La lezione del mare

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Una distesa in cui il cielo era libero di specchiarsi, a tratti increspata, a tratti cristallina. Il mare, suo il moto perpetuo dell’infrangersi sulla sponda, le sue onde tagliate dagli scogli, la sua vita sotto la lamina sottile dell’aria. Adone meraviglioso, presente da millenni e mai stanco di far innamorare.
Il mare sapeva di essere così bello e prezioso, avrebbe mai capito il suo valore o sarebbe rimasto lì, nel suo continuo periodare, a tangere membra e ad accompagnare navi. Lui, consapevole della libertà, assorto nell’odore salmastro, dava vita a mondi corallini, a esseri colorati e diversi; si lasciava popolare da un arcobaleno di razze nutrendole in egual misura e lasciando loro egual libertà. Il mare accoglieva le membra stanche del vacanziere assopito e l’irruenza del bambino infaticabile, nelle sue acque tiepide lasciava spazio a un sospiro di sollievo nella calura estiva. Il mare sapeva che nel farsi onda, avrebbe baciato eternamente la spiaggia e rosicchiato la dura pietra. Come cambiava il valore di un suo infrangersi, fino a render renella la roccia più forte. Il mare sapeva di essere un maestro: andare negli abissi più profondi per cercare le immagini più rare, essere disposto al sacrificio per modellare le perle più preziose, non badare al dolore dei muscoli quando si fendevano le sue onde controcorrente.
Il mare, abile artigiano, che torniva gli spigoli più aspri e li rendeva accoglienti, lucidi, splendenti al sole. Il rapporto con il mare impreziosiva, in un scambio tra un posto nel blu profondo e una superficie levigata con costante pazienza.
E poi si tingeva di un blu profondo, con fili argentati che scorrevano lungo la scia della luna, l’unica che poteva illuminarlo completamente. E questi due esseri, nel silenzio delle onde, stuzzicavano fantasie dei poeti e sospiri degli amanti.
Il mare insegnava pazienza e prudenza, la saggezza di aspettare quando decideva di danzare insieme al vento gagliardo. Capace di incutere timore nella tempesta, lasciando però intatto il fascino della sua potenza ferrigna. Anche nella notte più buia, pareva gridasse che per amarlo occorreva solo “Rispettare i suoi tempi”, così suggeriva Caterina a chi si opponeva alla bellezza suprema (e per lei indiscussa), del suo fidato amico.
L’estate era già lì: il sole caldo, le aurore più rosse, il mare calmo, l’odore dei limoni e il sapore vellutato delle albicocche succose. Caterina l’aspettava come una cara compagna, da sempre: il caldo non le faceva paura, c’era il mare, cristallino, che l’attendeva per un fresco abbraccio. Accettava anche il senso di umido sulla pelle: era solo un abbraccio del mare che presto il vento avrebbe asciugato.
Il mare.
Vicino di casa fidato. Caterina si affacciava dalla sua casa bianca al mattino, lo salutava alla sera e si lasciava dondolare dalla sua voce ogni notte. E le colazioni vissute insieme, lei con la schiuma sul suo cappuccino e lui con la spuma delle sue onde, e le lunghe passeggiate a lasciare che le sue impronte venissero levigate sul bagnasciuga.
La sua era una vita in compagnia del mare: vi buttava dentro ogni preoccupazione o delusione, da lui ripescava ricordi, speranze, lui le imprimeva vigore e caparbietà. L’odore della salsedine era il profumo della sua vita, i lunghi capelli biondi amavano essere modellati dall’acqua sapida, le onde cullavano i suoi sogni, la sabbia dorata invadeva il suo balcone. Incurante del freddo, ritagliava sempre pochi minuti per bagnarsi i piedi per sentirsi parte del suo amico e, all’arrivo dei periodi più caldi, ogni giornata si apriva con una nuotata tra le sue onde rosse dall’alba. Amava immergersi, sentire il silenzio del mare, curiosare tra i fondali, dimentica di ciò che stava in superficie, diventare essa stessa mare. Si sentiva abbracciata dalle due acque, amata, accettata. Il mare non avanzava nessuna pretesa: lui poteva essere terribile, e lo vedeva nelle notti di tempesta, ma anche così generoso nel continuare ad infrangersi sulle coste sotto il suo balcone, e osservarla senza pretendere niente. I pomeriggi potevano trascorrere così, lei seduta davanti a lui a guardarlo e lui davanti a lei a lasciarsi amare. Succede così, pensava, quando due si amano e non hanno nulla da dirsi; si guardano, e il tempo si ferma in quello scambio di sguardi che sembra eterno. Il mare tutto leniva, tutto curava, tutto dimenticava. Bello, immenso, periodico, qualunque cosa succedeva lui era lì, ignaro della sua maestosità, o forse era un vecchio narciso che conosceva bene il valore del suo splendore e si beava della gente che lo amava.
Caterina raggiungeva la pietra bianca, levigata dal mare, a tratti muschiosa. La pietra si diramava nel mare come un polipo a sette tentacoli, e tra le giunture frastagliate, Caterina si stendeva e lasciava che le onde diventassero massaggio sul suo corpo dorato.
Caterina aveva imparato dal mare la lezione dell’amore: esserci sempre, saper aspettare, rispettare i limiti, abbracciarsi ad ogni incontro, andare in profondità, levigare i propri spigoli per far spazio all’immenso. Mise in pratica tutti questi precetti nella sua vita, sia nel lavoro che nell’arte della tenerezza. Cercava nel suo uomo l’immensità oltre l’umano, la gratuità dell’affettività, l’accoglienza e la libertà, e in tal misura provava a restituire ciò che cercava. Metteva nel suo lavoro la passione più grande, la correttezza estrema, il garbo, il sacrificio composito; l’attenzione e lo studio costante erano il suo periodare, senza dimenticare il sorriso ad ogni inizio giornata. Tuttavia non bastava, all’apparenza era sbagliata lei per il mondo, troppo pacata, troppo cauta, troppo corretta, poco accattivante, poco esibizionista, poco condiscendente. Caterina accettava la posizione che in azienda le avevano affidato, concentrando le sue forze nel fare meglio il suo lavoro; quel mondo che tanto badava all’apparenza era il suo scoglio, lei lo avrebbe levigato, ne avrebbe ricavato il suo golfo, certa che i suoi sforzi sarebbero stati, presto o tardi, notati. Il suo lavoro le lasciava il pomeriggio libero. Correva al mare, lasciando dietro di se i giochi sporchi, le tattiche aziendali, le doppie letture dei gesti delle risorse umane: ora era davvero libera di essere Caterina. A lei interessava una vita vera, piena di emozioni, il lavoro non era la vita; lei aveva speso il massimo per essere la migliore, e sapeva di esserlo, ma se questo non le veniva riconosciuto era un problema loro. Lei avrebbe continuato ad impegnarsi, come il mare ad ondeggiare.
“Se trovassi il coraggio di andare via saresti valutata per quello che sei”, “Io sono come il mare, questa è la mia riva, non sopravvivrei troppo tempo senza di lui”.
“Sii tu per me mare”, chiedeva Caterina al suo uomo, quando camminando sulla spiaggia, insieme provava a fargli capire la sua repulsione per un mondo finto e la sua dedizione per un amore genuino. Il ragazzo le voleva bene, ma sembrava travolgerla come un fiume in piena. C’erano troppe cose di Caterina che non apprezzava, lunghe erano le sue assenze e risicato il tempo che impiegava per conoscerla pienamente. Progettava tante cose su di lei, ma senza capire quello che lei voleva per se stessa. “Sii tu per me mare”, le ripeteva, sorridendo della sua cocciutaggine, accettando i suoi consigli e fingendosi distratta ad un suo nuovo rimprovero e cercando di diventare sorda alla sua gelosia agghiacciante.
“Togli anelli e bracciali, oggi il mare è agitato”, suggerì un pomeriggio di fine estate al suo ragazzo; ma egli, testardo, non la stette a sentire “È sempre così quando ci sono io”. L’acqua era fredda, e le onde si increspavano sui loro corpi, al punto da rubare la fascetta all’anulare del ragazzo, la cui gemella aspettava tra i vestiti di Caterina.
“Da oggi sarò fidanzata con il mare”, lo sbeffeggiò Caterina.
“È quello che desideri da sempre”, rispose beffardo.
E il quel momento il mare si placò.
Troncò quel rapporto. Caterina si riappropriò della propria vita una sera d’estate. Confessò a se stessa che aveva ricominciato a respirare e si paragonò ad un mare in un dipinto, con le onde immobili sulla tela. Non era quello ciò che considerava amare.
Il mare quella sera era diverso, pareva sussurrasse, ipnotico. La spiaggia era deserta, i rumori dell’estate in lidi lontani, solo qualche lampara all’orizzonte e l’odore di salsedine intorno. Si spogliò, nuda. Il chiarore della luna disegnava i suoi lineamenti, il seno turgido, i fianchi larghi e le gambe lunghe. Una brezza le pettinava i capelli e spazzava granellini di sabbia al suo passaggio. Tutto aveva la fisionomia di un rito. Il tocco dell’alluce sulla battigia sembrò eccitare le acque nere che iniziarono ad ondeggiare più velocemente. Caterina seguiva la scia argentea lunare. Prima i piedi, baciati dalle acque, poi le caviglie, accarezzate, poi le gambe, lambite, e le cosce, desiderate. Era una notte diversa, lo avvertiva, conosceva il mare come amico, ma in quel momento lo avvertiva come amante. Un desiderio sibilava tra le acque e divampava nel sangue. Timida al primo passo, impaziente quando le onde iniziarono a lambirla e a sottrarsi al suo piacere. Quella carezza continua, sprezzante, la rendeva folle, era un supplizio smanioso. Si strette tra le sue braccia e fece un altro passo. Le acque fredde le accarezzavano il ventre teso. Esausta, si piegò sulle sue ginocchia, ora anche il seno era stato assorbito dal mare, i capezzoli tesi si lasciavano baciare. Il freddo delle acque strideva con il calore che andava alimentandosi dentro di lei. Il cuore ritmava con le onde e i polmoni chiedevano aria; la bocca si stringeva in urla mute e nel basso ventre un fuoco l’assorbiva trucido. Non solo lei aveva amato il mare, ma il mare aveva amato lei. Da sempre. Lui l’aspettava ad ogni alba, lei lasciava che infuriasse la bufera per ritornare da lui; lui la onorava baciandole i piedi ad ogni onda, lei correva da lui come linfa vitale; lui si faceva carico dei suoi pesi, lei lo impreziosiva con il suo sguardo.
Fanciulla, donna, amica, vestale marina, si lasciò amare, e nel suo piacere si fece spuma, ancor più argentea della luna.
Caterina aveva imparato anche l’ultima lezione: donarsi totalmente e continuare a sentirsi libera. Unificarsi in un essere superiore, nato dalla somma di due anime pure.
Divenne spuma, e ancora oggi, sulla battigia si vede il profilo di una donna, imperlato di schiuma marina che bacia la terra che le ha dato la vita e torna al mare che le ha dato l’amore.

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⏰ Huling update: Sep 01, 2020 ⏰

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