed il corpo era longilineo e slanciato, snello. Da giovane, nell'epoca d'oro delle top model negli anni '80, aveva sfilato in tutta Europa ed era rimasta in contatto con stilisti e modelli da allora, anche se aveva abbandonato il mondo della moda quando era rimasta incinta. Inutile dire che le feci migliaia di domande su tutti i più grandi nomi della haute couture e che lei, cortesemente, mi prestò la massima attenzione.

Il marito di Éloise portava l'altisonante nome di César Bertrand Moreau. Era, come sapevamo tutti, un cardiochirurgo che operava principalmente all'estero, ma che aveva recentemente accettato un contratto di tre anni in una clinica privata di Bordeaux. Era un uomo taciturno, spiccicò a malapena due parole quando mi vide, e somigliava paurosamente a suo figlio. Guardandolo mi parve di vedere Jacques a cinquantasei anni, solo che il padre portava i baffi.

Anche se cordiale lei e taciturno lui, mi fu chiaro fin da subito che il mio essere italiana era uno sbaglio che non avrei dovuto commettere alla nascita. Come dice la zia Augusta in L'importanza di chiamarsi Ernesto, perdere un genitore è una sfortuna, ma perderne addirittura due è un grave sintomo di superficialità. Ebbene, pareva che i miei suoceri considerassero anche le mie origini un'espressione di disattenzione e inadeguatezza. Comunque non fecero commenti ed io, che dovevo essere imparentata con loro solamente per i quattro giorni che avrebbero passato lì, non avrei dovuto poi faticare troppo a sopportarli.

Éloise non parve molto soddisfatta della casa; César si limitò ad accendersi un sigaro e a rivolgere un cenno di saluto a Manuel.

Fu una scena divertente, perché negli occhi del nostro terzo compare notai non solo orrore per quella famiglia, ma anche sollievo: forse, ora che li aveva conosciuti, non smaniava poi troppo per essere presentato come fidanzato.

Non voglio dire che fossero bastardi nell'anima, lei era piuttosto gentile e lui non parlava abbastanza per trovargli dei difetti. Sono certa che avessero le loro qualità, come chiunque. Però non sembravano troppo decisi a mostrarci quali fossero.

La cena con gli amici, la sera successiva, fu quanto di più imbarazzante mi sia mai capitato di osservare.

Jacques propose ai suoi genitori di cenare in casa. «Facciamo sempre così», spiegò alla madre, «e tu dicevi di voler vedere come fosse la mia vita qui».

«In casa?», fece lei. Assunse un'espressione un po' a disagio, come se detestasse l'idea e non lo volesse ammettere. «Beh, tesoro, è una bella idea, ma... Tuo padre ed io pensavamo saremmo andati al ristorante».

Madre e figlio guardarono me ed io mi sentii diretta verso la ghigliottina. Li squadrai di rimando e ammetto che sarei scappata via se non avessi visto lo sguardo supplice di Jacques. Così sorrisi come una brava hostess e finsi di riflettere. «Amore, c'è quel ristorantino sulla rive gauche dove siamo andati per il tuo compleanno».

Era una cazzata indecente: non avevo mangiato da nessuna parte per il compleanno di Jacques, non sapevo nemmeno in che data compisse gli anni. Lui colse al volo l'opportunità ed esclamò: «Ma certo, hai ragione, potremmo sempre andare lì».

Decidemmo in fretta e furia dove potesse essere quel "lì", cercando disperatamente su Tripadvisor un qualsiasi posto che fosse anche solo vagamente sulla rive gauche. Alla fine optammo per un posto chiamato La Butte e decidemmo che era abbastanza di classe per i suoi genitori.

Ci riunimmo intorno al tavolo tutti insieme: i coniugi Moreau, Jacques, io, Marie e Jeannot, Manuel e Bette. Max aveva telefonato dicendo di essere ancora fuori città con Louise e Nicole era ancora in Canada come ragazza alla pari.

Ammetto che avrei strozzato la mia finta suocera, quando vidi il modo in cui studiava Bette. Come se cercasse cosa nel suo aspetto la facesse incazzare – o vergognare, non riuscii a cogliere la sfumatura nella sua espressione. Anche Bette se ne accorse e non aprì bocca se non per salutare, avvampando.

«Anche Marie si è laureata in storia dell'arte come Léo», disse Jacques per fare conversazione.

Lei, la mia amica, sorrise con dolcezza con le sue labbra sensuali e piene. «Ma Léo è stata la migliore», asserì, «è uscita con la lode».

«Siamo uscite entrambe con la lode», puntualizzai. Non volevo che Marie mi adulasse davanti a quei due, non dopo aver dimostrato quanta puzza avessero sotto al proprio naso.

«Oh», fece Éloise, «e come mai lavori al Gitem, Léo?».

Non credo volesse mettermi in difficoltà davanti a tutti e neppure che volesse imbarazzare suo figlio. Sospetto che stesse cercando di testarmi per vedere quanto arrivista fossi. Se solo mi avesse conosciuta un anno prima, mi avrebbe adorata come la figlia che non aveva mai avuto.

Sorrisi senza preoccuparmi di nascondere l'odio represso. «È il mio desiderio da una vita», ironizzai.

Notai con piacere che Jacques rideva sotto i baffi. «Lasciala in pace, mamma».

«Sono solo curiosa di conoscerla», si difese lei. «E di conoscere i tuoi amici, naturalmente. Mi passi la salsa, tesoro?».

César prese la salsiera e versò parte del contenuto nel piatto della moglie senza dire neanche una parola.

Lei, invece, continuò imperterrita a chiacchierare. «E, Jeannot, tu che fai?».

«Ho trovato lavoro in una motorizzazione», spiegò lui sorseggiando il suo vino rosso dal bicchiere. «Mi occupo di rilasciare i documenti necessari agli esami per la patente. Non è il mio punto di arrivo, ma per avere appena iniziato mi è andata bene».

Ero convinta che la signora Moreau avrebbe apprezzato il lavoro di Jeannot, che aveva la parvenza di un impiego vero, ma qualcosa nel tono che lui aveva usato non le piacque. Forse le aveva dato l'impressione di accontentarsi.

In compenso sembrò apprezzare ciò che disse Bette. Può sembrare strano, visto quello che ho detto prima sul modo in cui la guardava, ma in realtà ha un senso logico: Éloise si aspettava che Bette, sovrappeso e con i capelli tinti di rosa fluo, facesse un lavoro mediocre e quando ottenne la conferma alle sue supposizioni parve ritrovare una certa stabilità. Non era certo estasiata, ma almeno era tranquilla.

«Manuel, che mi dici di te?».

Quella sarebbe stata la ciliegina sulla torta, ne ero sicura. Ingurgitai quello che rimaneva delle crespelle alla valdostana che avevo nel piatto e finsi di non esistere, era meglio così. Si vedeva lontano un chilometro che i rasta non erano di suo gradimento, l'unico modo di farlo capire più esplicitamente era che Éloise lo dicesse ad alta voce. Per non parlare del piccolo tatuaggio che Manuel aveva sull'osso dell'anca: quando si era sfilato la giacca, la felpa si era sollevata un po' e i nostri ospiti lo avevano notato subito, storcendo il naso.

Manuel sorrise come faceva sempre. Jacques lo aveva supplicato di non avere la solita aria da drogato, ma era la sua indole e non era stato in grado di nasconderla troppo a lungo. «Io lavoro con Sand... Voglio dire, con Léo», si corresse. «Sono andato a lavorare al Gitem qualche anno fa».

«Sono molto gentili ad ospitarti, no?».

Perfino il marito la guardò con tanto d'occhi da dietro gli occhiali rettangolari, il che è tutto dire, ammettiamolo. Sull'intera tavolata crollò un silenzio così pesante e teso che avrei potuto affettarlo con un coltello. La forchetta di Marie tintinnò quando le cadde nel piatto e tutti, nessuno escluso, fissammo Éloise con incredulità.

«Oh, mio Dio», sussurrò Marie all'altro capo del tavolo.

Manuel fu l'unico, insieme alla madre di Jacques, a non perdere la sua espressione di bronzo. «Come dice, mi scusi?».

Non voglio pensare che Éloise non si sia resa conto della gaffe stratosferica nella quale era precipitata. Non era stupida, era un tipo di donna che aveva fatto della propria astuzia un'arte: no, sospetto che semplicemente non le importasse.

«Ho detto», rispose tagliando un pezzo del suo filetto di manzo, «che mio figlio e la sua ragazza sono molto gentili ad ospitarti».

Con un sorriso che di cordiale non aveva niente, Manuel scosse il capo agitando i dread. «Devo proprio correggerla, signora. Pago un regolare affitto, contribuisco alle bollette e alla spesa settimanale. Non mi serve farmi mantenere, anche se il mio aspetto forse a lei dice il contrario». Appoggiò il tovagliolo sul tavolo e scostò la sedia con calma raggelante: come facesse a stare tranquillo proprio non lo so. «Con permesso».

Nessuno di noi osò guardarlo mentre si alzava. Andò fino al bancone, parlottò per un momento con la ragazza alla cassa e si fece fare il conto. Pagò ed uscì con tutta la naturalezza possibile.

Jacques si alzò di scatto, muovendo l'intero tavolo. «Mamma, ti farei un applauso, davvero».

«Che ho detto?», fece lei aggrottando la fronte.

Lui non la ascoltò nemmeno e corse fuori senza neanche infilarsi la giacca, all'inseguimento del suo ragazzo, sotto lo sguardo preoccupato della cassiera.

Restammo per un momento in silenzio. Marie fissava il suo piatto con gli occhi sgranati e le mani in grembo, Jeannot si era girato verso la porta. Bette invece guardava me, mentre César fissava sua moglie e sua moglie fissava il vuoto bevendo vino.

Io, dal canto mio, non sapevo se correre dietro a Jacques per salvare le apparenze, se mettermi a insultare la suocera o se scavarmi una fossa, seppellirmi e morire.

Marie si schiarì la gola per attirare la mia attenzione. «Ehm, si è fatto tardi», commentò con la sua vocina e i suoi occhioni languidi. «Domani è domenica e devo essere al bar alle cinque e mezza per aspettare il furgone con le brioches».

Era la scusa più cogliona del mondo, dato che erano solamente le nove di sera, ma capivo perfettamente il motivo per cui la stava usando. «Certo», borbottai, invidiosa perché poteva darsela a gambe ed io no. «Ci sentiamo domani».

Lei annuì mentre si alzava e mi lanciò uno sguardo così allarmato che se fossimo state sole mi sarei fiondata ad abbracciarla. Jeannot mi rivolse appena un'occhiata, a disagio, e praticamente scappò via dopo aver pagato.

Bette si alzò a sua volta. «Farei meglio ad andare anche io, con la metro ci metterò più di un'ora ad arrivare a casa».

Sospirai, incerta se fosse un bene o un male che tutti mi abbandonassero a quel tavolo con quella specie di virago. «Ci vediamo al lavoro, ok?».

Lei annuì, prese la giacca e andò a pagare la sua parte della cena. La ragazza della cassa fece il conto sbuffando, per poi guardare il nostro tavolo con disappunto per il lavoro extra che le stavamo dando.

«Non capisco cosa ho detto di sbagliato».

Guardai Éloise aggrottando la fronte. «Ah, no?».

Lei si strinse nelle spalle. «Che cosa c'è che non va? Ho solo detto che siete gentili, tu e mio figlio. Non pensavo che ci lavorasse davvero, al Gitem, visto come va in giro».

Crollai contro lo schienale della sedia e guardai César. Perfino lui era arrossito e guardava con rabbia la moglie. Sospettavo che, una volta arrivati in albergo, avrebbero discusso. Tanto meglio, visto quello che aveva detto. Silenzioso finché volete, ma almeno su una cosa eravamo d'accordo.

«Manuel è una delle persone migliori che conosca», replicai incrociando le braccia. «Quelli del Gitem non lo meritano».

Lei non colse – o finse di non cogliere – la stizza nella mia voce. «Uhm, sarà. Non volevo creare un tale disastro, dopotutto non ho insultato nessuno».

Ragionare con quella donna era la cosa più inutile della Terra. «Già», sbuffai, senza preoccuparmi di risultare sfacciata. «Nessuno».

Era il segnale che stavo aspettando. Presi il telefono e scrissi a George, invitandolo fuori per un caffè il giorno successivo, dato che non avevo il turno al Gitem. Avevo davvero bisogno di lui.

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