2.

95 22 31
                                    

La mattina seguente mi svegliai con un peso sul cuore,
un po' come se qualcuno si fosse insediato dentro di me, e ci si fosse seduto di sopra, aggravandolo con il suo peso.
E quel qualcuno eri tu.
Maledettamente tu.
Tu che dopo quella sera mi eri rimasto impresso col tuo sorriso,
la tua voce,
la tua stranezza,
e i tuoi occhi piccoli ma immensi.

Uscii dalla mia camera, portandomi dietro il pensiero di te. Portandomi dietro le mie parole e le tue.
Andai in cucina e mi preparai la colazione: una tazza di latte caldo con un po' di caffè e sette macine.
Né una in più, né una in meno.
Era una stranezza che mi apparteneva sin da piccola, e che condividevo con mia madre.
Quando facevamo colazione insieme, entrambe prendevamo sette macine e le mettevamo dentro la tazza, versando poi il latte caldo con il caffè dentro.
Ancora oggi, se siamo insieme la mattina, facciamo colazione così.
È una nostra strana abitudine.
Una cosa che tu trovavi bizzarra, ma allo stesso tempo adorabile, così mi dicesti la prima volta che facemmo colazione insieme, ed io non riuscivo a comprendere come potessero essere queste due cose insieme.
Ma è sempre stato così con te. È sempre stato un non capirti, un non capirci.
Non riuscivamo mai a venirci in contro.
Era sempre un farci la guerra.
Perché eravamo due teste calde noi due. Due teste di cazzo orgogliose fino al midollo. E l'orgoglio è una brutta bestia, l'ho imparato a mie spese.
Ti porta a rimanere solo, ti divide da tutto ciò che ami e ti vuole tutto per sé.
E ti logora dentro, ti rende marcio fino a consumarti.
Per questo penso che nei rapporti bisogna metterlo da parte, l'orgoglio.
Mettere giù le armi e scoprirsi agli occhi di chi si ama.
Perché in amore non esiste l'orgoglio, esiste il saper chiedere scusa, il saper mettersi in secondo piano per lei o lui, esiste il lottare con unghia e denti, stringere forte la presa e non mollare, che se si spezza la corda è un casino, vallo a rifare il nodo poi.
Ma noi due non siamo mai stati bravi in questo.
Siamo sempre stati bravi a distruggerci a vicenda, ad ammazzarci come cani, a farci la guerra e mai la pace.
Tu eri il mio pharmakon, che in greco significa "veleno" ma anche "rimedio".
Perché tu eri questo per me, eri la mia ancora ma anche la persona che mi trascinava giù.
Eri il mio bene ma anche il mio male.
Eri tante cose tu, ed io me ne resi conto sin da subito. Lo capii quella sera al locale e nei giorni seguenti. Capii che non avevi niente a che fare con gli altri.
Tu eri diverso, e non lo dico tanto per dire.
Avevi quel tuo modo di fare strano, sempre imprevedibile, che mi faceva perdere la testa. Per non parlare della tua lunaticità che mi faceva uscire matta.
Era difficile stare al tuo passo, riuscire a capire il tuo comportamento, i tuoi ragionamenti, e tutto il mondo che tenevi dietro quegli occhi piccoli.
C'erano volte in cui ti chiudevi in te stesso e nascondevi la testa sotto il cuscino per non essere disturbato da nessuno, e volte in cui ti svegliavi col sorriso e iniziavi a parlare a raffica, pensando a cose stupide da fare insieme.
Eri tante cose belle tu, ma anche cose brutte.
Quelle che ti ostinavi a tenere dentro l'armadio.
«Il passato è passato» mi dicevi, ed io avrei voluto saper leggere la mente solo per capire cosa ti tormentava facendoti restare sveglio quasi ogni notte.

«Ele', i ragazzi ci hanno invitato ad andare in spiaggia con loro. Ti va'?» Giorgia entrò in cucina con ancora gli occhi chiusi e il pigiama addosso.
«Si, ma prima riprenditi dalla sbornia di ieri sera.» la presi in giro e in cambio ricevetti un'occhiataccia, mentre, assonnata, si portava un'aspirina alla bocca.
Andai in camera e senza impiegare troppo tempo mi misi il costume e preparai la borsa per il mare, mentre Giorgia sbucava dalla porta ogni trenta secondi per chiedermi se il costume andasse bene o se dovesse cambiarlo ancora una volta.
Nella mia testa nel frattempo si ripeteva sempre la stessa domanda come un disco rotto: ci sarà anche lui?
Al solo pensiero di incontrarlo le mie mani tremavano e il mio stomaco si chiudeva in una morsa dolorosa, quasi come se sapesse che era tutto sbagliato e volesse darmi un avvertimento del dolore che avrei provato se mi fossi buttata a capofitto tra le sue braccia.
E avrei voluto che qualcuno o qualcosa mi avesse impedito di farlo. Avrei voluto che qualcuno mi avesse detto di stargli lontano, che non era giusto per me e che avrebbe causato solo danni irreparabili al mio cuore ingenuo. Avrei voluto rendermi conto da sola che mi stavo imbattendo in qualcosa di troppo pericoloso, che stavo annullando ogni parte di me per donarla a lui... lui che forse non voleva neanche lo facessi.

Un cuore per dueWhere stories live. Discover now