21 Marzo 2020 03:36 A.M.

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Lui si era già addormentato. Gli davo le spalle, ero distesa su un fianco a fissare il vuoto. Una lacrima mi scese dall’occhio sinistro, per poi cadere sul cuscino come tutte le altre. Piangevo in silenzio e, anche se avessi pianto più forte, non se ne sarebbe accorto. Non gli sarebbe importato.

La mattina mi svegliai come mio solito alle 8:30, mi feci una doccia e mi preparai per la prima lezione in videoconferenza della giornata. Mio padre mi aveva preparato la colazione: non era un granché in cucina, ma quella mattina fece dei biscotti al cioccolato squisiti. Mi collegai alla lezione di matematica, spensi la fotocamera, e mi misi a mangiare tra una chiacchiera e l'altra della prof. La mia testa vagava tra mille pensieri diversi: mi chiedevo quando sarebbe finita, quando sarei potuta uscire di nuovo, quando avrei potuto passare nuovamente le mie serate fuori, senza essere costretta a restare chiusa in casa: la mia nuova prigione, la mia vecchia sala di tortura. 

Non avevo ancora esplorato Firenze del tutto. La mia famiglia ed io cambiavamo spesso città: da Torino a Napoli, da Genova a Roma, e adesso qui, bloccati a Firenze. Offrirono a mio padre una promozione e divenne capo di una nota azienda automobilistica. Era un buon lavoro che non richiedeva troppo tempo. Quando ero ancora piccola mia madre morì in un incidente stradale per colpa di un ubriaco che non rispettò il semaforo tagliandole la strada. La mandò contro una struttura inagibile la quale le crollò sopra e la uccise all’istante.

<Olivia? Olivia accendi la fotocamera.> Una voce ridondante interruppe il mio filo di pensieri: mi aveva chiamata la prof. di mate. <Si si, ci sono prof> risposi cercando di ignorare quel fastidiosissimo brivido che mi passava attraverso il corpo intero ogni volta che ricordavo quel lontano 7 aprile 2016.

< Alla buon'ora Olivia.>

Durante il pomeriggio mi limitai a concludere i compiti di epica e di scienze. Verso le cinque del pomeriggio conclusi tutto e mi buttai sul divano, sprofondandoci letteralmente con tutta me stessa. Dopo pochi secondi sentii una voce che mi urlava: <Olivia! Portami quella cazzo di birra!> Ormai quella frase non mi sorprendeva più: era da settimane intere che mio padre mi urlava dal suo studio sempre la solita frase. Io, come sempre, mi limitai ad alzarmi, presi una delle tante bottiglie di birra dal frigo, ne svuotai metà nel lavandino e la riempii d’acqua. Quando si ubriaca diventa aggressivo, agitato, spesso va fuori controllo, mi fa male, e generalmente anche di peggio.

<Muoviti Olivia!> Mi urlò nuovamente. Alzai lo sguardo, preoccupata che mi potesse scoprire, ma era già lì, davanti a me. 

<Ma cosa stai facendo?> domandò imprecando <Ma allora è colpa tua che non aveva il sapore di sempre. Dammela... Lasciala... Bene, ora vai a mettere in ordine la soffitta e non farti più vedere fino a stasera!>. Appena finí di pronunciare quelle parole mi tirò uno schiaffo sulla guancia e mi spinse verso la porta. Mi ressi in piedi a stento, tanto da riuscire a varcare la soglia della cucina per dirigermi velocemente verso le scalette che portano alla soffitta. Almeno lì avrei avuto un po’ di tranquillità. 

Spostai vari scatoloni per riuscire ad orientarmi in mezzo a quel labirinto di oggetti dimenticati. Non mi era mai piaciuto il disordine, mi ricordo che da piccola sbirciavo tra le cose di mia madre e ogni volta rimanevo stupita per come era ordinata, aspirando sempre di più a diventare come lei. L'aria era impregnata di un odore acre, il quale mi nauseava ogni volta che lo sentivo; infatti in quello stesso istante tutto iniziò a girarmi intorno, le mie gambe smisero di reggermi, mi appoggiai con una mano su uno scaffale facendo cadere una scatola per terra. “Eccoci, ora ho solo il doppio del lavoro” borbottai. Mi abbassai per raccoglierne il contenuto e mi accorsi che erano tutti effetti personali di mia mamma. Ritrovai una sua collana, un paio di bracciali che le regalarono per il matrimonio e un vecchio telefono. Mi stupii che si accendesse ancora. Sentii dei passi avvicinarsi e lo nascosi nella tasca sinistra del mio pigiama facendo finta di riordinare il resto degli oggetti. Entrò mio padre in soffitta ubriaco marcio e, prendendomi per un braccio, mi spinse contro una pila di libri. Iniziò ad abbassarmi i pantaloni. Stava riniziando tutto, non riuscivo a fermarlo. Non ci provavo nemmeno più: urlare era inutile, ormai mi sembrava tutto come se fosse normale, routine.

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