1. Echo

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Prima di quel giorno mi sentivo costantemente come se non stessi vivendo a pieno la mia vita.
Mi sentivo un automa, un qualcosa che osservava lo scorrere del tempo dietro un vetro. Come se non fossi presente a ciò che mi accadeva, mai.
Decisi quindi di fare la famosa richiesta, spinta più che altro dai miei genitori, che non riuscivano più a sopportare il mio comportamento, o almeno così sembrava.
Dicevano: " È una nuova esperienza, ti segnerà per sempre" oppure "magari avessi io la tua età, non perderei neanche un secondo di più". Ma io sapevo benissimo di poter perdere tutto il tempo che volevo, nessuno in cinque anni aveva mai fatto richiesta per il progetto.
Vi starete chiedendo di che progetto si tratti, ebbene, in realtà neanche io ne avevo la più pallida idea prima di entrare nella navicella. Anche perché se avessi saputo che la mia nuova casa sarebbe stata una navicella lanciata in mezzo allo spazio avrei sicuramente rifiutato senza pensarci. Ma loro non l'avevano specificato, non avevano detto nulla.
Il "progetto per giovani al di sopra dei 16 anni e al di sotto dei 30" era in realtà un esperimento scientifico che si sarebbe svolto in mezzo al nulla su una navicella spaziale. Non aveva una durata prestabilita, eravamo noi a dover porre fine in un modo o nell'altro all'esperimento.
Ma voglio raccontare meglio tutto dall'inizio, so di essere stata troppo confusionale.
Era una bellissima giornata di sole, strano che non piovesse di settembre. Guardavo le strade e i palazzi scorrere dai finestrini dell'auto dei miei genitori, con un paio di cuffiette strette nel pugno e la testa appoggiata al sedile. Settembre mi aveva sempre messo una strana malinconia che non finiva mai prima della fine di ottobre, ma stranamente quel giorno stavo più che bene. Certo, non sapevo cosa mi stesse aspettando qualche chilometro più in là, perchè credo che se l'avessi saputo mi sarei cagata sotto.
Piccola parentesi, non sono una cagasotto, però sapete com'è...spazi chiusi, sensazione vuoto e mancanza d'aria...
Okay. Ammetto di esserlo un po', ma non in modo esagerato, il giusto.
Arrivammo presto in un'area priva di alberi, case e vegetazione. Era terra vuota e polverosa per chilometri e chilometri, così, tutta l'angoscia che mi ero levata dalla testa ritornò improvvisamente anche peggio di prima.
Ci fermammo davanti ad una recinzione delimitata da filo spinato. Notai proprio accanto a me un cartello giallo con scritto :" tenersi lontani, area pericolosa".
Due militari si avvicinarono con calma alla nostra macchina con i loro rispettivi fucili in mano.
Quelle situazioni mi avevano sempre fatta innervosire, immaginavo scenari in cui la situazione sarebbe degenerata e ci avrebbero ammazzati tutti per poi vendere i nostri corpi al mercato nero o darli in pasto a coccodrilli mutanti.
Mio padre abbassò il suo finestrino per poter parlare con il militare che si era avvicinato al suo sportello. Notai dall'altro lato, l'altro militare che mi fissava con occhi torvi, il che mi fece rabbrividire.
-siete voi la famiglia...- si fermò un attimo per leggere meglio il nome sul foglio che teneva stretto in pugno. Poi fece un segno col capo al suo collega che si avvicinò per leggere il nome al suo posto.
- Allen, c'è scritto Allen.- disse l'altro.
Lanciai un'occhiata interrogativa a mia madre che dallo specchietto mi guardava con compassione, quasi con le lacrime agli occhi.
-Mia figlia è Lee.- lo corresse mio padre e poi intimò un sorriso.
-uhm, Lee...?- il primo militare fece un'altro cenno al suo collega che si avvicinò ancora una volta.
-si, c'è scritto qui Lee- disse a voce bassa, in modo da farsi sentire solo dal collega indicando un punto sul foglio.
- Lee.- ripeté l'altro in modo confuso ma cercando di mantenere autorità e sicurezza.
Soffocai una risatina e alzai un sopracciglio.
-quindi?- chiese mio padre impaziente dopo una manciata di secondi.
-potete passare- disse il secondo militare premendo un pulsante sul suo palmare.
-evviva.- commentai sarcasticamente.
Ma ciò non guastò di una virgola l'entusiasmo di mio padre,che guardò nello specchietto retrovisore cercando contatto visivo.
-Questa.- disse trattenendo a stento la sua emozione. - sarà un'enorme opportunità per il tuo futuro.-
-sempre se l'avrà un futuro- mormorò mia madre.
Io aggrottai le sopracciglia.- cosa?- chiesi, ma mio padre ignorò la mia domanda.
-insomma, non capita a tutti un'esperienza del genere, seppur sia difficile, lo ammetto, ma ne uscirai più matura e forte.-
Mi guardai intorno. Sembravamo entrati dentro un mondo a parte, nel vuoto più totale.
Mi chiesi dove cazzo stessimo andando e più la macchina avanzava verso quel nulla polveroso, più il mio cuore batteva irrequieto.
-credo di averci ripensato.- dissi nervosamente ai miei genitori. Mio padre mi lanciò un'occhiataccia fulminandomi con lo sguardo.
-smettila di fare la bambina, sarà divertente, costruttivo.- mi rimproverò poi.
- mi sto già divertento- dissi tra me ritornando a guardare fuori dal finestrino.
Dopo una decina di minuti arrivammo di fronte ad un edificio basso, di soli due piani, quello terreno e il primo, ma la sua lunghezza lo faceva sembrare immenso.
Ci fermammo nel parcheggio. Mio padre scese dalla macchina quasi volando per l'emozione, io al contrario quasi tremavo. Diciamo che stavo piuttosto sudando freddo.
Una donna molto alta ci venne incontro con aria emozionata.
Indossava un vestito nero lungo fino alle ginocchia con sopra un camice bianco. Al collo portava una collana di perle e ai piedi i tacchi.
Mentre camminava si aggiustava gli occhialoni enormi di una strana forma allungata e ondeggiava con i fianchi in modo quasi innaturale, le avrei dato una quarantina d'anni.
-benvenuti al sito di ricerca Green!- esclamò. La sua voce era stridula e fastidiosa, mi venne quasi di tapparmi le orecchie, ma rimasi impassibile e finsi un mezzo sorriso.
" Si chiama green, eppure non c'è nulla di verde qui intorno" pensai.
-siamo molto onorati ed emozionati di essere qui, vero tesoro?- mio padre si girò verso di me con un sorriso a 32 denti.
- sicuramente- dissi io, poi ricambiai un sorriso alla donna.
- perfetto!- esclamò lei facendomi sussultare. - io sono la dottoressa Marks, una ricercatrice, mi occupo di voi ragazzi, tu sei Lee, giusto?-
Sembrava una gallina scappata dal pollaio.
- già.- risposi facendo finta di essere emozionata anche io, ma con scarsi risultati.
-oh tesoro!- disse quasi saltellando. - gli altri saranno sicuramente impazienti di conoscerti.- Sembrava quasi che stesse strillando, ogni vocale era enfatizzata al massimo e il suo tono si andava alzando sempee di più.
-spero non mi ammazzino troppo presto.- dissi ironicamente rivolgendomi alla ricercatrice.
Lei mi lanciò un'occhiataccia a cui seguì un piccolo momento di silenzio, successivamente finse una risata.- su dai, non essere nervosa, vi amerete tutti tutti!-
Penso che neanche un asilo nido avrebbe voluto una persona del genere come impiegata. Mi chiesi che potenzialità avesse come ricercatrice, ma non feci in tempo a pensarci.
-Penso sia arrivato il momento di salutarci- disse mio padre dandomi un bacio sulla guancia e una pacchetta amichevole sulla spalla.
-ti voglio bene- disse mia madre trattenendo a stento le lacrime.
Fin dall'inizio del viaggio non mi era sembrata molto convinta del fatto di lasciarmi andare via, soprattutto in quel posto. Era rimasta tutto il tempo in silenzio a guardarmi dallo specchietto. In silenzio, lei che era solita scherzare e ridere sempre, un po' come me, invece in quel momento era come pietrificata, come se non avesse modo di intervenire, o come se avesse paura di qualcosa di incontrollabile e grande. Ma cosa?
-anche io ti voglio bene.- la abbracciai forte. Ebbi la sensazione che lei cercasse di non staccarsi più da me, ma ahimè dovette farlo.
-siete carine carine!- esclamò la marks facendo una smorfia sdolcinata.
Il suo ripetere gli aggettivi due volte di seguito in ogni frase mi stava cominciando a dare parecchio fastidio, sembrava uscita da una
barzelletta, ma da una di quelle scontate e stupide che più che fare ridere mettevano tutti in imbarazzo.
-spero tu possa divertirti-mi disse mio padre con una specie di sorriso fiero e soddisfatto.
-sinceramente lo spero anche io.- dissi guardandomi intorno e rabrividendo ancora una volta.
-oh sarà sicuramente così!- civettò la marks sbattendo le mani. - è ora di andare, gli altri ti aspettano- continuò.
Salutai per un'ultima volta i miei genitori e li guardai a lungo, voltarmi le spalle, camminare lentamente, rigirarsi un'ultima volta e poi scomparire in quel deserto.
"Va bene, ora però non farti prendere dal panico" pensai.
La dottoressa marks mi prese a braccetto stringendomi a lei e guidandomi dentro la struttura.
-Ti piace questo posto?- chiese con una punta d'orgoglio nella voce. Come se quello fosse il posto migliore di sempre.
-ehm...- provai a cercare una caratteristica del posto che mi piacesse particolarmente per concentrarmi su di essa, ma lì tutto era grigio e spento.
Le pareti grigio sporco, i vetri alle finestre erano rigate e con qualche crepa.
- c'è una bella...aria- provai a dire, ma mi sentii subito stupida per la risposta che le avevo fornito.
-capisco, intendi l'almosfera!?- chiese.
Io mi guardai meglio intorno, avrei dovuto mentire? In fondo anche un cimitero avrebbe avuto un'atmosfera più allegra.
-no no, proprio... l'aria.- dissi facendo segno con le mani di inspirare.
Entrammo dalla porta principale e l'ingresso sembrava deserto.
Si potevano vedere alcuni scatoli di cartone accatastati da un lato, un carrello in mezzo al corridoio e alcune luci del soffitto che funzionavano male.
La dottoressa continuava a parlare senza sosta, chiedendomi dei miei hobby, della mia vita, delle mie aspirazioni, amici e famiglia. Io tentavo di risponderle, ma ogni volta che aprivo bocca lei ricominciava a parlare, era veramente logorroica ( e per dirlo io ce ne vuole).
-non badare a questi corridoi- disse a un certo punto notando la mia espressione. - sono abbastanza inutili, la struttura è una specie di copertura, l'importante è ciò che sta sotto.- disse con un sorrisino indicando il pavimento.
L'idea di dover scendere sotto terra mi fece venire voglia di scappare via.
-sono claustrofobica- ebbi un piccolo accenno di nausea, che però passò immediatamente.
La dottoressa rise senza rispondere e continuò a camminare a passo spedito.
Arrivammo di fronte ad un'ascensore abbastanza mal messo, dall'aspetto antico e poco sicuro.
- posso prendere le scale?- chiesi cercando di nascondere la mia preoccupazione.
- se sapessi quanto abbiamo da scendere non lo chiederesti- rispose lei sempre ridendo.
-allora non lo chiedo, preferirei non saperlo- deglutii e la seguii dentro l'ascensore.
-il piano più basso...- disse premendo un pulsante dell'ascensore che partì con uno scossone facendomi sussultare. Mi poggiai una mano sul cuore che martellava nel mio petto e sospirai.
-...si trova esattamente a un kilometro dal piano terreno- continuò.
Io deglutii soffocando un gemito di paura. Certo, anche se raccontata così sembro veramente una stupida che ha paura della sua stessa ombra, ma non avevo tutti i torti.
Feci una smorfia e guardai il pavimento dell'ascensore che si muoveva a scossoni.
-una caduta da questa altezza significherebbe morte certa- continuò lei.
Io mi girai guardandola perplessa e lei rise.-non avrai mica anche paura delle altezze?- non smetteva di ridere.
Devo dire la verità, in quel momento mi spaventava di più lei, era seriamente inquietante, sembrava finta.
-Lei ha paura del silenzio?- dissi interrompendo finalmente le sue risate.
Non rispose e rimase in silenzio fino alla fine del viaggio in ascensore.

Spazio autrice 🚀

Se vi va andate a dare un'occhiata ad una mia nuova storia che si chiama: "Queen of somewhere" sul mio profilo❤️❤️

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