In nome del sangue, in nome d...

By kiralalucedelsole

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. 1 . Vecchie cicatrici e nuove ferite
. 2 . La verità
. 3 . Punta d' ago e balsamo guaritore
. 4 . Dal passato nuovi fantasmi
. 5 . Sera di lucciole e mattino d'argento
. 6 . Indecenti proposte
.7 . Un patto col diavolo
. 8 . Confronti
. 9 . Il velo caduto
. 10 . Grandi speranze
. 11 . Promesse.
. 12 . Terra e acqua, muschio e sale
. 13 . Un passo indietro
. 14 . Preludio
. 15 . Miele
. 16 . Rivelarsi
. 17 . Il diavolo e l'acqua santa
. 18 . Come fratelli
. 19 . Prima di partire
. 20 . Il fiume dell'ira
. 21 . Sulla strada di casa
. 22 . Nessuno tranne una
. 23 . Incubi e sogni di un prigioniero
. 24 . La mano del gigante
. 26 . Il prezzo della libertà
. 27 . Un nuovo giorno
. 28 . Una effimera tregua
. 29 . 7° 24' 25''
. 30 . L'esca
. 31 . Quando viene il buio
. 32 . Giochi di potere
. 33 . A casa prima dell'uragano (parte prima)
. 33 . A casa prima dell'uragano (parte seconda)
. 34 . Storia di un duello
. 35 . Tutto il mondo brucia
. 36 . Di piani, di fughe e di abbandoni
. 37 . Oltremare
. 38 . Qualunque cosa accada
. 39 . Lupi e agnelli, falchi e colombe
. 40 . Odi et amo
. 41 . Desiderio
. 42 . Il passato alle spalle
. 43 . L'ultimo conto da pagare
AVVISO
. 44 . Di culle, di baci e di bocciuoli di rose

. 25. Ad un passo dalla libertà

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By kiralalucedelsole

. 25 . Ad un passo dalla libertà

Uscì dalla sua camera all'ora di pranzo, uno spettro dal sepolcro, pallido e smagrito, sbattuto come un cencio sulle pietre lisce del fiume. Si era lavato, cambiato le brache e la camicia; il candore della stoffa bianca e la stiratura perfetta, gli donavano un aspetto ordinato e pulito, anche se le occhiaie violacee svelavano stanchezza e trambusto interiore.
Suonò il campanello per richiamare la servitù e ordinare qualcosa per riempire lo stomaco: non ricordava l'ultima volta che aveva consumato un pasto. Non aveva appetito, ma riconosceva al proprio corpo la necessità di sostenersi dopo i litri di alcool che aveva ingurgitato e le secrezioni di bile che lo avevano portato a vomitare succhi gastrici e anima insieme.
Aveva sperato che il cervello si spegnesse e ignorasse la scoperta infamante che aveva fatto, come sperano tutti quelli che bevono e invece si ritrovano solo ubriachi e dipendenti da un rimedio ingannevole.
Quando aveva compreso che quell'oblio salvifico non sarebbe mai arrivato, aveva dirottato rabbia e frustrazione verso una vendetta lucida e allettante, rimedio certamente meno deleterio per il corpo, ma altrettanto distruttivo per l'anima.
Sedette su uno dei divani del grande salone vuoto, spazio inutile occupato solo da cose; alla cameriera che arrivò e si stupì di trovarselo davanti spiritato e vacuo, ordinò che gli fosse servito il pranzo nello studio e che la sua camera fosse riordinata e pulita da cima a fondo, come si fa quando si riaprono le stanze di una casa chiusa da tempo.
Mentre vi si dirigeva, si ritrovò davanti Saurion, la sua faccia fastidiosa, per la perenne espressione rubiconda di chi non ha pene sul cuore. Miran, facile all'ira come era diventato per gli ultimi avvenimenti, lo fermò bruscamente e gli chiese: - Perché sei qui? -
- La vostra signora madre, padrone, mi ha fatto chiamare: aveva bisogno dei miei servigi. - rispose ossequioso, la faccia bassa di chi sa di aver disobbedito.
- Quando sono partito, ti ho ordinato di badare alla tenuta, alle messi, ai braccianti ... - scandì ogni parola, battendo il pugno chiuso nel palmo aperto della mano, - ... Perché non hai obbedito? - aggiunse, indurendo la mascella.
- Ma signore, vostra madre ... - provò a giustificarsi.
- Io sono il tuo padrone, io do gli ordini, tienilo bene a mente, o finirai per strada! - l'avvertì, non essendo più disposto a tollerare insubordinazione e mancanza di rispetto, - Cosa voleva mia madre? -
- Non so ... non l'ho ancora veduta! - mentì.
- Devi fare una cosa per me. - gli disse, riprendendo il tragitto per lo studio.
- Ordinate pure ... - rispose il servo, seguendolo.
- Voglio che sorvegli la casa di quel bastardo che si è preso il nome di mio padre e che venga a riferirmi immediatamente del suo rientro in città. -
- E' già rientrato, signore, due notti orsono. - riferì.
- E tu, come lo sai? - replicò, arrestando il passo e voltandosi di scatto per guardarlo negli occhi.
- In città ... non si parla d'altro ... - rispose, cercando di non destare sospetti che facessero subodorare l'intrigo di cui era protagonista, - Pare che i soldati del comandante Kuvee abbiano rinvenuto nella stiva della sua nave, decine di casse di liquore introdotte illegalmente. - raccontò, quasi fosse un pettegolezzo da comari. - Ora è rinchiuso nella fortezza con l'accusa di contrabbando. - concluse, la voce piatta senza coinvolgimento.
Miran sorrise, rabboccò il bicchiere e trangugiò l'intero contenuto in un lungo sorso, sentendo lo stomaco, già sofferente per il digiuno degli ultimi giorni, infiammarsi di acida bile. Ma non vi badò: inspirò ed espirò, come se l'aria potesse spegnere l'incendio delle budella.
La cattura di quel verme non era altro che un contrattempo, fastidioso, certo, ma comunque risolvibile. Avrebbe dovuto avere soltanto un altro po' di pazienza: avrebbe aspettato acquattato nell'ombra, come un predatore, infine gli avrebbe schiacciato la testa, come si fa con una serpe velenosa.
- Ordina allo stalliere di preparare la carrozza; avverti le cameriere di riempire valigie e bauli con le cose di mia moglie, e quando tutto sarà pronto, riportala alla tenuta. -
- E ... vostra madre? - si preoccupò.
- Ti occuperai di lei dopo che avrai eseguito i miei ordini. -
- Come volete! - si congedò rispettoso.
Fuori dallo studio, la cameriera aspettò che Saurion uscisse, poi con un vassoio riccamente imbandito, entrò e si avvicinò alla scrivania, lo poggiò sul ripiano e dopo un inchino si informò se il suo padrone avesse bisogno d'altro. Miran la congedò con un gesto della mano, nauseato dall'odore di cibo che affliggeva le sue narici. Inforcò le posate, storcendo le labbra e imponendosi di mangiare, ma al primo boccone lo stomaco si rivoltò in un rigurgito acido. Inspirò, per domare il fastidio, e riprese a masticare, quando Nubia entrò furiosa nello studio.
- Se credi di poter decidere della mia vita, soltanto perché hai scoperto che mi sono data ad un uomo prima di sposarti ... sei un povero illuso. -
La sua voce era stridula e sgraziata, quella di una vecchia, così il colorito, spento e ceruleo, come se il tempo si fosse abbattuto su di lei in colpo solo col peso di anni.
Per Miran oramai la sua bellezza era un incantesimo spezzato, sconfitto dall'umiliazione che gli aveva inflitto, dalle menzogne e dalla sfacciata spudoratezza con la quale ancora ostentava gli errori e le offese.
- L'illusa sei tu, se credi di avere ancora il diritto di opporti alle mie decisioni! - replicò, senza degnarla di uno sguardo. - Tu sei niente! Vali quanto una sgualdrina in un bordello. Non ti ripudio, perché, se così facessi, ti darei la libertà di fare ciò che più ti aggrada: ti lascerò alla tenuta, invece, confinata nella tua stanza, finché non avrò avuto soddisfazione per quello che tu e quel verme mi avete fatto. Soltanto quando gli avrò piantato una pallottola nel cranio, te ne andrai, ma dopo che ti avrò marchiata come una donna indegna e senza morale. -
- Fuggirò ... -
- Ed io ti riprenderò, come si riacciuffano le giovenche quando si allontanano dalla mandria ... -
- Non ne sei capace ... - lo sfidò, il mento alto, gli occhi infiammati dalla propria indole ribelle.
- Non mettermi alla prova, Nubia: l'uomo che ti ha sposata è morto e l'hai ucciso tu con il tuo miserabile inganno. Quando ti ho sposata ti ho dato un nome: ti ho chiamata sposa e come sposa ti ho amata e rispettata. Non perché vedessi di te solo l'abito bianco che vestiva un corpo immacolato, ma perché ti credevo sincera e onesta e mi illudevo che anche la tua anima fosse candida. Non ti avrei amata meno, se mi avessi rivelato il tuo increscioso segreto, né ti avrei giudicata per quell'inciampo, se fossi stata tanto onesta da rivelarmelo. Ma tu hai preferito tramare e mentire e aprire a me il tuo ventre, lasciando la mente nell'orbita di quell'altro. Per questo non hai diritto al perdono e neanche all'espiazione.
E ora levati di torno: sto cercando di pranzare e la tua vista mi dà la nausea. - la liquidò, con i denti stretti e il boccone successivo, già infilzato nei rebbi della forchetta.
Nubia tremò; tremarono le mani, indaffarate a tormentare le gonne; le labbra che avrebbero voluto ribattere, restituendo l'offesa, e tremò pure il cuore, che per la prima volta, si sentì senza via di scampo, sconfitto, abbattuto da un nemico più forte e spietato. Si maledì per la leggerezza con cui aveva accettato di consacrare il proprio corpo ad un uomo, quando mente e cuore sarebbero appartenuti per sempre ad un altro.
Ma non si pentì, neanche in quell'istante, neanche nel momento della disfatta, di aver amato Eìos.
Voltò le spalle e uscì da quella stanza, nel petto un solo desiderio, nella mente una sola speranza: tornare ad essere libera.

**************

La notte era giunta di nuovo, perfida, col suo carico pesante di malinconia e solitudine.
Eìos aveva percepito il suo arrivo dal cambiamento del profumo del mare che saliva come vapore dalle acque che contornavano la fortezza, fino al torrione in cui era rinchiuso; esso entrava attraverso la grata del finestrino, addensandosi umido sul soffitto, per poi calare verso il pavimento in infinite, quasi impercettibili, gocce nebulizzate. Aveva sempre considerato uno strano fenomeno, intrigante come ogni aspetto della natura, il passaggio da un profumo all'altro dell'oceano: da quello intenso e promettente, acuto ed energico del primo mattino, a quello placido, onirico e tranquillizzante della sera.
Ma tanto nel primo, quanto nel secondo, v'era impressa una nota fortissima e distinta di indipendenza, di spazio infinito, di respiro universale, che adesso, compresso in quella cella buia, sfumava, disperdendosi e lasciando di sé solo il sentore malinconico di libertà lontana e irraggiungibile.
Si sdraiò sul fianco, il braccio destro piegato sotto la testa, gli occhi appesantiti per la stanchezza, tuffandosi nel ricordo della sua donna, morbida e profumata, imprigionata nella gabbia delle proprie braccia. Dietro le palpebre, comparvero, come nella scena di un dipinto, la luce tenera degli occhi, tersi e profondi, come smisurati cieli di primavera, e il profumo saporito delle labbra, come petali conditi di miele. E poi, in una successione travolgente, seguirono i fianchi di pane fragrante, le dita di zucchero e la pelle come crema di latte. Nella propria mente, ogni altro pensiero si fece da parte, si annullò per far posto alle immagini di lei. Lo stomaco si riempì di una voragine rimbombante ed egli comprese che ogni cosa di Ariela gli provocava fame, una fame di carne e pelle, di pensieri e respiri. Comprese che ciò che lo riempiva era amore, passione e ossessione insieme; trasalimento ed eccitazione; un rapimento della carne e dell'anima che lo immergeva in uno stato di felicità quasi doloroso, tanto era potente e totalizzante. Ciò che provava, per la prima volta, gli faceva sentire il proprio cuore pulsante e vivo, delirante e frastornato, preda volontaria della sua stessa follia.
Si sorprese a desiderarla, impregnata dei suoi baci umidi; i muscoli si tesero in uno spasmo di desiderio lancinante, come mai prima, tanto da sentire il petto riempirsi di spine e aprirsi, lasciando il cuore indifeso e solo sotto il peso della mancanza di lei.
Si raggomitolò, portando le ginocchia al petto e il braccio libero a cingerle, come si fa per contenere il dolore di una parte del corpo ferita, e morse il labbro inferiore, tumefatto e livido, nella speranza delirante che un male sopraffacesse l'altro. La ferita si spaccò; siero e sangue fuoriuscirono in uno schizzo fiammante, come un chicco d'uva spremuto nel palmo della mano. Un rivolo caldo grondò nel vuoto ed egli accettò, nell'istante esatto, in cui esso scaldò la pelle dell'avambraccio, che nessun dolore, né del corpo, né dell'anima, sarebbe mai stato più forte di quello che la mancanza di lei gli scavava dentro.
Dal fondo del corridoio, malamente illuminato dalla luce fievole delle torce, una voce, sempre più vicina, biascicava una vecchia canzone da osteria. Era roca, poco intonata e impastata di alcool e masticava le ultime sillabe di ogni strofa. Persisteva nell'eco di quel cunicolo dalle pareti di pietra, moltiplicandosi e infierendo nelle orecchie, tanto che i detenuti, nell'ombra delle rispettive celle, presero a lagnarsi rumorosamente.
- Sta' zitto! - piagnucolò uno esasperato.
- Chiudi quella fogna! - gridò un altro, battendo la ciotola vuota contro le sbarre.
Ma l'uomo continuava imperterrito e quasi divertito nella sua esibizione sgradevole, tanto che una guardia, spingendolo in malo modo nella cella che precedeva quella di Eìos, gli intimò di farla finita o gli avrebbe chiuso la bocca col calcio del fucile.
L'uomo smise di gracchiare, come se all'improvviso si fosse svuotato di tutte le fastidiose energie, mugugnando qualcosa di incomprensibile.
Eìos si sentì sollevato per quel ritrovato silenzio, sciolse la posizione fetale che aveva assunto e si distese supino, sgranchendo i muscoli delle braccia e delle gambe, a lungo sacrificati.
Poi si mise a sedere sul tavolaccio, si chinò in avanti, per afferrare la ciotola con l'acqua, e fece per bere. Il labbro pulsò, come se un martello lo colpisse reiteratamente; gocce di sangue si mescolarono all'acqua ed egli imprecò ad alta voce, per il dolore che sembrava diramarsi per tutto il cranio.
- Fa male? - chiese la voce dalla cella accanto, pulita, limpida, senza quella nota stravolta dalla sbronza, - Tua moglie ... dice che hai un labbro gonfio e tumefatto. - continuò, facendosi sempre più chiara e riconoscibile.
- Betel? - mormorò incredulo, saltando in piedi e avvicinandosi alle sbarre.
- Per servirvi, signore ... - scherzò, accomodandosi sul pavimento, accanto all'inferriata.
- Che diavolo ci fai qui dentro? - insistette, con le mani strette sulle sbarre, e il naso sacrificato nello spazio tra l'una e l'altra.
- Faccio quello che faccio sempre: ti tiro fuori dai guai! - rispose l'amico ovvio.
Eìos sorrise, strizzando gli occhi per il bruciore e, poggiate le spalle al muro, si fece scivolare fino al suolo, la tempia sulle sbarre, le gambe distese e accavallate una sull'altra, solo uno spesso muro di pietra a separare le loro schiene.
- Dunque, saresti tu "la stella che ricongiungerà i nostri cammini"? - citò la frase di Ariela, alla quale non aveva dato peso quella mattina, ma che in quelle circostanze diveniva perfettamente comprensibile.
- Non l'avevi ancora capito? Ah, l'amore! Ottunde i sensi e annacqua il cervello ... - ironizzò, con una risatina sommessa. - Tua moglie è stata così sibillina, da non far comprendere neanche a te le nostre intenzioni. -
- Mia moglie è intelligente, dolce e forte, sensibile e calda ... ed è bellissima! - replicò, socchiudendo gli occhi, come se stesse confessando direttamente a lei i suoi pensieri.
- Fermati qui, Romeo! Non vorrei che scendessimo troppo nei particolari ... - lo punzecchiò, sorridendo per il trasporto che l'amico aveva per la sua sposa. - Comunque, la ho veduta e ... te ne do atto: in fatto di donne sei fortunato! - aggiunse, fattosi serio.
- Sono fortunato, sì ... anche in fatto di amici. - replicò.
Sapeva da sempre che Betel avrebbe dato la propria vita per lui e non solo per il debito che aveva. La loro era divenuta col tempo, amicizia pura, senza sbavature: sincerità reciproca, sostegno incontaminato, ironia dei difetti, esaltazione dei vanti. Erano il completamento l'uno dell'altro ed Eìos ne aveva avuto l'ennesima prova.
- Come faremo? - mormorò, socchiudendo gli occhi stanchi e infiammati e abbandonandosi alla confortante certezza di non essere più solo.
- Non dartene pena adesso, è già tutto pianificato ... Riposati, piuttosto, presto ci sarà da correre! - gli suggerì, la voce bassa perché solo l'amico potesse udirla.
Eìos sospirò, aprì gli occhi, rivolgendoli alla scacchiera che la luce fioca della luna, formava con la grata del finestrino: bagliori di piccole, lontanissime stelle baluginavano, come guardiani che dal cielo sorvegliano l'operato degli uomini, e, pur senza scorgerla in quello squarcio piccolissimo, si affidò ad una sola di esse, una tra le più luminose della volta celeste.

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