La teoria dei calzini spaiati

By AriC96

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Samuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo... More

Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 13

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By AriC96

La settimana successiva non vidi Alex in giro, solo agli allenamenti, ma non sembrava lo stesso. Se ne rimaneva in disparte, in silenzio, non un sorriso, solo esercizi e distacco. Non parlava nemmeno con Julian, il quale venne distratto facilmente dai gemelli.

Provai ad avvicinarmi a lui un paio di volte, ma si inventò qualche scusa stupida per allontanarsi. Avrei voluto prenderlo da parte, rimproverarlo perché non mi aveva parlato dei suoi trascorsi con la droga, perché, anche se potrebbe sembrarvi un argomento delicato e personale, io avevo il diritto di saperlo in quanto gli affidavo mio fratello per giorni interi quando lavoravo. Se avessi saputo che era un ex drogato che stava smettendo con quello schifo... non so come avrei reagito, se gli avrei comunque lasciato Julian.

Cerco di convincermi che mi sarei comportato allo stesso identico modo, che non avrei cambiato idea su di lui, che avrei continuato a guardarlo sempre nello stesso modo. Ma ho paura che avrei potuto anche comportarmi come una merda e mi spaventa questa possibilità.

Ma ora che sapevo tutto, che ero stato messo al corrente del suo passato, dovevo decidere come agire, ma lui non mi permetteva di avvicinarmi, di chiedergli spiegazioni o di dirgli che a me non importava, perché era vero, volevo almeno provare a far finta che non mi importasse.

«Samuel», e c'era Chris con cui avevo smesso volontariamente di parlare, senza un motivo, così, perché ogni tanto mi comportavo come un bambino capriccioso. Volevo fargli pesare il fatto di non avermi parlato del Tornado, per avermi tenuto segreto tutto ciò che accadeva tra i vari giocatori delle squadre. Drew aveva provato a farmi capire che Chris aveva preso questa decisione per tenermi al sicuro, ma ero abbastanza grande da poter decidere da solo se volevo esser protetto o meno.

«Che vuoi?», mi voltai fulminando il capitano. Aveva i capelli scompigliati e gli occhi verdi leggermente più spenti. Non sapevo come avesse reagito al gesto di Alex, se si sentiva in colpa o se non gli importava. Probabilmente, come me, aveva provato a parlarci e non aveva trovato altro che un muro impossibile da superare.

«Non capisco perché tu debba avercela con me».

Risi e scossi la testa. Avevo decine di pensieri, tra cui Miguel che non mi rispondeva al telefono. Sapevo che era vivo solo perché Cesar ogni tanto mi aggiornava sulle figuracce che facevano e, in qualche modo, Miguel era sempre coinvolto.

«Se non ci arrivi non è un mio problema».

«Forse non ti sei reso conto che ora ti trovi all'università, non più al liceo. Qui non si fanno i giochetti mentali che credi, qui si parla come degli adulti. Se si hanno dei problemi si espongono e si cerca una soluzione».

Ed ecco che tirava fuori il capitano che era in lui. Non riusciva proprio a mettersi nei panni di un diciottenne, doveva sempre alzarsi sul suo piedistallo e guardarmi dall'alto dei suoi vent'anni.

«Vuoi che ti esponga i miei problemi?».

«Certo».

«Vuoi un elenco puntato? In ordine alfabetico o per gravità? Quanto tempo hai a disposizione e quanto costa la seduta?».

Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. Vidi una scintilla nel suo sguardo, forse credeva sul serio che gli avrei fornito quella lista.

«Non hai mai avuto un amico con cui confidarti?».

«Sì e non mi risponde più al telefono perché mi trovo in questa università di merda».

«Evidentemente non era l'amico che credevi che fosse».

Gli avrei spaccato la faccia seduta stante, gli avrei tirato un pugno dritto sul naso solo per vedere il colore del suo sangue macchiarmi la mano. Osava parlare di Miguel senza nemmeno conoscerlo. Non poteva sapere che per Miguel fidarsi delle persone era difficile, troppo difficile dopo esser stato ingannato dallo zio; non poteva sapere che io ero stato il suo primo amico e che da allora aveva ritrovato un po' di fiducia da riporre nell'umanità; non poteva sapere che gli avevo promesso che avrei continuato a farmi vedere in zona, sparendo completamente solo per comodità.

Miguel non aveva colpe, nessun tipo di colpe. Lui aveva provato a mantenere i rapporti. Dopo avermi visto al bar, mi aveva richiamato chiedendomi scusa e io gli avevo concesso di parlarmi e di spiegarmi come mai si fosse arrabbiato. Mi aveva detto che credeva in me e che sperava davvero potessi trovare la felicità da male alla pancia. Dopo di che, avrei dovuto richiamarlo io, ma avevo evitato, inventandomi sempre una scusa nuova. Dovevo passare alla topaia a recuperare qualcosa e in quell'occasione sarei potuto andare a trovarlo a casa sua, ma evitai, andando alla topaia di sera tardi, quando sapevo che lui lavorava.

Miguel nel giro di qualche settimana aveva smesso di rispondere ai miei messaggi sporadici e così avevo perso il mio migliore amico. Le colpe erano esclusivamente mie.

«Non sai un cazzo di Miguel, pensi che le nostre vite siano semplici come le vostre? Ti sbagli e hai una dimostrazione proprio lì», indicai Juju che a bordo campo provava a trasportare quattro mazze da baseball insieme, facendole cadere in continuazione. Aveva la scarpa destra slacciata e sapevo che, se non fossi corso a riallacciargliela, sarebbe inciampato, finendo faccia avanti.

Juju aveva un problema con le scarpe, non le allacciava, che è diverso dal non saperle allacciare. Lui ne era ben capace, ma si rifiutava. Quando gli ho insegnato ad allacciare le scarpe, ho usato lo stesso identico metodo di chiunque altro, "fai le orecchie del coniglio e le leghi". Beh, la sua risposta è stata: «E poi il coniglietto come ci sente?». Bene, ha smesso, o meglio non ha proprio iniziato, ad allacciarsi le scarpe. Però il coniglietto può sentirci benissimo, se vi interessa.

«Va bene, ti chiedo scusa, non avrei dovuto tirare in ballo il tuo amico e il vostro legame. Permettimi solo di spiegarti il motivo per cui ti ho voluto tenere lontano quella sera».

Iniziai a camminare in direzione di mio fratello, già gli mancavano gli incisivi superiori, non volevo che cadendo con il viso sulle mazze da baseball perdesse qualche altro dente. Soprattutto perché non ero dell'umore adatto per delle spiegazioni ed ero ben consapevole che mi avrebbe chiesto in che modo il topolino dei denti, che viveva nel nostro quartiere, avrebbe potuto prendere i suoi denti al campus universitario.

Prendeva l'autobus anche lui? Probabilmente.

Ma c'era una linea notturna che gli permettesse di arrivare all'università? Certo.

Ma con tutti quei corridoi e quelle stanze uguali, avrebbe trovato la nostra? Che avrei potuto rispondere, che possedeva un navigatore come qualsiasi altro addetto alla raccolta denti?

No, non ero in vena di iniziare uno dei discorsi alla Julian Rivera. Dovevo assolutamente evitare che cadesse e perdesse i denti.

«So già il motivo per cui mi hai tenuto lontano».

Raggiunsi Juju, mi piegai sulle ginocchia e gli allacciai la scarpa di tela arancione.

«Allora perché sei arrabbiato?».

«Perché avresti dovuto permettermi di decidere per me stesso, avresti dovuto informarmi prima, che questo posto non è sicuro per...», lanciai un'occhiata allo gnomo al mio fianco. «...avresti potuto dirmi non far avvicinare nessun minorenne ai giocatori delle altre squadre», speravo che Juju non capisse che stavo parlando di lui.

«Va bene, non l'ho fatto, ho sbagliato. Hai intenzione di odiarmi per il resto degli anni che dobbiamo condividere in questo posto?».

Certo che no, in realtà avevo già programmato di perdonarlo il giorno dopo, ma non potevo dargliela vinta così facilmente. Quindi mi strinsi nelle spalle, tolsi le mazze da baseball dalle braccia di mio fratello e mi allontanai.

***

Quella sera ero talmente furioso che decisi di allontanarmi dal campus. Lasciai Julian a Mark, uno dei pochi che in quel momento mi trasmetteva ancora fiducia, e cominciai a camminare lungo il ciglio della strada, rimasi sempre oltre la linea bianca, evitando che le macchine mi investissero, ma mi rendevo conto della pericolosità di ciò che stavo facendo in quel momento. Camminai finché non raggiunsi la stazione dei pullman e presi il primo che mi avrebbe riportato al mio quartiere.

Avevo bisogno di respirare di nuovo l'aria inquinata, di calciare i sassi e colpire delle lattine abbandonate vicino ai cespugli e di vedere dei visi conosciuti, come il proprietario del pub dove a volte trovavo mia madre collassata sul bancone o la mia vicina di casa che puntualmente mi accusava di far ingrassare Oscar a forza di dargli le scatolette di tonno.

Scesi dal pullman quando ormai il cielo era completamente buio e per strada c'erano solo gruppi di ragazzi pronti a far baldoria. Non mi diressi subito alla topaia, anche se avevo intenzione di dormire lì per quella notte. Mi sarei dovuto sentire in colpa nei confronti di Julian, per averlo abbandonato senza un valido motivo, ma ero un ragazzo di diciotto anni e capitava che ogni tanto detestassi la mia vita perché ero obbligato a comportarmi da adulto per via di un bambino di cinque anni che dipendeva da me.

Voi forse pensate che l'amore per Julian mi rendesse saggio e maturo, ma in realtà anche io avevo momenti di rabbia e di crisi.

Mi domandavo perché toccasse a me prendermi cura di mio fratello, perché non se ne occupasse qualcun altro o perché non avevo potuto avere un genitore decente che mi potesse togliere un po' di peso dalle spalle.

Insomma, a diciotto anni è pure normale mostrare risentimento nei confronti di una vita così crudele. Anche se, così dicendo, sembrava che tutti i miei problemi esistessero per colpa di Julian; forse avrei odiato la mia vita anche se fossi stato figlio unico. Da adolescenti si trova sempre un motivo per detestare il mondo e la propria esistenza, solo che faceva male quando mi rendevo conto che, inconsciamente, riponevo tutto quell'odio su mio fratello. Per tale motivo, sin da quando era nato, mi prendevo una sera al mese per me stesso, mollando Julian a chiunque fosse stato disposto a prendersene cura, e camminavo senza una meta per schiarirmi le idee e per buttare fuori quella rabbia.

Non avrei mai voluto esplodere di fronte a Juju, perché avevo paura che in un momento di rabbia avrei potuto urlargli contro che era tutta colpa sua se non potevo essere felice da male alla pancia.

Arrivai al campo da baseball improvvisato e mi fermai davanti al vecchio tabellone del Risiko. Mi sedetti a terra e seguii con la punta del dito i confini degli stati. Non avevo mai vinto a quel gioco e Cesar ha sempre creduto che avessi fatto mangiare i carrarmatini a mio fratello volontariamente, pur di non doverci più giocare.

Era silenzioso il parco intorno a me, avrei desiderato un po' di rumore. I mormorii degli anziani che davano da mangiare ai piccioni, le urla dei ragazzini che si lanciavano il Super Santos arancione e le risate dei miei amici.

Mi chiesi dove fossero, ma non trovai comunque il coraggio di chiamarli. Ero nel torto, ero sparito e non potevo permettermi di farmi trovare nel nostro quartiere. Non ero pronto ad affrontarli.

Mi alzai, impolverandomi il palmo della mano nel momento in cui lo poggiai a terra per aiutarmi a sollevarmi. Trascinai i piedi fino a raggiungere la porta della topaia e guardai il legno rovinato con una leggera stretta al cuore.

Entrai e mi diressi in salone, dove mi sarei volentieri stravaccato sul divano per guardare un po' di televisione, ma lì trovai mia madre. Era seduta con la testa abbandonata indietro sul bordo del divano e, quando mi fermai davanti a lei, sfessurò gli occhi e mi guardò tra le ciglia bionde.

«Chi non muore si rivede», biascicò, facendomi arrivare l'odore acre di alcool. Scossi la testa e mi buttai sul divano accanto a lei.

«Sei ubriaca».

«Non ho motivo per non esserlo. Non devo nemmeno occuparmi di Julian, lo hai portato via», richiuse gli occhi e si portò il braccio sulla fronte.

«Come se prima la presenza di Julian ti fermasse dal bere».

«Non giudicarmi, tu sei come me», continuò a non guardarmi.

«Io non sono un alcolizzato, so prendermi cura di mio fratello», strinsi le mani a pugno e la fulminai, nonostante lei non potesse sapere che lo stessi facendo.

«Ah, si? E dove si trova in questo momento?», si tese un sorriso sardonico sul suo viso e io digrignai i denti.

«Avevo bisogno di un po' di tempo per me, è al sicuro, non come quando lo lasciavo a te».

Rise, stavolta si lasciò sfuggire una vera risata e tirò su la testa dal bordo del divano. Mi guardò dritto negli occhi inarcando una delle sue sopracciglia fine e piegando l'angolo della bocca, come se lei fosse a conoscenza di tutto ciò che mi passava per la testa, dei miei sensi di colpa, della mia rabbia, della stanchezza e della malinconia.

«Tu. Sei. Esattamente. Come. Me», mi indicò con il suo dito sottile e poi si allungò verso il tavolino, afferrò una bottiglia aperta di birra e ci si attaccò, come un fumatore si porterebbe alle labbra la sua ultima sigaretta prima di morire.

«Samuel, tu hai la testa piena di pensieri. Le voci si accalcano, si sovrappongono, si incastrano e non si districano più. È come se non riuscissi mai a riposare, come se in te ci fossero migliaia di grilli, ma nessuno di loro è la voce della tua coscienza. Sei solo e stai affogando in quel mare di pensieri. Dimmi che non è vero», mi guardò di nuovo con il sopracciglio inarcato e schioccò la lingua sul palato.

«E se anche fosse?».

«Cosa credi che mi abbia spinto a diventare quella che sono?», alzò la bottiglia per tre quarti vuota, mostrandomela come se fosse una sua fotografia personale. Poi poggiò quella bottiglia di vetro sul suo ginocchio e la condensa le bagnò i jeans leggermente larghi che indossava.

«La fuga di papà», ero sempre stato convinto che fosse stata colpa di quell'uomo se lei era crollata e non si era più rialzata.

«Certo, lui è stato la scintilla che ha dato inizio a tutto, ma purtroppo non posso dargli tutte le colpe», mandò giù un altro sorso. «Avrei potuto riprendere a vivere normalmente, dopo che se ne era andato. Molte donne vivono da sole con dei figli. Ma la mia mente era sempre accesa, mille pensieri che mi vorticavano nella testa, mi frastornavano, non mi lasciavano dormire e li detestavo, soprattutto perché, da quando se ne era andato tuo padre, quei pensieri erano diventati molto più crudeli con me, mi giudicavano e mi facevano sentire uno scarto, una fallita. Bere spegne i pensieri, li attenua, come se li avvolgesse nell'ovatta impedendomi di udirli», piegò di lato la testa e mi guardò con curiosità. «Tu sei ancora giovane, ma prima o poi questo continuo pensare senza sosta ti farà uscire di testa e dovrai trovare un modo per zittire la mente, altrimenti esploderai, coinvolgendo nella tua merda chiunque si trovi nei tuoi dintorni».

Poggiai i gomiti sulle ginocchia e nascosi il viso tra le mani.

Volevo che si zittisse, anche se, allo stesso tempo, era come sentire un'anticipazione di ciò che mi aspettava in futuro. Ma io volevo credere che sarei stato più forte di lei, che avrei trovato un altro modo per zittire la mente, che non sarei impazzito e, soprattutto, non sarei diventato l'ennesima delusione per Julian.

«Come è il college di tuo padre?», tornò con la birra poggiata sul ginocchio e la testa abbandonata contro il divano. Parlava in direzione del soffitto, con gli occhi appannati e la voce impastata.

«Un posto meraviglioso».

«Menti», sospirò. «Ah, no, com'è che dite te e Julian? Bugia».

Sgranai gli occhi e mi voltai verso di lei con espressione sconcertata. Non poteva sapere certe cose, erano particolari delle nostre vite, qualcosa che apparteneva solo a noi due.

«Non guardarmi in quel modo, sono pur sempre vostra madre; la capacità di ascoltare i propri figli è qualcosa di innato che non si può dimenticare. So più cose di quante credi», mi guardò con l'angolo dell'occhio e buttò fuori l'aria dal naso.

«Perché ti sei arresa dall'essere nostra madre, allora?», le domandai, andando indietro con la schiena e imitando la sua stessa posizione con la nuca premuta contro il bordo del divano. Il soffitto attirò anche la mia attenzione, soprattutto la macchia di muffa che si allargava nel punto in cui c'era un'infiltrazione.

«Perché avrei fatto più danni che altro. Tu ti sei dimostrato subito un fratello maggiore migliore di quanto io avrei potuto essere una madre. Accettalo come complimento e sparisci. Ora voglio bere fino a perdere conoscenza e dimenticarmi chi sono», sventolò la mano nella mia direzione e io mi alzai dandole le spalle.

«O dimenticarti chi sono io», sussurrai, dirigendomi verso il corridoio.

Mi raggomitolai nel letto di Julian. Sulla federa c'era ancora un po' del sentore dello shampoo alla fragola e ne respirai il profumo come se in quel modo potessi appropriarmi un po' dell'essenza di mio fratello.

La rabbia nei confronti di Julian era sparita, sarei potuto tornare al college e riprenderlo dalla stanza di Mark, ma distava due ore e sarei arrivato in piena notte, così mi addormentai abbracciato al suo cuscino e mi permisi di immergermi nei miei mille pensieri senza la paura di svegliarmi di soprassalto; se anche fosse accaduto, non avrei rischiato di svegliare Julian.

La mattina successiva presi il primo pullman disponibile e tornai al college. Non dissi a nessuno dei miei amici che ero passato al quartiere dei fighi, non volevo vederli, perché altrimenti sarebbe stato difficile salire sul pullman e tornare indietro.

Lanciando un'ultima occhiata attraverso il finestrino in direzione della stazione, mi promisi di dimenticare le parole di mia madre, perché facevano più male che bene. Non meritavo quel dolore inutile.

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