La teoria dei calzini spaiati

By AriC96

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Samuel Rivera è un ragazzo di appena diciotto anni; avrebbe potuto avere una vita come chiunque altro, se suo... More

Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo 4

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By AriC96

Mia madre era quella che era, non potevo contare su di lei, non potevo lasciarle in mano la topaia e Julian, non era nelle condizioni adatte per sopravvivere senza un aiuto, ma era pur sempre mia madre e quella di Julian, motivo per cui decisi di parlarle chiaramente e di riferirle la mia decisione finale.

La raggiunsi sul posto di lavoro perché sapevo per certo che lì non l'avrei trovata già ubriaca.

Camminai per quattro isolati e arrivai al supermercato nel doppio del tempo che impiegavo di solito quando l'andavo a trovare. Mi sudavano le mani e il cuore spingeva contro le costole. Sapevo che affrontare quella donna avrebbe richiesto tutte le mie energie, ma non potevo continuare a rimandare l'incontro.

Mi fermai davanti le porte scorrevoli e guardai per un istante il mio riflesso nel vetro. Avevo le occhiaie per aver dormito poco; il segno di un morso sul polso, perché avevo svegliato Julian all'improvviso per calmarlo durante un incubo; e un cerotto intorno al dito medio e anulare per essermi tagliato nel tentativo di aprire un barattolo di cetriolini scaduti da sette anni, ancora prima della nascita di mio fratello. La cosa assurda era che dovevo aprire quel barattolo per vincere una scommessa contro Franco: se avessi mangiato uno di quei cetriolini, lui mi avrebbe ripagato con del tonno in scatola, che avrebbe potuto coprire almeno due cene e metà di un pranzo. Il barattolo si era rotto tra le mie mani, il cetriolino non lo avevo mangiato e il tonno era tornato a casa di Franco.

Sospirai nel momento esatto in cui le porte scorrevoli si aprirono e il mio riflesso sparì. Quello dove lavorava mia madre era il supermercato più grande del quartiere, non a caso aveva ben cinque corsie, di cui una dedicata solo ai dolci, proprio il posto preferito di Julian.

Mi addentrai e cominciai a studiare ogni genere di verdura e frutta, qualcosa stava iniziando a marcire ed era su quel cibo che puntavo, a volte i commessi mi permettevano di prendere ciò che si stava rovinando e di portarlo a casa, altre volte capitava che mi regalassero confezioni di cibo scaduto uno o due giorni prima, cose che comunque loro non potevano più vendere, ma che per me erano salvezza.

Sollevai il mento in segno di saluto, quando passai di fronte al ragazzo del pane, nonché mio compagno di classe delle elementari, e poi lanciai un'occhiata in direzione delle casse. Lì avrei trovato mia madre, per lo più sobria, pronta ad ascoltare ciò che avevo da dirle, o così speravo.

Arrivai vicino alla sua postazione e mi schiarii la voce. Portava i capelli biondi stretti in una coda alta che le metteva in risalto gli occhi azzurri e le lentiggini. Si girò e mi guardò con un sopracciglio alzato.

«Sto lavorando, sei venuto a controllare?», mi chiese con tono piatto.

Era capitato più di una volta che fossi passato al supermercato per controllare che stesse effettivamente lavorando, non perché mi importasse di ciò che avrebbe potuto dirle il capo, ma perché il suo misero stipendio ci teneva ancora un tetto sulla testa e dell'acqua calda con cui lavarci. Se lo avesse perso, il lavoro, saremmo rimasti con pochi risparmi e sicuramente non ci sarebbero bastati per coprire tutte le spese. Quindi, la sua domanda era lecita, ma quel giorno non ero lì per controllarla.

«No, anche se mi fa piacere vedere che ti impegni».

«Sono io la madre».

«Ah, si? Non me ne ero accorto», sollevai un pacchetto di gomme, lo studiai con disinvoltura e poi lo riposi vicino la cassa.

«Samuel, che ci fai qui?», sbuffò e istintivamente cercò una bottiglia da afferrare a cui attaccarsi, ma non la trovò e si accontentò di una caramella, che masticò lentamente guardando ovunque tranne che me.

Dovevo dirglielo e, in qualsiasi modo lo avessi fatto, sarebbe comunque finito in tragedia, quindi tanto valeva farlo come si fa con i cerotti: un unico strappo veloce.

«Tra tre mesi me ne vado, dopo il diploma andrò alla Zefiro e non mi vedrai più», mi aspettavo una reazione da parte sua, non tanto per la mia partenza, quanto per il nome dell'università, che era stata la stessa di mio padre. Ma sembrò ignorare quel particolare.

«E con che soldi pensi di pagartela?», rise divertita, ma poi realizzò che io avevo un misero stipendio, proprio come lei, e che quei pochi soldi ci aiutavano ogni mese ad andare avanti. «Hai intenzione di lasciarci da soli? Tuo fratello dovrà andare a scuola, dovrà mangiare e ci sono le bollette. Pensi solo a te stesso, Samuel? Sei proprio come tuo pad...».

Non potei lasciarle finire la frase. Era raro che mi paragonasse all'uomo che l'aveva abbandonata, sia perché lo odiava davvero troppo, sia perché a me voleva bene, anche se aveva difficoltà a dimostrarlo. Quindi le impedii di dire qualcosa di cui, poi, si sarebbe pentita.

«Affatto. Ho pensato a tutto. Mi daranno una borsa di studio e mi pagheranno per giocare nella loro squadra di baseball. Julian verrà con me. Ho controllato, ci sono delle buone scuole anche lì e potrà iniziare a settembre come gli altri bambini. Continuerò a mandarti una parte dei soldi per le bollette, ma il resto lo terrò per Julian e per il suo futuro», avevo pensato a tutto. Avevo impiegato una settimana per decidermi a parlare con mia madre e, in quei giorni, avevo cercato il modo migliore per far incastrare ogni singolo tassello della mia nuova vita.

Lei doveva solo accettare.

«Non se ne parla», fu la sua prima risposta, ma sapevo che, pensandoci, si sarebbe resa conto che per lei era l'unica scelta possibile. Non perché mi sarei imposto, ma perché a lei conveniva. In fondo, in quel modo si liberava di entrambi i figli. Due bocche in meno da sfamare, meno spese per le bollette, meno casino nella topaia in cui vivevamo.

«Vorresti davvero doverti occupare da sola di Julian? Perché io non ho intenzione di lasciarmi scappare questa possibilità alla Zefiro».

«Ti stanno prendendo in giro, non è vero che ti offrono tutta questa roba. E, poi, perché dovrebbero farlo?».

«Lo sapresti, se fossi venuta a vedere una mia partita di baseball».

«Cioè?», inclinò di lato la testa e si portò una mano al fianco.

«Sono fottutamente bravo come lanciatore», piegai l'angolo della bocca e lasciai che un pochino del mio ego si disperdesse intorno a me. Era raro che mi sentissi fico, ma in quel momento non potevo negare di esser fiero del mio traguardo: un reclutatore mi aveva visto giocare e mi aveva scelto per una squadra universitaria.

«Hai tre mesi per abituarti all'idea, ma sappi che, qualsiasi sia la tua opinione riguardo questa mia scelta, io me ne andrò e con me verrà anche Julian», adesso ero categorico, perché nemmeno mia madre avrebbe potuto separarmi da mio fratello.

***

Impiegò due settimane e tre giorni per riuscire a parlarmi del mio futuro. Però, stavolta non si fece cogliere impreparata.

Si presentò a casa dopo aver mandato giù un paio di birre e qualcos'altro che non potei indovinare dall'odore che le impregnava i vestiti. La vidi entrare in salone, io sedevo sul divano con Juju sdraiato accanto a me e con la testa poggiata sulle mie gambe mi faceva da "reggilibro".

Mi girai a guardarla, quando il suo dito indice mi indicò e la sua bocca si piegò in una smorfia.

«Samuel Rivera, mi farai impazzire», disse, lanciando a terra la borsa da un lato e la giacca jeans dall'altro. Che ci crediate o no, non era una scena nuova per me, ma ciò che, invece, mi risultò del tutto un imprevisto fu l'espressione sul suo volto. Divenne triste all'improvviso, prima che io le potessi rispondere come facevo di solito: «Tu mi fai diventare matto ogni giorno».

«Perché vuoi andare via?», le si incrinò la voce e si afflosciò al mio fianco sul divano. Portò istintivamente una mano alla testa di Juju per accarezzarlo, ma, prima di potergli sfiorare i capelli, la tirò indietro e si voltò.

«Lo chiedi davvero?».

«Sì».

«Cosa credi che io abbia qui? Nulla. Mamma, l'unica ragione per cui non me ne sono andato prima è Julian, ma ora posso permettermi di dargli il futuro che si merita. Dovrò impegnarmi, ma al momento è la scelta migliore. Solo con il diploma del liceo non potrei ambire a un lavoro ben retribuito, ma con il mio talento nel baseball, a quanto pare, ho una possibilità e non posso lasciarmela scappare», chiusi il libro e lo poggiai sul tavolino di legno, accanto al bicchiere di plastica blu di mio fratello. Aveva bevuto il suo latte e menta, che lo aveva mandato istantaneamente in bagno, e poi era crollato al mio fianco, con la manina aggrappata ai miei pantaloni della tuta.

«Io che faccio?», mi domandò, piegando il sopracciglio chiaro. Aveva i capelli sciolti, ma non ben pettinati come quando era uscita di casa poche ore prima. Sul volto aveva un leggero rossore che le imporporava gli zigomi, nascondendole le lentiggini, e il rossetto si era sbavato agli angoli della bocca, lì dove probabilmente aveva poggiato il bordo del boccale della birra bevendo.

«Tu?».

«Sì, io», confermò con tono seccato.

«Tu saresti mia madre, dovrei essere io quello che si dovrebbe preoccupare perché me ne vado da casa, ma sono anni che non ti comporti più come una vera madre. Non ho più bisogno di te, non sono più un bambino, posso tranquillamente vivere da solo e senza più un genitore. Mamma, sono cinque anni che ti sei dimenticata che dovrei essere io a dipendere da te e non il contrario», pensandoci ora, credo di essermi espresso nel modo sbagliato. Un figlio non deve solo dipendere dai propri genitori, dovrebbe diventare anche lui una certezza nella loro vita. Una mamma è tale non solo quando vuole bene a un figlio, ma quando quel suo affetto è ricambiato in egual modo.

Ma lei non mi dimostrava alcun affetto da diverso tempo e così mi ero convinto che lei non fosse più mia madre. Avevo diciott'anni e avevo perso un padre e una madre lo stesso giorno. Mio padre era sparito, mia madre aveva smesso di prendersi cura di me.

Ero giustificato se volevo portare via Julian e permettergli di vivere con qualcuno che sapeva dimostrare amore e affetto.

«I-io sono tua madre», sembrò rendersi conto solo in quel momento di aver sottovalutato quel ruolo.

«Ma ti sei comportata come tale?».

«Potrei aver perso di vista qualcosa, potrei aver dimenticato ogni tanto Julian a scuola o qualche colloquio con i tuoi professori, ma continuo a portare i soldi per le bollette, continuo a permettervi di vivere sotto un tetto», si indicò il petto e strinse le labbra.

«Mamma, da quanto tempo non dici a Julian che gli vuoi bene? O... o a me?», mi tremò la voce, avrei voluto evitarlo, ma fu più forte di me, così come quella lacrima che mi percorse il volto per infrangersi vicino al viso di mio fratello.

«Samuel, non posso farcela», provò ad alzare la voce, ma io, con un movimento della testa, le indicai Julian e lei tornò ad usare un tono aspro, ma basso.

«Perché? Siamo i tuoi figli».

«Perché lui se ne è andato, perché non sono più disposta ad amare qualcuno se c'è il rischio di soffrire di nuovo».

«Continui a paragonarci a nostro padre, avresti dovuto renderti conto che i figli rimangono per sempre, se amati. Hai creduto talmente tanto di avere di fronte altre due persone che ti avrebbero fatto del male, che alla fine ci hai spinti ad abbandonarti. Se me ne vado con Julian, non è perché sono come mio padre, ma perché tu non sei più stata come la mamma di cui avevo bisogno. Quel giorno non sei stata l'unica a perdere qualcuno. Tu hai perso un marito, io un padre, ma non ti sei mai soffermata a chiederti come stessi».

Sfessurò la bocca e si distanziò di poco da me. Colpita e affondata, come se in battaglia navale avessi detto B7 e le avessi preso l'ultimo spazio vuoto della sua nave più lunga. Notai di aver vinto la discussione dal modo in cui chinò in avanti la testa. I capelli biondo dorati le ricoprirono il volto. Non aveva versato nemmeno una lacrima, mentre sulla mia guancia c'era ancora la scia lucida dell'ultima goccia salata che avevo sentito scendere.

«Non ho possibilità di convincerti a lasciare Julian, vero?».

Rimandai giù il nodo che mi stringeva la gola. Non provava nemmeno a convincermi di restare, voleva che le lasciassi Juju. Ma non ero anche io suo figlio? Perché le interessava solo di mio fratello?

Quando hai smesso di volermi come figlio, mamma? Mi domandai e poi abbassai lo sguardo su Julian, scuotendo la testa. Lo avrei portato con me, perché prima o poi avrebbe perso interesse pure in lui e lo avrebbe fatto sentire come un intruso, qualcuno che le aveva rovinato la vita.

Non tornammo più sul discorso, continuò a lanciarmi occhiate quando ci incrociavamo nella topaia, ma nulla di più. Julian non fece domande sul comportamento che assumevamo di fronte a lui, silenzi intervallati da lievi grugniti di dissenso.

L'ostacolo più grande era stato superato, ora mi restava da avvertire Julian, ma per quello avrei aspettato, tanto da finire il giorno stesso della partenza col fargli scoprire che i miei amici non ci avrebbero seguito fino al college. 

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