The Art of Happiness

By ___gaimaninthetardis

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Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei v... More

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Epilogo.

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By ___gaimaninthetardis

A maggio conclusi la tesi; a giugno ci sarebbe stata la sessione straordinaria per discuterla, Marie ed io eravamo piuttosto su di giri per l'evento. Sarebbero venuti i miei genitori dall'Italia - mia madre era già agitata per le valige - e avrebbe assistito anche Paul.

Già, Paul. Avevo fatto finta di niente con lui, giorno dopo giorno, per più di una settimana dalla rottura con George. Certo, non era stupido, questo devo dirlo, e probabilmente sospettava ci fosse qualcosa che non andava in me. Anche se avevo superato ciò che era accaduto in camera mia mesi prima, anche se c'era di nuovo intesa sessuale ed io ero tornata a comportarmi come al solito, credo che Paul sospettasse una crisi imminente.

Non credeva che lo avessi tradito, questo non lo poteva neanche lontanamente immaginare. Non era in confidenza con George, né con Jacques, quindi non lo avrebbe mai scoperto da loro e nemmeno da me, figuriamoci.

Alle volte, però, mi guardava con rammarico e tristezza, come se vedesse in me un motivo di malinconia. Mi coccolava a lungo, come se si sentisse colpevole, come se fosse lui la ragione per cui io avevo dei grilli per la testa.

Il mio senso di colpa crebbe a dismisura; il mio Paul era convinto di non essere stato abbastanza - e in un certo senso, forse, era così - e cercava di fare ammenda riversando su di me tutto il suo affetto. Era troppo da tollerare, prima o poi sarei crollata.

Così alla fine confessai tutto a Marie, era più forte di me. Glielo dissi in biblioteca, perché è risaputo che in quei posti non si può alzare la voce ed ero terrorizzata all'idea che potesse mangiarmi viva, vista la mia stronzaggine.

Il fatto di aver rischiato di dover scodellare un pargolo, però, aveva reso la mia amica molto più easy going rispetto a prima. Certo, era sempre la solita e vecchia Marie innamoratissima e desiderosa di una casa e una famiglia e tutto il resto, ma doveva essersi davvero cacata sotto perché disse: «Se ti sei divertita, hai fatto bene».

Sgranai gli occhi, incredula. «Come, prego? Marie, il tuo ruolo in questa conversazione è quello della mamma severa. Torna in te, per favore».

Scosse il capo. «No. Io sono in me, credimi. Però una cosa devo dirla, ti sei comportata malissimo».

«Lo so, non avrei mai dovuto tradire Paul».

Chiuse di scatto il suo portatile, il suono che riecheggiò nella sala dagli altissimi soffitti affrescati. «Che si fotta Paul, io non l'ho mai sopportato. Parlavo di George».

«Non lo hai mai... Marie, cos'hai che non va?».

«Ho che mi sono stancata di essere gentile», sbottò. «Sono sempre stata saggia, cordiale e bendisposta verso tutti, ho sempre studiato, ho amato la mia famiglia, mi sono fatta il mazzo. E ho comunque rischiato una tragica fine».

«Hai rischiato una gravidanza», la corressi.

«Beh, più o meno è la stessa cosa. Quindi ora lo dirò ad alta voce: io non sopporto Paul».

Emisi un fischio di ammirazione. «Bello, sì, insomma, fico questo tuo lato ribelle, mi piace».

Assunse un'espressione di puro compiacimento, si vedeva che era soddisfatta di sé. «Lo so, non è fantastico? Mi sento molto meglio, ora che sono sulla sponda di voi cinici».

Una donna, una delle bibliotecarie, ci si avvicinò e ci squadrò da dietro la sua frangetta ossigenata. «Dovete parlare più piano», borbottò atona.

«Oh, vada a quel paese pure lei!», fece Marie. Tornò a rivolgersi a me come se la donna fosse magicamente evaporata. «Sono così dispiaciuta per quello che è successo con George. Era così un bravo ragazzo, proprio il tipo giusto».

Era una versione di lei molto spaventosa. Perché continuava a parlarne al passato? «Non è ancora morto».

Mi ignorò del tutto. «Forse però c'è ancora tempo, magari puoi lasciare Paul e metterti con lui».

Scossi il capo. «Sì, e poi? Che farei? Marie, diciamo le cose come stanno, da brave ciniche, come dici tu. Io non voglio finire in un appartamento del cazzo in periferia lavoricchiando qua e là in compagnia di uno che fa lo youtuber».

Assunse l'espressione di un animale ferito. «Oh», disse solo.

«Finirei per disprezzarlo, capisci? Con l'andare del tempo. Ed è una cosa che non voglio, non importa come andrà, lui non merita il disprezzo di nessuno, men che mai il mio».

Era una bugia. Non avrei mai ammesso quello che ci eravamo detti davanti al piano cucina, non avrei mai detto ad alta voce che il problema non erano i soldi, ero io che avevo una paura dannata perché mi sentivo completamente nuda davanti a lui, spogliata di ogni scudo e fragile ed inerme. George conduceva il gioco ed io volevo, dovevo avere il controllo. Preferivo essere considerata una stronza che pensa solo ai soldi, piuttosto che dire la verità.

Era chiaro che Marie ne aveva di strada da fare per diventare cinica e materiale come me. Lo vidi dal suo sguardo che non condivideva l'idea dell'avidità, conoscendola non ci sarebbe mai riuscita.

Insistetti: «Posso tornare ad amare Paul, posso davvero farlo. E allora tutto andrà per il verso giusto, vedrai. Oh, ti prego, non guardarmi in quel modo!», aggiunsi quasi supplichevole. «Neanche ti avessi ferita con un tagliacarte. Avanti, devo già convivere con il senso di colpa per quello che ho fatto a Paul e a George, non farmi sentire di merda anche per te».

Storse le sue labbra carnose in una smorfietta, ma annuì. «Léo, io ci sarò sempre per te. Ricordatelo, qualsiasi cosa succeda, dovessi anche diventare una di quelli che mettono le bombe in giro».

Non riuscii a trattenermi e ridacchiai. «I terroristi».

«Sì», esitò lei. «Quelli. Léo, devo proprio dirti una cosa».

«Qualsiasi cosa, me lo merito».

«Sono un po' delusa dal fatto che tu non me ne abbia mai parlato. Siamo amiche, anzi di più, siamo come sorelle. Perché non mi hai detto niente?».

A quel punto mi ero sputtanata del tutto. Non avevo più veli, non dopo averle parlato di George e di quello che c'era stato. Scelsi, per una volta, di non mentire, perché ero stanca di raccontare sciocchezze. «Perché non sarei mai stata in grado di tollerare il modo in cui mi avresti fissata. Marie, non riuscivo nemmeno a guardarmi in faccia alla mattina. Leggere il mio fallimento nei tuoi occhi sarebbe stato orribile, spaventoso. Non l'ho detto a nessuno, soltanto a Jacques».

Non rispose, limitandosi a fissarmi.

Fui costretta a proseguire per riempire il silenzio. «Io lo amo», mormorai. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, come se quelle che non avevo versato da quando mi ero seduta volessero uscire tutte insieme. «Oddio, io lo amo».

Mi portai una mano alle labbra e strinsi gli occhi per impedire ai rivoli salati intrappolati tra le ciglia di rotolare giù. Dopo qualche secondo una mano mi scostò i capelli dalla fronte e un paio di labbra carnose mi confortarono sfiorandomi le guance.

«Tesoro», mormorò Marie accorata. «Perché ti fai questo? Tu ami George, allora va' da lui».

«Non posso», annaspai, cercando aria. «Non posso, non con Paul. In un certo modo amo anche lui, credo».


***


Una volta, in quei due mesi idilliaci in cui eravamo stati bene, George ed io avevamo fatto il bagno insieme nella sua vasca.

Era una vasca vecchia, praticamente antica, doveva essere del secondo dopoguerra e credo appartenesse ai precedenti proprietari, una coppia di antiquari. Era di quelle con i piedini, appoggiate sul pavimento, e i pomelli d'ottone, era ampia, liscia e fredda, gradevole. Una di quelle dove puoi stendere le gambe, scivolare dentro e fingere che il mondo esterno non esista.

Niente candele, niente petali di rosa, quelle erano cose che faceva Paul. George aveva solo riempito la vasca di schiuma e si era sdraiato; io mi ero messa davanti a lui. Non ci preoccupava la nostra nudità, non ci infastidiva il contatto tra i nostri corpi. Pelle contro pelle, cuore contro cuore, le sue mani sui miei fianchi per aiutarmi a non scivolare, le sue labbra sottili piegate in un sorriso. E poi le sue braccia avvolte intorno a me, calde e così liquide e avvolgenti che avrei voluto morirci dentro.

Eravamo rimasti lì a leggere un libro, lo stesso, in silenzio, finché tutte le bolle non erano sparite e l'acqua non era diventata fredda. Ricordo che il contatto con il suo sterno magro mi aveva dato fastidio alle spalle, ma era un fastidio piacevole, che mi andava bene. Avevo il suo respiro nell'orecchio, regolare, caldo, mentre il suo cuore pulsava. Il contatto delle sue ginocchia contro le mie, dei suoi piedi contro i miei mi aveva fatta sentire al sicuro, quella volta, protetta; proprio ciò che George mi aveva rimproverato in seguito. Però era stato così bello, così meravigliosamente bello da stroncarmi il fiato come un colpo di fucile dritto al cuore.

Ricordo di aver pensato che sarei rimasta tutto il giorno, anzi, tutta la vita in quella vasca, se soltanto avessi potuto. Avrei voluto congelare quell'istante e farlo durare per sempre.


***


Jacques mi presentò Manuel, ma lo fece solo con una clausola: avrei dovuto fingere di non avere la minima idea che quei due scopavano. Con il passare dei giorni, il mio coinquilino aveva iniziato a desiderare che la sua storia diventasse seria. Era una cosa un po' disarmante, perché sia lui che Marie stavano cambiando. Perché io no? Non potevo fare altro se non adattarmi al loro nuovo Io interiore e così non avevo fatto commenti. Jacques era passato dall'essere un maniaco sessuale fumato all'essere un fidanzatino fumato.

Comunque dovevo rispettare i patti e per fingere che fosse tutto normale chiesi a Marie di venire a cena a sua volta. A lei dovevo dirlo, però, che Jacques era gay, e la sua reazione fu più o meno: «Oh. Mio. Dio. Che cavolo stai dicendo, Willis?». Roba seria, perché Marie citava Il mio amico Arnold solo nelle occasioni che lo meritavano davvero.

Manuel era un bel tipo, non avevo dubbi in proposito. Quando si presentò a casa e Jacques andò ad aprire ostentando una tranquillità che non aveva, la prima cosa che pensai fu che non sarebbe mai passato inosservato. Era anche piuttosto diverso dal mio amico, nell'aspetto, perché dove uno aveva i capelli chiari e tagliati alla moda l'altro aveva dei rastoni che gli spazzavano il sedere, il mio coinquilino era alto, ma Manuel ancora più alto, uno era nervoso e l'altro era calmo. Profumava di erba e di pulito, proprio come Jacques mi aveva detto.

Era anche uno con le sue idee. Anzi, aveva un'idea praticamente per ogni cosa, anche per le cazzate. Era uno di quelli con cui puoi andare d'accordo su tutto oppure odiarli categoricamente. Jacques finse di essere tranquillo, in sua presenza, ma in realtà andò in brodo di giuggiole dopo nemmeno cinque minuti.

Tra lui e Marie non c'era tensione. All'epoca della loro storiella erano entrambi consapevoli del fatto che sarebbe durata molto poco, lui era interessato solo alla sua quinta abbondante, mentre lei aveva appena scoperto quanto fosse divertente fare sesso e voleva farlo tutto il giorno. Un connubio vincente, era stato lì che Jacques ed io avevamo iniziato a conoscerci un po' meglio - anche se l'amicizia vera era arrivata dopo.

Tornando a noi, Manuel era anche uno di quelli sempre cannatissimi. In questo lui e Jacques trovavano un punto in comune. Anche mentre cenavamo si fece un cannone e i discorsi divennero così divertenti che decisi di non bere e non fumare per rimanere lucida ed ascoltarlo. Sembrava sentirsi un dio mentre declamava l'importanza del lattice nel mondo moderno.

«E tu ce l'hai un fidanzato?», chiese a Marie ad un certo punto.

Lei, che aveva preso molto sul serio il suo ruolo da "so che sei gay ma non devo farlo capire", ridacchiò. «Ci stai provando con me?».

Manuel scosse il capo e i suoi dread ondeggiarono. «No, io sono a livello del Nirvana, non mi perdo in sciocchezze materiali».

Istintivamente risi, perché scopare con Jacques era decisamente molto materiale. «Marie è praticamente già maritata. Guardatela, come gongola».

«Si chiama Jeannot», spiegò lei mentre le sue guance si imporporavano. «Ci siamo conosciuti in un pub, lui è stato così gentile». Aveva praticamente gli occhi a cuoricino. «Era lì con i suoi genitori. Mi ha guardata per tutta la sera, poi prima di uscire si è avvicinato al mio tavolo, mi ha sorriso e mi ha chiesto il mio nome. Solo il mio nome. Sai, Manuel, ti piacerebbe. Magari un giorno te lo presento».

Per la verità non le aveva chiesto solo il nome. Le aveva detto "Come ti chiami? Perché il tuo nome deve essere meraviglioso, tu sei così bella!". Io, che ero seduta al tavolo con Marie e Nicole, avevo dovuto trattenere una risata perché quello era il genere di romanticherie così eccessive da diventare leziose. E poi sono cose che non succedono nella vita reale, a meno che tu non ti chiami Marie Saunière. Praticamente era stato amore a prima vista.

Annuendo, Manuel passò la canna a Jacques e si raddrizzò sulla sedia, le clavicole in rilievo che si mossero quando fece ondeggiare le spalle. «E tu, Frangetta?».

"Frangetta" ero io. «Io ho un ragazzo, si chiama Paul», affermai con un sorriso gentile. Dicono che per iniziare bene la giornata si debba sorridere, quindi immaginavo di doverlo fare anche per convincermi ad amarlo di nuovo. Se fossi partita con il piede giusto, la mia psiche si sarebbe piegata al mio volere.

Jacques non si trattenne e ridacchiò. Non me la presi, perché era un po' fatto e aveva bevuto qualche birra, ma dentro di me qualcosa ondeggiò, dalle parti delle mie budella. Paul avrebbe anche potuto essere lì, in quel momento, a conoscere un nuovo amico - del quale forse non gli sarebbe importato molto - e tuttavia io non lo avrei mai voluto seduto con noi a quel tavolo. No, non sarebbe stato il luogo adatto a lui, non perché Paul fosse un omofobo o non gli piacesse il cibo greco che avevamo ordinato, ma perché ai miei occhi sarebbe sembrato sbagliato.

Io non volevo Paul con me, volevo George.

Mi distrassi quando Marie mi sfiorò un braccio. «Tutto bene?».

«Certo», mentii. Dovevo smetterla di pensarci, dovevo smettere finché non fossi stata abbastanza forte da sopportare il ricordo. «Stavo solo pensando che Manuel ha dei dread davvero molto lunghi».

«Sono i miei tesori, Frangetta», replicò lui con un bel sorriso. «Tu sei un'artista, vero?».

Per un momento credetti di non aver capito. «Come dici?».

«Sei un'artista. Una pittrice, insomma. L'ho capito subito».

Scossi il capo. «Io non dipingo». Dopo il ritratto di George non avevo più preso in mano nemmeno una matita, non avevo più neppure scarabocchiato gli angoli dell'elenco telefonico mentre parlavo con mia madre.

Non che mi mancasse l'ispirazione, anzi, ne avevo di cose da dire e avrei saputo anche come dirle. Ma tanto chi avrebbe visto i miei lavori? Nessuno, quindi fine della storia.

Manuel annuì. «Ah, sei una di quelli tormentati. Ganzo».

Jacques accorse in mio aiuto. «Lasciala stare, amico».

«No, sono molto serio. Non fraintendermi, io di arte non capisco una sega - scusa per il termine, Marie».

«Figurati».

«Però le persone», continuò lui. Era il discorso di uno nel pieno di un trip. «Quelle le capisco. Capisco la gente. E guardandoti in faccia sembra che tu abbia scritto in fronte cosa vuoi fare davvero».

Iniziavo ad essere molto curiosa. Non ero arrabbiata, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. È possibile che se fosse stato un altro a dirmi le stesse cose gli avrei strappato i dread e glieli avrei fatti mangiare. Invece Manuel mi apparve in quel momento avvolto di un'aura di saggezza proprio come un profeta. E dire che non ero fumata, io.

«E cosa vorrei fare?», domandai con molta convinzione.

«Sei incavolata nera, Frangetta», fece lui annuendo con molta serietà. «La rabbia è ok, ma devi sfogarla o ti salterà il cervello. E credo che il tuo sfogo possa essere l'arte, sai, butta il colore sulla tela come se stessi strappando il cuore di chi non ti piace. È molto più sano che strappare un cuore vero».

Guardai Jacques, inorridita. Doveva per forza aver raccontato qualcosa, doveva essere stato lui perché Manuel non sapeva niente di me, non aveva idea di quale cuore avessi già strappato. Oddio, ero io quella di cui stava parlando ed era un quadro orribile. Come aveva fatto quella specie di Bob Marley bianco ad appiccicarmi addosso una definizione nel giro di due ore?

Era una definizione che mi piaceva, poi? Non dovevo riprendere a dipingere perché uno strafatto del cazzo me lo veniva a dire, porca miseria, non me l'aveva mica ordinato il dottore. "Dio, fulminami ora perché sto impazzendo".

Riflettendoci bene, in realtà, anche io ero cambiata, non erano stati solo loro due a crescere. Fino a sei mesi prima avrei detestato Manuel, completamente, non perché fosse gay, ma perché aveva quell'aria un po' troppo alternativa da fricchettone strano. Non lo avrei mai preso in giro come avrei fatto con George, perché Manuel era troppo adulto per poterlo fare, ma lo avrei etichettato come "sfigato" in due secondi.

Ora, invece, con quel suo sputare sentenze nel rincoglionimento dell'erba, mi piaceva. Mi piaceva perché era spontaneo e simpatico, perché diceva ciò che pensava senza complicarsi troppo la vita, mi piaceva perché rendeva felice quello che era diventato il mio migliore amico.

Per questo non mi arrabbiai.

«Ah, un'altra roba che volevo dire», fece Manuel. «Voi due lo sapete che Jacques ed io ci frequentiamo?».

Lo aveva detto in un tono che sarebbe stato adatto per: "Voi due lo sapete che nella Via Lattea ci sono più di quattrocento miliardi di stelle?". Credevo che a Jacques si sarebbe sganciata la mascella per la sorpresa.

Marie soffiò dal naso scoppiando in una risata clamorosa. Io, dal canto mio, ero solo contenta che il discorso si fosse spostato da un'altra parte.

La serata passò, Manuel salutò Jacques con un bacio appassionato e il suo ragazzo ricambiò con uno sguardo di puro sbigottimento, Marie rischiò di addormentarsi sul divano e alla fine ognuno tornò nel suo letto a dormire.

Io, però, non ci riuscii. Rimasi avvolta nelle lenzuola a lungo, gli occhi sgranati nel buio a fissare il soffitto, senza un pensiero preciso in mente. Il mio cervello vagava dalla tesi, a George, alla mia famiglia - alla mia mamma che mi mancava tanto, in quel momento, più che mai - e a ciò che aveva detto Manuel.

L'orologio segnò l'una, poi le due, poi le tre. Alle tre e ventidue mi parve chiaro che non avrei dormito più, così mi alzai calciando via il lenzuolo che crollò parzialmente sul pavimento.

Non so cosa mi spinse a farlo. Forse volevo dar ragione a Manuel, o al contrario volevo smentirlo. Non lo so. Accesi la luce e presi la tela ed i colori. Con una strana melodia nelle orecchie, come se il mio intero essere stesse danzando e fremendo per l'esaltazione e la paura in una strana predisposizione kantiana, iniziai a preparare la tavolozza.

E poi dipinsi. Sognai, volai, scrissi, piansi, parlai, corsi, tutto sulla tela bianca. Un colore dopo l'altro, un segno dopo l'altro, senza pennelli, solo con l'uso delle mani. Quella era la mia dannatissima tela, nella mia brutta stanza in una casa che condividevo con un polacco amorfo, una stronza patentata e una delle persone a cui volevo più bene. C'eravamo tutti e quattro, in quel quadro, e c'era anche Marie insieme al suo fidanzato, c'erano i nostri amici, le nostre serate, la mia nicotina e la birra, i pomeriggi a passeggio, Delacroix, Paul e George, Parigi e Urbino fuse insieme. In ogni colpo c'era tutta la mia vita, in ogni passaggio con i polpastrelli imbrattati di rosso, di blu, di nero, c'ero io.

Divenni sempre più rabbiosa man mano che andavo avanti, per poi tornare ad essere calma verso la fine. Sapevo di essere sporca sulla fronte, dove mi ero scostata la frangia con la mano piena di giallo, e sul pigiama a causa di alcune gocce cadute. Non mi importava, se avessi imbrattato anche i muri sarei stata comunque felice.

Dio, quanto era liberatorio. Io penso che l'arte voglia dire qualcosa di diverso per ognuno di noi e per me, in quel momento, era l'unico modo che conoscessi per riversare tutta la mia frustrazione. Frustrazione per non riuscire ad amare Paul come avrebbe meritato, per non essere stata in grado di scegliere George al posto del mio egoismo, per non aver chiamato abbastanza spesso a casa. Per non aver passato la notte con Marie, quando credeva di essere incinta, e per non aver stretto Jacques a me quando aveva paura di sbagliare tutto, perché non lo avrebbe mai ammesso ma avrebbe pagato il suo peso in oro per un abbraccio.

Su quella tela c'era tutta me stessa e questa volta non l'avrei tenuta nascosta, l'avrei messa dove tutti avrebbero potuto vederla, dove chiunque avrebbe potuto guardarla e dire "È Léo!", con tutti i miei pregi e i miei difetti, le qualità e gli errori, le migliaia di errori: feci una foto e la postai su Facebook.

Non pensate che il mio atto di coraggio mi abbia aperto le porte del Paradiso, anzi, non appena mi resi conto che la fotografia era in rete e che chiunque avrebbe potuto pensare che faceva schifo mi nascosi in camera di Jacques e dormii con lui, troppo spaventata dal giudizio altrui per riemergere come una persona sana di mente. Un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per Eleonora Gentilini.

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