La teoria dei calzini spaiati

Por AriC96

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Samuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo... Más

Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 23

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Por AriC96

«Julian, dove sei? Non è divertente», non sopportavo quando si nascondeva, mi faceva sempre prendere dei colpi tremendi. Una volta, lui e il suo amichetto dell'asilo si erano nascosti sotto i sedili posteriori della macchina della madre dell'altro bambino, facendole prendere uno spavento tale da obbligarla a chiamarmi in preda al panico, urlando che aveva dimenticato chissà dove mio fratello e suo figlio. Solo sentendo le urla quei due scemi avevano ritirato su le teste, facendosi vedere oltre il finestrino. A quanto potei capire durante la spiegazione, la madre del bambino li aveva lasciati un attimo in macchina per andare al volo al supermercato a comprare la pasta e al ritorno non li aveva più trovati, convincendosi di averli dimenticati a scuola o da qualche altra parte.

Guardai la panca, come se Julian potesse apparire dal nulla lì dove lo avevo lasciato prima della doccia, e trovai un foglio scritto. Convinto che fosse un disegno abbandonato da Juju, lo presi e lo aprii. Mi pietrificai come una statua di sale, probabilmente mi sarebbe servita una secchiata d'acqua per sciogliermi.

Poi, la rabbia mi pervase. La sentii risalire nelle vene, raggiungere il cuore e venir rispedita attraverso tutto il corpo. Accartocciai il biglietto nella mano e con quello chiuso nel pugno scagliai un colpo contro la parete. Dovevo tornare lucido.

«CHRIS», urlai a pieni polmoni,

Si affacciò dalla doccia e mi guardò con espressione allarmata.

«Che succede, Samuel?».

«Che cazzo significa?».

Lanciai il biglietto contro la fronte di Chris, il quale non aveva alcuna colpa, lo sapevo, ma non avevo nessun altro su cui addossare tutta quella rabbia. Lui era il capitano, in qualche modo era responsabile di ciò che accadeva tra le varie squadre.

Aprì il foglietto dopo averlo raccolto da terra. C'era il disegno di un diamante e la firma riportava le iniziali di un'altra squadra di baseball.

«Dove l'hai trovato?».

«Sulla panca. Juju non c'è, è sparito».

«Cazzo, stavolta hanno esagerato, giuro che li ammazzo», mi voltai per vedere la rabbia dipinta sul volto di Drew. Non mi ero nemmeno accorto si fosse vestito e ci avesse raggiunto. Mi diede la schiena e si diresse verso l'uscita degli spogliatoi. Lo seguii con lo sguardo, per poi tornare a guardare Chris.

«Dove va?».

«Al campo di baseball, è lì che lo hanno portato».

Sembrava tutto così ovvio per loro, ma io continuavo a non capire cosa stesse succedendo. Il capitano si diresse dalla parte opposta rispetto a Drew, solo per chiamare gli altri ragazzi della squadra, dopo essersi vestiti, tutti insieme, come un vero branco, si diressero verso il campo. Li seguii sempre con quell'espressione da ebete sul volto.

Il campo era al buio, come era ovvio, le luci abbaglianti si accendevano solo durante le partite serali, come quella che avevamo appena giocato, ma che ormai era finita da quasi un'ora, o gli allenamenti che si prolungavano oltre la cena.

Ma li vidi, lì, nel mezzo del diamante, c'erano quei ragazzi per me insignificanti. Davanti loro si trovava Drew con le mani chiuse a pugno e la schiena rigida, solo una volta raggiunto notai che nel mezzo della squadra dell'Etesia c'era Juju.

Provai a raggiungere mio fratello, ma venni fermato dal loro capitano dell'altra squadra. Si piantò di fronte a me, con la mazza da baseball tesa che puntava contro il mio petto.

«Non così in fretta, signorino».

Sgranai gli occhi, assunsi l'espressione da pazzo, quella che avevo mostrato raramente in vita mia, perché mai perdevo la calma in quel modo; ma quello stronzo mi stava impedendo di raggiungere Julian, mio fratello che piangeva, con le guance rosse, il naso che sgocciolava e la paura negli occhi. Ero pronto a uccidere a mani nude.

«Conosci il regolamento?».

«Lasciatelo fuori da questa storia», intervenne Chase, affiancandomi e spingendo via la mazza di baseball con cui mi obbligavano a rimanere indietro.

«Fa parte della squadra, nessuno è esentato»

«State esagerando, porca puttana», non avevo mai sentito Chris imprecare in quel modo. Mi afferrò con dolcezza il gomito, sentii il suo calore invadermi le ossa e lo ringraziai mentalmente per quel contatto. Non mi ero accorto di star per crollare, lui mi sorreggeva ancor prima di averne bisogno, anticipava le mie debolezze.

«Lasciate andare Julian», Adam provò a muoversi in avanti, ma qualcuno dell'altra squadra gli diede una spinta e lo fece tornare da noi, come una pallina del flipper che viene rispedita verso l'alto, per riscendere e rimbalzare, frastornando con le decine di suoni e luci. Chase si irrigidì visibilmente, non era raro vedere i gemelli prendere le difese l'uno dell'altro, proteggersi o sorreggersi. Erano la dimostrazione del legame che si crea tra fratelli. Non potevi insultare seriamente uno di loro, senza incorrere nell'ira dell'altro. Per un attimo sperai che Chase si scagliasse contro il tipo che aveva spinto il suo gemello, anche se quello era parecchio più massiccio e aveva negli occhi una luce che si poteva vedere negli sguardi delle persone nelle foto segnaletiche.

«Che cazzo di problemi avete», mi scansai in tempo per evitare di venir colpito dalla palla da baseball lanciata da Alex alle mie spalle. Mi girai scioccato e lo trovai con i denti digrignati, le mani tremolanti abbandonate lungo i fianchi e le guance rosse per la rabbia. Mancava poco e la saliva gli sarebbe scesa dagli angoli della bocca. Con la palla aveva colpito il ginocchio di uno degli avversari, ne fui felice, ma anche turbato, se avesse sbagliato mira avrebbe potuto colpire, oltre che me, anche Julian.

In quel momento compresi perché il coach mi aveva detto che ero facilmente sostituibile. Alex era senza ombra di dubbio un ex-lanciatore. Avrebbe potuto prendere il mio posto se mi fossi dimostrato indisciplinato durante gli allenamenti.

«Perdete la testa facilmente, voi della Zefiro».

«E voi siete soliti rapire i bambini?», Drew si piegò a raccogliere la stessa palla che aveva lanciato Alex e che, una volta rimbalzata contro la gamba dell'altro ragazzo, era rotolata di nuovo verso di noi. La lanciò in aria e la riprese al volo un paio di volte, sul viso uno sguardo allucinato. Appunto, da foto segnaletica.

«Sapete come si dice dalle mie parti, quando si fa un torto coinvolgendo bambini o donne?».

Da dove veniva Drew? Non mi ero mai posto quella domanda, pensavo che fosse un ragazzino ricco e viziato, come la maggior parte dei ragazzi che alloggiavano al dormitorio. Forse, mi sbagliavo.

«Stupiscici».

«Che la merda, che sia di cavallo, gatto o cane, puzza sempre allo stesso modo, proprio come gli esseri umani che si abbassano al livello della feccia che calpestiamo sul marciapiede».

Si diceva anche dalle parti mie, anche se non in questo modo così articolato, noi semplicemente affermavamo qualcosa tipo: «Puzzi come la merda che ho calpestato l'altro giorno», il concetto era chiaro.

«E sapete cosa rispondono queste persone a tale insulto?».

«Cosa?», quei ragazzi si lanciavano occhiate divertite, quasi trattenevano le risate. Forse ai loro occhi Drew sembrava ridicolo, ai miei sembrava uno squilibrato pronto a uccidere, non gli avrei mai riso in faccia.

«Nessuno lo sa, non hanno mai avuto il tempo di parlare, perché si trovavano subito piegati a terra a cercare i denti nella polvere».

E fu proprio questo ciò che successe. Gli avversari ebbero solo il tempo di realizzare cosa avesse detto Drew, che lui si scagliò contro il loro capitano e, con la palla da baseball stretta nella mano, gli diede un pugno alla mascella. I denti non volarono via, ma dall'espressione del capitano potei dedurre che il dolore era stato lancinante. Sputò del sangue a terra, ma Drew non lo fece rialzare, gli diede un calcio facendolo piegare di nuovo dal dolore.

Lanciò in aria e riprese al volo la palla ancora una volta e si voltò verso la sua successiva vittima. Una ginocchiata nello stomaco di uno, una gomitata sul volto di un altro e la rissa iniziò davanti i miei occhi. Julian si divincolò dalla presa del ragazzo che lo aveva tenuto fermo e mi corse incontro. Lo portai subito lontano da quella confusione.

Gli tenevo una mano sulla nuca e lo obbligavo a stare con la testa premuta contro la mia spalla. Non volevo che vedesse le persone picchiarsi, soprattutto perché la furia negli occhi di Drew mi aveva spaventato tanto da avere paura che si potesse voltare verso di me e prendermi di mira.

Una volta chiusi in stanza, lo guardai negli occhi e lo tastai, come se lo stessi perquisendo.

«Stai bene? Ti hanno fatto qualcosa?».

Scosse la testa e mi abbracciò di nuovo. Si era spaventato da morire, proprio come me, ma stava bene, non lo avevano sfiorato nemmeno con un dito. In fondo, si trattava di un bambino, non credo che qualcuno sarebbe arrivato al punto da fare del male a Julian per una faida tra squadre.

***

La mattina dopo sentii bussare alla porta. Non avevo lasciato nemmeno un istante mio fratello, avevo dormito nel suo stesso letto, tenendolo stretto a me, per paura che potesse scivolare via di nuovo.

Aprii piano e mi ritrovai di fronte l'ultima persona che mi sarei mai aspettato.

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