La teoria dei calzini spaiati

By AriC96

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Samuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo... More

Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 29

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By AriC96

Venni informato della partenza per la finale e semifinale solo una settimana prima. Le ultime partite si sarebbero giocate in un campo da baseball ufficiale, quello in cui si tenevano anche le partite tra le squadre nazionali. Solo che, trovandosi in un'altra città, eravamo obbligati a muoverci in anticipo, per poi rimanere lì fino alla fine dell'evento sportivo, cerimonia di premiazione compresa.

Avremmo condiviso gli spazi con le altre squadre in gioco per sette giorni. Non ero sicuro di voler partire, ma ero obbligato in quanto lanciatore ufficiale della Zefiro.

In quei giorni si sarebbe concluso il campionato autunnale, dopo di che avremmo avuto una pausa dalle partite fino a dopo le vacanze di Natale. Avevamo alle spalle una serie di vittorie e una sconfitta, motivo per cui avremmo dovuto giocarci il secondo posto contro la squadra che avrebbe perso la partita per l'oro.

La partita si sarebbe giocata tra la Briza e la Bech, chiunque avesse perso avrebbe giocato contro di noi cinque giorni dopo, motivo per cui saremmo dovuti rimanere nell'edificio assegnato alle squadre del campionato per almeno una settimana. Tutti sotto lo stesso tetto, avendo a disposizione un solo campo per allenarci tra una partita e l'altra, una sola mensa dove mangiare e riposarci.

Avrei dovuto rivedere mio padre, assistere agli allenamenti della sua squadra nei pochi spazi concessi e avrei dovuto incontrare i giocatori dell'Etesia, che avrebbero partecipato alla premiazione finale, come tutte le squadre che avevano partecipato al campionato.

Non sapevo cosa fosse peggio, ma avrei avuto al mio fianco i miei amici e Julian sarebbe stato lontano, perché lo avrei lasciato con Miguel. Glielo avevo promesso, gli avrei lasciato mio fratello se ne avessi avuto bisogno.

Quando ero partito con Chris non lo avevo contattato perché mi era sembrato crudele includerlo nella relazione che aveva seguito quella che avevo avuto con lui. Forse a lui non sarebbe importato, ma a me sì. Non volevo che Miguel venisse a sapere che lui non era più il mio ultimo bacio. Avevo condiviso quell'emozione con qualcun altro.

Mi piegai per prendere sotto il letto il borsone e lo poggiai sul letto, accanto a Juju.

«Perché non posso venire anche io?», lo gnomo guardò dentro la sacca vuota, come se potessi impacchettarlo lì dentro e portarlo con me.

«Perché questa partenza è solo per i grandi», svuotai il primo cassetto.

«I piccoli dovrebbero giocare, non i grandi», incrociò le braccia e gonfiò le guance.

«Non giochiamo come fate voi».

«Ma giocate», scese dal mio letto e camminò verso il suo. Indossava due calzini spaiati, uno con disegnati dei lupetti e uno con delle pesche.

«È uno sport», gli feci notare, dandogli le spalle per piegare nel miglior modo le magliette per farle entrare tutte.

«Perché non esistono gare anche per fare i castelli di sabbia? Anche quello è un gioco», si arrampicò sul suo letto e si alzò in piedi sul materasso. Il suo obiettivo era la mensola attaccata alla parete. Lanciai un'occhiata al muro e sospirai, distogliendo l'attenzione prima di riportare a galla episodi che avrei dovuto cancellare dalla mia mente.

«Non è uno sport "fare i castelli di sabbia"».

«Dovrebbe, non è facile fare i castelli di sabbia. Vince chi fa il castello più bello».

Stava davvero cercando di convincermi che sarebbe dovuto esistere uno sport del genere. Ma chi avrebbe giudicato i castelli? Un arbitro della sabbia? Scossi la testa e tornai a concentrarmi sui bagagli.

«Samu».

«Dimmi, pulce».

«Tornerai a prendermi, vero?».

Mi girai di scatto e mi accorsi dello sguardo che aveva. Paura e tristezza. Lui era il figlio non scelto, il bambino abbandonato, non potevo immaginare cosa gli passasse per la mente, aveva solo cinque anni, per lui la mia partenza era attribuibile a una fuga.

Lo raggiunsi e mi sedetti accanto a lui. Gli accarezzai la schiena e poi lo sollevai per mettermelo sulle gambe.

Mi guardava con gli occhioni da cerbiatto, due pozze d'acqua profonda. Poggiai la mia fronte alla sua e la visuale si distorse.

«Cucciolo, ho mai permesso a qualcosa o qualcuno di allontanarmi da te?».

Lui scosse la testa sfregando la fronte contro la mia.

«Tornerò, sempre».

Storse la bocca, poco convinto di ciò che gli avevo detto. Quando si distanziò dal mio viso, notai che tra le manine stringeva qualcosa.

«Promesso?», mi porse la fotografia che aveva recuperato dalla mensola in alto e io la guardai con il cuore, prima che con lo sguardo. Quell'istantanea ritraeva me sdraiato sulla schiena, con lui seduto sul mio stomaco. Avevo le gambe piegate e Julian ci poggiava la schiena contro, mandando indietro la testa per le risate. Quello scatto era stato catturato da Miguel mentre io facevo il solletico a mio fratello e ridevo con lui. Era la fotografia che più mi piaceva, di noi due, perché era rappresentativa della gioia che ci trasmettevamo a vicenda.

«Promesso», presi la foto, mi alzai tenendo in braccio Julian e riposi l'istantanea nel borsone, in cima alle magliette e ai pantaloni.

Julian mosse i piedini per aria e la mia attenzione venne catturata di nuovo dai calzini.

«Continui a metterli spaiati?», gli pizzicai l'alluce nascosto sotto il tessuto con i lupetti e lui rise.

«Certo, ora che hanno fatto amicizia, sono tutti una grande famiglia», e mi guardò come se stesse parlando con uno sciocco che non capisce nemmeno le cose più basilari della vita.

Ovvio, come avevo potuto non pensarci che i calzini spaiati creavano delle famiglie del tutto nuove?

Era solo un bambino, ma aveva compreso meglio di molti adulti il vero significato di legame, che non esistono relazioni esclusive, obbligate, come quelle dovute al sangue; se uno vuole, può trovare una famiglia in chiunque voglia... trovare i propri calzini spaiati.

E io, il mio calzino spaiato, dove lo avevo lasciato?

***

L'alloggio per le squadre del campionato era un vecchio liceo non più in uso. Il campo da baseball era stato rimesso a posto per gli allenamenti, le aule erano state svuotate dai banchi per permetterci di stenderci i sacchi a pelo e i bagni erano stati ripuliti per darci modo di usarli.

Il posto era un po' fatiscente, ma aveva tutto il necessario per permetterci di sopravvivere quella settimana, anche la mensa era abbastanza grande da accogliere tutti i giocatori.

L'aula che ci venne assegnata era appartenuta alla sezione E, come affermava il foglio di carta stropicciato attaccato sulla porta, e al suo interno si respirava il passato. Così vuota, senza banchi, sedie e cattedra, ogni rumore si amplificava, rimbalzando sulle pareti, facendolo sembrare bisbigli di alunni ormai cresciuti.

«Lasciate i borsoni e raggiungete il resto delle squadre al campo», il coach Moya ci lasciò, dirigendosi verso il fondo del corridoio.

«Come ci dispon...», provò a chiedere Mark, ma la sua voce si perse sotto le urla dei gemelli.

«IO LONTANO DALLA PORTA», Adam e Chase parlarono all'unisono e corsero verso le finestre per lasciar cadere i borsoni nel riquadro di sole disegnato dal vetro. Uno spiffero d'aria proveniente dagli infissi poco ermetici mosse loro i capelli biondi.

Mi girai a guardare l'entrata dell'aula e inarcai un sopracciglio, chiedendomi come mai non volessero stare vicino alla porta.

«Che succ...», provai a domandare a Chris, il quale stava già raggiungendo i gemelli di corsa. Mi guardai intorno, spaesato, senza sapere che fare, dove mettermi o perché fossero tutti così decisi a non voler dormire vicino l'uscita.

«Siete ridicoli», Drew mi fece scansare e mollò il borsone proprio dove poco prima mi trovavo io. «Ci dormo io con la porta alle spalle», dopo di che stese il suo sacco a pelo e si voltò per andarsene.

«Ma perc...», ma ancora una volta venni interrotto.

«Buona fortuna, amico. Io dormo vicino a Chase», Alex lanciò il borsone che colpì in pieno il sedere del gemello che si trovava chinato di schiena per srotolare il sacco a pelo.

«Io vicino ad Adam», James si unì al gruppo.

«Allora, io accanto al capitano», Mark pure.

Io tenevo ancora in mano il borsone, sospeso a pochi centimetri dal pavimento. Da come stavano disponendo le coperte era rimasto solo un posto libero. Alzai lo sguardo verso Chris, il quale lo ricambiò con una piega leggermente triste degli occhi. Non ero stato abbastanza rapido e non avevo ottenuto lo spicchio di pavimento vicino a lui. Mi girai dalla parte opposta e trovai Alex che mi sorrideva e in modo inquietante batteva la mano a terra, lì dove rimaneva uno spazio vuoto, tra il suo sacco a pelo e quello di Drew.

«Non mi fido», dissi, ma nessuno poteva immaginare mi stessi riferendo a Drew e non ad Alex che continuava ad ammiccare nella mia direzione.

In realtà non era vero che non mi fidavo di Drew, era in me che non avevo fiducia. Dormire accanto al ragazzo che spegneva la mia mente, l'unico al mondo che mi permetteva di non far andare a fuoco la testa. Avevo paura di scoprire che al suo fianco avrei potuto dormire senza ansie, portandomi inevitabilmente a sentire la sua mancanza una volta tornato al campus.

Strinsi le labbra e mi piegai accanto ad Alex con ancora il borsone in mano.

«Tu non dai i calci mentre dormi, vero?».

«No», risposi leggermente intimorito ad Alex.

Oltre la porta aperta passò la squadra di Alejandro, con lui a chiudere la fila. Si fermò e lanciò un'occhiata nella mia direzione, distogliendo subito lo sguardo, come se si vergognasse per qualcosa. Io ero ancora con la mente ferma alla persona che avrebbe dormito alla mia sinistra, sfiorandomi il braccio, forse respirandomi tanto vicino da farmi sentire la turbolenza dell'aria nei suoi polmoni.

Scossi la testa e corsi fuori, fingendo di voler raggiungere il mio fratellastro, ma effettivamente fuggendo da una persona che non era nemmeno lì presente.

«S-Samuel», sussultò Alejandro nel momento in cui gli sfiorai il gomito con la punta delle dita.

«Alejandro».

«De-devi dirmi qualcosa?».

Effettivamente no, ma ne approfittai comunque. «Per caso... sai come ci divideremo per allenarci nello stesso campo?», non sapevo da dove mi uscisse quella domanda, ma sapevo che mi stava grattando da dentro, togliendomi piccoli lembi di carne e facendomi male lì dove il sangue sgorgava in rivoli nel mio stomaco, nei miei polmoni, nel fegato e nel cuore. Mio padre avrebbe potuto vedermi durante gli allenamenti.

«Credo che occuperemo a giro il campo per l'allenamento nelle posizioni, mentre le altre squadre saranno nei dintorni per il riscaldamento e il resto», si strinse nelle spalle, ignorando quale potesse essere il motivo del mio turbamento.

Avrei potuto dedurlo da solo. Il diamante sarebbe servito solo per le simulazioni delle partite, il resto degli esercizi si potevano tranquillamente fare fuori la rete. Forse non avrei visto mio padre, ma temevo che fosse inevitabile incrociarlo in quegli spazi ristretti.

Sospirai rumorosamente e mi fermai, lasciando che Alejandro si allontanasse con i suoi compagni. Non appartenevamo alla stessa famiglia, eppure avevamo quel legame che mi rendeva impossibile ignorarlo. Era come guardare in uno specchio sporco, se avessi pulito l'immagine di fronte a me, allora avrei potuto notare tutte le somiglianze.

***

Il campo era pieno di giocatori con indosso uniformi differenti. I numeri sulle nostre schiene si ripetevano, ma i colori continuavano a mantenere quei limiti netti tra le squadre. I nostri cappellini bordeaux si distinguevano da quelli blu della Briza o quelli verde bottiglia della Bech o quelli viola dell'Etesia.

In totale eravamo nove università, quelle che avevano raggiunto le ultime fasi del campionato, occupando le prime dieci posizioni, ma dei ragazzi lì presenti ne conoscevo sì e no un ottavo. Mi guardai intorno e mi resi conto che gli allenatori ancora non si erano presentati, cosa stessero aspettando non lo sapevo.

«Mi sembri nervoso», Chris si affiancò a me e mi diede una leggera spallata. Come avrei voluto tenergli la mano o farmi stringere dalle sue braccia in quel momento. Sentivo il bisogno di contatto fisico, di affetto, qualcosa che mi ricordasse che qualsiasi fosse stato il trattamento di mio padre non rappresentava il mio ruolo nel mondo. Se anche quell'uomo avesse dimostrato odio nei miei confronti, non avrebbe significato che io valessi meno.

Mossi un passo verso destra, così che il mio braccio fosse a contatto con quello del mio capitano.

«Mi vedrà allenarmi, è da quando ho dieci anni che non mi alleno con lui», finalmente riuscii a dire ciò che mi stava stringendo la gola da quando mi avevano parlato della partenza. Una settimana intera nello stesso edificio con l'uomo che mi aveva abbandonato con una madre a pezzi e un neonato dallo sguardo vispo.

«Lo sai che significa?», mi domandò Chris con un mezzo sorriso. Da inquietante si era trasformato in furbo. «Che potrai dimostrargli chi sei davvero».

Istintivamente mi voltai a cercare Drew. Quei due ragazzi mi confondevano, dicevano l'opposto, ma in qualche modo entrambi avevano ragione.

Drew ci teneva a farmi capire che non dovevo dimostrare nulla all'uomo che non mi aveva voluto tenere con sé; Chris voleva che io gli mostrassi cosa si era perso nel non voler vedermi crescere. Chi aveva ragione? Forse entrambi.

Annuii, senza però riuscire a trovare Drew tra i giocatori in mezzo al diamante. Il mio diciassette si nascondeva. Trovai rassicurante, però, scoprire che nessun altro in campo indossava il suo stesso numero. Mentalmente ringraziai quella sciocca credenza per cui si pensava che quel numero portasse sfortuna. Drew mi aveva spiegato che lo aveva scelto proprio per quel motivo, perché lui voleva rappresentare la sfortuna dei suoi avversari, voleva che i giocatori, vedendolo di spalle, facessero le corna con le mani per scaramanzia. Si divertiva pensando che un semplice numero potesse influenzarli.

«Mettetevi in riga», il coach della Bech batté due volte le mani e tutti noi ci muovemmo contemporaneamente, occupando posizioni che mentalmente consideravamo nostre. Io tra Chris e Alex, i gemelli vicini, Mark accanto a James e Drew non c'era.

Guardai lungo tutta la riga composta da noi giocatori, ma non si era mischiato nemmeno con gli altri. Non era presente in campo.

«Allora, oggi il campo lo dividono le due squadre che giocheranno domani, quindi la Briza e la Bech. Il resto dei giocatori potrà occupare tutti gli spazi nei dintorni».

Mi irrigidii, senza un vero motivo, mio padre sarebbe stato all'interno della rete, io fuori.

Drew apparve dopo pochi minuti in compagnia del coach Moya, che era andato a chiamarlo. A quanto potei capire, Drew si era addormentato nel pulmino che ci aveva portato fin lì. Dopo aver lasciato l'aula in cui avremmo dormito, cercando il posto più tranquillo, aveva trovato il mezzo aperto e vi si era nascosto, appisolandosi.

Il coach Moya mi avvertì che mi sarei allenato con i gemelli e Chris. Avrei lanciato contro i copia e incolla della squadra, due giocatori abili che mi avrebbero permesso di esercitarmi sia con un battitore mancino che destrorso, ma non erano il mio diciassette, il miglior battitore della Zefiro.

Così mi ritrovai con Chris accovacciato di fronte e Adam pronto a rispondere ai miei lanci. Il destrorso. I capelli biondi nascosti dal cappellino bordeaux, gli occhi azzurri stretti nella mia direzione, puntati sulla mano in cui tenevo la palla, le dita strette intorno alla mazza di legno, tanto da far sbiancare le nocche, e i piedi ben piantati sul prato.

Inspirai profondamente, cercai di isolarmi da tutte le voci degli altri giocatori, ma continuavo a cogliere stralci di frasi gridate da avversari e coach. Scossi la testa, provando a scrollarmi di dosso la tensione e spostai l'attenzione sul guantone aperto di Chris.

Ginocchio, gomiti, cuciture, lancio.

Adam era formidabile quando ci trovavamo fuori dal campo, quando non si trattava di partite ufficiali, mentre Chase dava il suo meglio sotto pressione. Potevano anche essere identici fisicamente, ma erano due persone completamente diverse, ora che li conoscevo meglio, potevo distinguerli nei modi di fare.

«Rivera, fermo un attimo», il coach Moya mi posò una mano sulla spalla e mi fece abbassare il braccio in cui tenevo la palla. Mi ero già sbilanciato indietro, ginocchio alzato e dita strette. Fu inevitabile per lui lanciare un'occhiata al suo collega, nonché mio padre, poco distante, ma non disse nulla, spostò la mano.

«Hai il polso rigido, te ne sei accorto?».

«In che senso?».

«Fai il movimento lentamente e non lasciare andare la palla», mosse un passo indietro e mi lasciò spazio di manovra.

Piegai le braccia, guantone a coprire l'impugnatura sulla palla, ginocchio alzato, gomiti in posizione. Mi sbilanciai in avanti, guantone al petto, braccio carico e... il coach mi afferrò il polso e interruppe il mio movimento.

«Eccolo».

«Cosa?».

«Il tuo limite. Appena prima di lasciare la palla, il polso deve flettersi e il palmo deve guardare il battitore. Tu sei rigido in quest'ultimo movimento, solo qui, ma non so...», guardò la mia mano che ancora stringeva la palla, il polso leggermente piegato, il gomito e poi me, i miei occhi. Sembrò vedere qualcosa, qualcosa che nessun altro aveva colto nel mio sguardo, qualcosa che non mi apparteneva. Chiusi le palpebre un istante e lui tornò in sé.

Lanciò un'altra occhiata alle sue spalle, lì dove Alejandro si stava allenando, proprio nel mezzo del mound, insieme al padre. Seguii il suo sguardo e mi immobilizzai.

«Stesso sangue, stesso errore», sussurrò Moya, tornando poi a guardare il mio polso.

«Si riferisce ad Alejandro?».

«No».

«Quindi a...», lasciai la frase in sospeso, lì nel mezzo del prato, raccolta dal vento e trasportata come una foglia secca.

«Sì, tuo padre. Alla tua età commetteva lo stesso errore», mi informò, togliendomi dalle mani la palla.

«Eravate compagni di squadra, vero?».

«Vero, ma non mi spiego perché tu faccia questo stesso errore. Non lo facevi prima, cosa è cambiato negli ultimi allenamenti?».

Mi guardai la mano, ruotai il polso e sospirai. Sapevo benissimo cos'era cambiato, avevo perso contro la squadra di mio padre e, per provare a migliorare, avevo scavato nella mente alla ricerca dei vecchi insegnamenti di quell'uomo. Ecco da dove avevo preso l'errore.

«Mi dispiace, cercherò di fare più attenzione», aprii la mano e chiesi silenziosamente la palla, ma il coach storse la bocca e mi fece segno di seguirlo.

Camminammo qualche minuto, arrivammo sul retro della vecchia scuola, lì dove non c'era nessuno, poi si fermò e mi lanciò la palla che presi al volo. Di nuovo polpastrelli lungo le cuciture, come se quei fili intrecciati fossero le impronte digitali della palla, ciò che la rendevano unica, differente da qualsiasi altra palla presente in campo.

«Posizionati e lanciamela come se fossi Chris», si inginocchiò e si infilò il guantone che aveva tenuto appeso alla cintura fino a quel momento.

«Perché ci siamo spostati?».

«Tu fallo».

E ancora una volta ripetei i movimenti che conoscevo a memoria. Gesti che i muscoli imitavano ogni giorno e che non potevano dimenticare.

La palla fu più veloce, un proiettile in direzione del coach.

«Ed ecco che abbiamo risolto quel piccolo errore».

Inarcai un sopracciglio e mi guardai la mano vuota. Aprii e chiusi le dita, il palmo segnato dai calli, la polvere a riempire i solchi delle impronte digitali, sangue incrostato lì dove una vecchia vescica era scoppiata.

«Imitazione del vecchio te», la voce di Moya mi fece rialzare il volto.

«Che?».

«In presenza di tuo padre, inevitabilmente, riporti a galla i suoi insegnamenti, nonché i suoi stessi errori. Lui aveva un polso rigido al liceo, non perché sbagliasse qualcosa, ma perché da bambino se lo era rotto, quindi ha dovuto trovare un modo differente per potenziare i propri lanci. Si sbilanciava di più in avanti, così che il palmo puntasse comunque l'avversario, nonostante il polso non si piegasse a novanta gradi. Quando si è piccoli e si cerca di imparare qualcosa, si imitano i movimenti. Devi aver colto la rigidità del suo polso, ma non la posizione dell'intero corpo. Poi, al liceo, con allenatori differenti, hai corretto quell'errore. Ma ora sei di nuovo di fronte a tuo padre e ne stai imitando di nuovo i movimenti. Inconsapevolmente».

Strinsi le labbra.

«Samuel, tu non sei lui».

«Lo so», risposi seccato. Perché tutti dovevano intromettersi? Ma soprattutto perché mio padre era anche nei miei gesti?

«Sai, conoscevo un lanciatore che sorrideva ai suoi avversari, come se stare sul mound fosse la cosa più naturale, in piedi sul proprio trono. Si divertiva».

Inspirai profondamente e mandai indietro la testa. Non conoscevo la versione adolescente di mio padre, non riuscivo neanche a immaginarlo della mia età, con indosso la mia stessa divisa.

Il coach mi passò accanto e mi scompigliò i capelli, prima di allontanarsi.

«Samuel, quando hai smesso di divertiti sul mound?», mi domandò.

Quando ho iniziato a non sentirmi all'altezza del ruolo che dovevo coprire in campo, pensai, chiudendo gli occhi e lasciando i miei pensieri a quello stesso vento che prima aveva rubato parte delle mie parole. 

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