La teoria dei calzini spaiati

By AriC96

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Samuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo... More

Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 27

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By AriC96

Indossavo di nuovo la divisa della Zefiro, con il numero ventotto cucito sulla schiena, in quel momento lo sentivo come un peso, una lastra di metallo contro le vertebre che limitava i miei movimenti e mi impediva di giocare nel modo migliore.

Dopo il riscaldamento iniziale, le due squadre vennero chiamate nel mezzo del diamante e io abbassai lo sguardo lì dove i piedini di mio fratello si erano piantati nel tentativo di divincolarsi quando era stato rapito.

Alzai lo sguardo quando l'arbitro chiamò la nostra attenzione, pronunciando i nomi delle due squadre. Zefiro e Briza.

Allungai il braccio e la mia mano si strinse a quella del lanciatore avversario. Alejandro mi guardò con un sopracciglio sollevato e io provai invano a nascondere ciò che provavo in quel momento.

Avrei giocato di fronte al padre che mi aveva abbandonato, contro il figlio che era stato scelto al posto mio, di fronte al ragazzo che mi donava tutti i suoi sorrisi e di fianco a quello che aveva provato a regalarmi un colpo di scena. Quella partita non sarebbe finita bene, lo sapevo.

Il palmo di Alejandro aderiva perfettamente al mio, stesse dimensioni, stessa altezza e stessa posizione in campo. Due lanciatori con lo stesso talento del padre. Che crudele la sorte, sembrava divertirsi nel vedermi crollare.

Ritirai la mano, ma mi raggiunse la voce di Alejandro. «Samuel, stai bene?», perché era lui a chiedermelo e non Chris? Perché nessuno dei miei amici aveva notato il mio sguardo malinconico? Ah, no, qualcuno lo aveva notato.

Mi girai e i miei occhi incrociarono la visuale di quelli di Drew, che mi fissava dal fondo della riga che avevamo formato nel mezzo del diamante. In qualche modo si era reso conto che lo stessi cercando, ancora prima che potessi accorgermene io stesso.

«Sto bene», risposi al mio fratellastro, rimanendo comunque con l'attenzione su quelle gocce di inchiostro che mi perforavano, come se volessero entrarmi dentro e rimanermi impresse come un tatuaggio.

L'arbitro batté due volte le mani e le squadre si divisero, andando ad occupare le panchine rispettive.

«Ragazzi, giocate come siete soliti fare e vedrete che andrà benissimo», il coach Moya passò le protezioni a Chris, mentre io mi piegavo a recuperare il guantone che avevo appeso in bilico sulla mazza da baseball che avrei usato durante l'attacco.

Iniziavamo in difesa e io non ne ero per niente felice. Avrebbe voluto dire occupare per primo il mound, dover essere il primo lanciatore della partita al centro del diamante. Non volevo muovermi, uscire dalla zona sicura che in quel momento era rappresentata dalla tettoia sopra la panchina. Avrei voluto rimanere nascosto, fingere di essere una riserva e non dover giocare. Strinsi la mano sul guantone e rimasi piegato in avanti, rallentando tutti i movimenti, per tardare la mia entrata in campo.

Sentii un calore improvviso vicino al braccio destro e mi voltai, come se già sapessi da chi proveniva.

«Non devi dimostrargli nulla, non è tuo padre, è solo un uomo che non ha saputo assumersi le sue responsabilità», Drew si piegò al mio fianco e recuperò il cappello. Non aveva buttato lì una frase a caso e non si era intromesso in qualcosa in cui non volevo si intromettesse, eppure, non seppi come rispondere. Rimasi con la bocca socchiusa, a guardarlo solo con l'angolo dell'occhio, finché non si allontanò di nuovo da me.

Uscii dall'ombra della tettoia e guardai in direzione di Julian, che si trovava sulle spalle di Cesar. Avevo chiesto a lui di venire a tenere mio fratello perché avevo l'ansia di lasciarlo da solo e quel mio amico non aveva rifiutato, anzi, aveva risposto a quella richiesta con euforia.

Strinsi le labbra quando, nel tornare a guardare di fronte a me, notai mio padre con dei fogli in mano che dava direttive al suo primo battitore. Strinsi la mano a pugno e digrignai i denti. Su quei fogli c'erano probabilmente i dati su di me raccolti da qualche loro riserva durante le mie partite. Mio padre, l'uomo che avrebbe dovuto crescermi e volermi bene a prescindere, aveva bisogno di una scheda creata da un suo atleta per sapere qualcosa su di me.

Avrei voluto attraversare il diamante, raggiungerlo, prendere quei fogli e strapparli davanti il suo viso. Avevo anche la frase perfetta da urlargli contro. "Se volevi conoscere il mio talento, avresti dovuto rimanere al mio fianco".

«Samuel, segui i miei comandi, non fare di testa tua», Chris mi diede una leggera gomitata e io annuii. Il ricevitore aveva il compito di suggerire al lanciatore, con dei gesti della mano libera dal guantone, che tipo di lancio fare, ma non sempre seguivo i suoi consigli; a volte mi prendevo la libertà di fare come mi pareva, obbligandolo a muoversi di più per afferrare la palla, perché arrivava dove non si aspettava.

Quella insubordinazione era poco accettata dal coach Moya, motivo per cui, spesso, Chris evitava di lamentarsene, per evitarmi guai. Ma avrei preferito da lui un po' più di coraggio, avrei preferito che mi "denunciasse" con Moya, che mi facesse passare i guai, perché stavo iniziando a credere che trattarmi sempre con i guanti fosse un modo per tenermi legato a lui.

«Seguirò i tuoi comandi finché li riterrò giusti», avanzai con ampie falcate fino a raggiungere il mound, ma Chris non si diresse verso la casa base, dove si sarebbe dovuto accucciare, bensì mi seguì e mi afferrò il gomito per farmi voltare verso di lui.

«Samuel, che ti prende?».

«Se non riesci a capire quale sia il mio problema, forse non hai il diritto di saperlo», strattonai il braccio per sfuggire dalla sua presa e gli indicai il punto del diamante che avrebbe dovuto occupare lui. «Scendi dal mound, questo è il posto mio».

Non si mosse, rimase al mio fianco, mentre il resto della nostra squadra e della Briza prendeva posto in campo.

«Non mi muovo da qui finché non ti sarai calmato».

Lo fulminai e nel farlo notai sul suo volto un'espressione estremamente preoccupata. Mi sciolsi e chinai il capo colpevole.

«Perdonami, Chris. Sto bene, sono calmo ora, sono pronto a giocare», allungai la mano verso la sua e le nostre nocche si toccarono. Avevo mentito, non ero pronto e non ero calmo, ma che avrei potuto dire? Non volevo nemmeno scendere dal mound, quel posto mi apparteneva, non mi sentivo mai abbastanza adatto al mondo finché non raggiungevo quella collinetta di terra. Lì sopra avevo una visuale differente di ciò che mi circondava e mi sentivo "giusto".

Ricevetti la palla direttamente dall'arbitro, che mi squadrò dalla testa ai piedi, poi tornai a guardare di fronte a me. Chris piegato sui calcagni e l'avversario con la mazza di legno sollevata.

Inspirai profondamente, lanciai un'occhiata a mio padre, che con i muscoli tesi guardava il suo giocatore, e poi tornai con l'attenzione sul guantone del mio capitano.

Devo solo lanciare la palla a Chris, nient'altro. Solo questo, pensai mentre sollevavo il ginocchio sinistro e mi chiudevo su me stesso per fare da involucro alla palla, pronto a lasciarla andare con un lancio possente.

Sentii le cuciture premere contro le dita, chiusi gli occhi un istante, cercando di concentrarmi sul filo che teneva tutta d'un pezzo la palla, e poi li riaprii di scatto e mi buttai in avanti disegnando un semicerchio con la punta del piede, per poi piantarlo nella terra e mandare avanti il braccio.

La palla sfrecciò in direzione del guantone di Chris, ma la mazza di legno si frappose un istante prima che il capitano potesse accoglierla nel suo palmo coperto.

La palla venne spedita oltre la mia testa, arrivando nel riquadro di terra tra la prima e la seconda base. Mi voltai alzando già la mano su cui indossavo il guantone e attesi che mi tornasse la palla.

Daniel corse, si piegò afferrandola e si girò verso Mark, il quale scosse la testa e indicò James, che già si trovava sporto in avanti con il guantone aperto nella sua direzione e con la punta del piede ancora sulla seconda base. La palla volò dall'esterno destro fino a James, il quale si voltò verso di me e mi passò di nuovo la palla.

L'avversario aveva guadagnato la prima base e io avevo ancora più pressione sulle spalle.

«Va tutto bene, riproviamoci», urlò Chris, riportandosi la protezione davanti il volto e guardandomi tra le maglie della rete.

Guardai la palla nella mia mano destra, la lanciai contro il guantone che portavo a sinistra e la ripresi. Il peso mi sembrava diverso dal solito, le cuciture meno sfilacciate, il bianco meno sporco. Non era la palla solita con cui andavo in giro per il campus per non dimenticare la posizione del filo o la mole, era estranea per me.

Lanciai un'occhiata a mio padre, che con braccia incrociate si picchiettava le costole con i fogli di carta che riportavano i miei punti di forza e quelli deboli.

Sospirai e sfregai la punta della scarpa sul mound. Non mi ero mai sentito così vicino a Charlie Brown.

Un altro lancio e un'altra base conquistata dagli avversari. Stavo perdendo il controllo, le dita mi formicolavano, le gambe dolevano, come le braccia, e la testa mi girava. Dovevo tenere d'occhio i battitori che già occupavano le basi e non permettere loro di raggiungere la casa base e, nel frattempo, eliminare il battitore di fronte a me, in modo tale da avvicinarmi un po' alla fine del primo tempo del primo inning.

Piegai il ginocchio, che arrivò a sfiorare il gomito sinistro, protessi la palla con il guantone, la nascosi per più tempo possibile dal giocatore della Briza e poi la lanciai.

Un altro colpo dritto contro la mazza da baseball, un altro vantaggio per loro che cominciarono a correre in direzione delle basi successive. Il primo fece punto, il secondo venne eliminato tra la seconda e la terza base, mentre il battitore raggiungeva facilmente la prima.

Un altro avversario, un'altra occhiata a mio padre e di nuovo la palla tra le mie dita.

Ginocchio su.

Braccia strette al petto.

Guantone a coprire la posizione delle cuciture.

Slancio.

Lancio.

Mazza da baseball in movimento.

Palla all'esterno sinistro.

Interbase.

Ricevitore pronto ad eliminare l'avversario.

Altro punto per la Briza.

Inspirai profondamente, trattenni per un po' l'aria e lanciai un'occhiata a mio padre, che indicava ad Alejandro la casa base. Sarebbe stato il figlio scelto il mio prossimo avversario, il battitore che dovevo eliminare se volevo fermarli, ma la vista mi si offuscò. Temetti per un calo di zuccheri, in fondo non ero riuscito a fare colazione quella mattina, lo stomaco era già pieno di ansia, non c'era posto per qualcos'altro. Scossi la testa, mi strofinai gli occhi e mi resi conto che non si trattava affatto di un calo di zuccheri, ma di lacrime. Ero sul punto di piangere e non ne capivo il motivo.

Feci un giro su me stesso, guardai uno ad uno i miei compagni partendo da Chris, il ricevitore; Mark, con la punta della scarpa sulla prima base; Daniel, che spostava il peso da un piede all'altro; James, stessa posizione di Mark ma con la suola sulla seconda base; Chase, che cercava di comunicare con il gemello senza però parlare, solo a gesti; Alex, piegato sulle ginocchia che molleggiava in attesa del mio prossimo lancio; Adam, che gesticolava in direzione di Chase; e per ultimo Drew, l'unico che guardava nella mia direzione, che mi osservava come fossi un enigma da risolvere. Avevo la sensazione che stesse per arrivare alla soluzione prima di tutti gli altri. Quando mi soffermai a guardarlo, lui sollevò la mano senza guantone e si portò il dito indice al naso... aveva capito tutto. Lui aveva compreso quale fosse il problema prima che ci potessi arrivare io. Mi voltai a guardare Julian, quel segnale del dito sul naso lo conoscevamo solo io e lui, motivo per cui dedussi fosse stato proprio quello gnometto ad insegnarlo a Drew.

«Non ce la faccio», sussurrai tra me e me, nessuno poteva avermi udito. Qualcuno avrebbe potuto notare il movimento delle mie labbra, ma non avrebbe potuto dedurne il mio pensiero, eppure, venne chiamato un time-out.

Sollevai di scatto la testa e vidi Drew correre nella mia direzione.

«Sembri Julian alla partita di basket», mi informò e io mi stizzii. Julian era un pessimo cestista.

«Non sei simp...».

«Non hai capito», scosse la testa e fece segno a tutta la squadra di raggiungerci sul muond. «Ti ricordi cosa hai detto a tuo fratello quando non riusciva a fare canestro?».

«Non capisco dove tu voglia...».

Venni circondato dai miei compagni, ma i miei occhi rimasero fissi in quelli neri di Drew.

«Samuel, non sei solo».

«Sono l'unico lanciatore», obiettai.

«In campo siamo in nove, non farti carico dell'intera partita. Lancia in modo tale che colpiscano la palla e che arrivi nei nostri guantoni, poi ci penseremo noi ad eliminare gli avversari».

Lanciai un'occhiata a mio padre che ora stava mostrando i fogli ad un altro suo atleta.

«E smettila di cercare la sua approvazione. Sei forte sia che lui lo voglia ammettere o meno. Gioca per la squadra, per Julian, per te... non per lui», Drew mi diede un colpetto con il dorso del guantone e si girò per tornare ad occupare la sua posizione accanto alla terza base. Il suo numero sulla schiena era ben teso, gli sfiorava le spalle e trasmetteva sicurezza, come un mantello da supereroe. Diciassette, quel numero non lo avrei dimenticato, sapevo che sarebbe stato così.

Alejandro prese posizione di fronte a me e mi guardò con curiosità, non c'era odio nei suoi occhi, ormai credeva di conoscermi, credeva anche di potersi definire "fratello di Julian", ma non aveva capito che io non ero disposto a dividere mio fratello con nessuno.

Sollevai il ginocchio, inspirai riempiendo i polmoni, mi passai la punta della lingua sulle labbra e lanciai.

«STRIKE UNO», urlò l'arbitro dietro Chris, il quale si alzò in piedi e mi ripassò la palla.

Ginocchio. Gomito. Inspirazione. Bacino. Piede. Braccio. Palla.

«STRIKE DUE».

E di nuovo, tutto da capo.

Dita sulle cuciture. Guantone a coprire. Ginocchio vicino al gomito. Punta del piede in direzione del battitore. Lancio.

«BALL».

Mi lasciai sfuggire un verso di dissenso e ripresi al volo la palla.

Ginocchio. Respiro. Lancio... mazza di legno.

Vidi la palla volare sopra la mia testa, superando la seconda base, abbassai lo sguardo su Chase nel momento esatto in cui quello saltava per prenderla al volo.

«ELIMINATO».

Non riuscii ad esultare, non ero stato io ad eliminare il figlio di mio padre, ma comunque non gli avevamo permesso di raggiungere la prima base.

La partita si prolungò, Alejandro mi dimostrò quanto fosse bravo, anche se secondo Chris e il coach Moya non era ancora al mio livello, e concesse pochi punti alla mia squadra.

Purtroppo, nonostante giocai meglio dal secondo inning in poi, non riuscimmo a vincere e fummo sconfitti.

Ci trascinammo nel mezzo del diamante, strinsi di nuovo la mano di Alejandro e lo guardai negli occhi.

«Non la considero una vera vittoria», mi disse. «Ci scontreremo di nuovo e per allora cerca di essere in forma. Voglio battermi contro il vero Samuel Rivera».

Gli sorrisi, anche se aveva dell'amaro quella mia espressione. Non sapevo più chi fosse il vero me.

Quando i miei compagni iniziarono a dirigersi verso gli spogliatoi, mi fermai e afferrai la mazza di legno vicino la panca.

«Chris, puoi tenere d'occhio Juju, io vado a mettere a posto questa al magazzino», non gli diedi il tempo di rispondere, mi bastò vederlo sollevare mio fratello per metterselo sulle spalle per stare tranquillo e sentirmi libero di allontanarmi.

Lo stanzino degli attrezzi era poco distante dal campo, lo raggiunsi in un paio di minuti e, una volta lì, mi presi del tempo per me. Piegai in avanti le spalle, chinai la testa, lasciando che i capelli mi ricoprissero la fronte. Strinsi la mazza da baseball e digrignai i denti fino a sentir la bocca dolere.

Mi odiavo per come fosse andata la partita. Mi detestavo per i punti che avevo concesso alla squadra avversaria. Ma soprattutto odiavo il fatto che avessi cercato l'approvazione di mio padre per tutto il tempo della partita, perché non avevo smesso di lanciargli occhiate, di chiedermi cosa pensasse dei miei lanci, di domandarmi perché quegli appunti sui fogli non fosse venuto lui stesso a reperirli durante la mia vita.

Sollevai la mazza di legno e cominciai a sbatterla contro le gabbie di metallo in cui erano contenuti i palloni dei vari sport che si giocavano al campus. Mi girai, colpii il muro, poi di nuovo qualcosa di ferro, feci cadere altre mazze da baseball, rovesciai il contenitore delle palle, che rotolarono tra i miei piedi. Urlai per l'esasperazione, per la rabbia, la disperazione, perché non ero stato scelto da mio padre e in quella partita gli avevo solo confermato il fatto che avesse scelto il figlio giusto, quello migliore.

Con la mazza di legno raggiunsi ogni parete di quello stretto sgabuzzino, nulla venne risparmiato dalla mia furia. Ogni colpo inferto ad un oggetto inanimato era come se venisse dato anche a me. I muscoli delle braccia, seppur stanchi per la partita, erano ancora abbastanza forti da poter alzare ancora la mazza da baseball, sempre più in alto per colpire con più forza possibile le mensole laterali, i conetti arancioni, i pesi, le scope e i cerchi di legno.

La voce mi uscì dal fondo della gola, le mie urla si avviluppavano intorno all'attrezzatura presente nel magazzino e mi tornavano prepotenti contro.

Ero talmente concentrato nel distruggere tutto ciò che mi circondava, nella speranza di mandare in frantumi anche qualcosa dentro di me, che non mi resi conto di non essere più solo nello stanzino. Mi sentii cingere. Qualcuno mi strinse da dietro, un petto si poggiò contro la mia schiena, mentre delle braccia mi impedivano di dimenarmi, nonostante avessi ancora in mano la mazza di legno.

Provai a divincolarmi, ma ero debole ed esausto, sia per le urla che per lo sfogo.

Mi accasciai, portandomi appresso anche il ragazzo dietro di me. Ci ritrovammo in ginocchio a terra, lui ancora con le braccia intorno a me, a premere le mani unite contro il mio torace, lì dove il cuore non accennava a voler rallentare. Potevo sentire il suo respiro sia sulla schiena per la vicinanza, sia sul collo per i lievi sbuffi d'aria che mi accarezzavano la nuca.

«Smettila. Smettila di sentirti in dovere di dimostrare al mondo che è giusto che tu sia vivo. Riv... Samuel, tu esisti e nessuno può dirti come devi affrontare la vita. Sei già la versione migliore di te stesso, questo finché seguirai solo la tua volontà», la voce di Drew era calda, ma allo stesso tempo trasmetteva stanchezza e tristezza. Sapevo di essere la ragione di tutte quelle note amare nel suo tono, ma in quel momento non riuscivo a pensare ad altro che alle sue parole che mi entravano dentro, che mi accarezzavano l'orecchio per cullare la mente e calmarla.

Drew rilassò un po' i muscoli, poggiò la fronte contro l'incavo tra la mia spalla e il collo e inspirò profondamente, premendo il petto contro la mia schiena. Le sue braccia ancora mi cingevano.

«Puoi scegliere Chris tutte le volte che vuoi, ma io continuerò a scegliere te», lo sentii tremare dietro le mie spalle, ma non mi mossi. «Ti basta per capire che ruolo hai nel mondo?».

Non sapevo che dire, quindi piansi. In quel momento era giusto così e non mi sentii in dovere di nascondere le lacrime. Non con Drew.

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