Miglio 71

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Ci sono storie che non si ricordano mai per davvero.

Ci sono storie che vorremmo dimenticare ma non le liberiamo, non le lasciamo andare.

Poi ci sono storie che non si lasciano dimenticare e ti sorvegliano al buio, nella stanza. Sono ombre di fantasmi ricurvi sotto scialli neri, addossati ai piedi del letto. Dentro hanno un silenzio inquietante che ti esplodono addosso tutto il terrore che ognuno di noi è in grado di provare. Sono le ombre che si appostano nelle stanze dei bambini e sanno, pazientemente, aspettare.

Il primo ricordo è quello del miglio. E dopo il miglio la casetta. Più precisamente al miglio 71 incontravamo la casetta. Lo so perché tutte le volte che si passava in quella strada papà fermava la macchina e tutti si scendeva a fare pipì. Roba semplice. Credo ci sia sempre un posto di rito che in un viaggio si sceglie per cominciare a sentirsi in vacanza. La nostra era al miglio 71 della statale e noi maschi pisciavamo sul miglio. Si insomma la colonnina bianca di pietra che ti diceva quanta strada avevi fatto e quanta ne mancava. Noi scendevamo e si pisciava sopra; poi immancabile il commento di mio padre sul fatto che finalmente eravamo in vacanza.

E la casetta era sempre lì. A pochi passi dal miglio 71. Dimenticata. Invisibile. Ma io sapevo che era lì e l'aspettavo per tutto il viaggio. Sapevo che ad un certo punto, ripartiti dopo la pisciata ci sarebbe stata quella casetta appartenuta forse a qualche pastore, forse a qualche solitario eremita dalla barba lunga e dal silenzio profondo; sorridevo all'idea che fosse abitata da elfi del bosco. La casetta non era proprio sul livello della strada ma sconsideratamente aggrappata alla montagna, a pochi centimetri dal livello della strada tenuta in piedi, avresti detto, solo dalle radici degli alberi che le erano cresciuti attorno. Una piccola porta di legno consumata dal gelo; una volta avevo avuto anche il tempo di notare che era chiusa da un lucchetto e non aveva una maniglia; i cardini erano grossi e arrugginiti. Mio padre sosteneva si trattasse di un vecchio magazzino per la manutenzione delle strade. A mio padre mancava quel po' di genio bizzarro, incapace a tenerti sveglio anche quando leggeva storie di cavalieri e draghi tra le più belle e appassionate. La realtà era fatta di realtà e quando mamma gli diceva "su dai un po' di fantasia" papà sapeva solo guardarla attonito, disorientato, nello sforzo di cercare di capire di cosa stesse parlando.

E il ricordo si ferma lì. Alla finestrella, opaca. Sporca dal tempo e dalle intemperie. Una finestra esattamente come ve la state immaginando: incastonata nella vecchia parete, quadrata, attraversata da due inferiate a croce. Buia.

Non c'è stata una volta, che passando davanti a quella casetta, dopo aver controllato rapidamente che il lucchetto fosse ancora serrato, che non abbia sbirciato timorosamente dentro, trattenendo il respiro, nel timore di percepire l'irragionevole parvenza di qualcosa che l'abitasse davvero. E tutte le volte, in quei cinque o sei secondi che la leggera curva chiedeva alla macchina, tutte le volte accertatomi che tutto fosse ben sigillato tornavo a respirare rassicurato dal fatto che la casa fosse vuota e innocua. A quel punto potevo concedermi un sorriso e vaneggiare tra paurose e innocue fantasie da bambino.

Accadde allo stesso modo anche quella notte, quando fermi al miglio 71, mentre mio padre chiudendosi i pantaloni disse: "Finalmente in vacanza", mi accorsi che alla casetta più avanti qualcosa non tornava. Tra gli arbusti che da quel punto la nascondevano ancora un pò, incastrata tra i tronchi degli alberi che la sorreggevano, uno strano tenue chiarore sembrava combinarsi con ombre mai viste prima. Oggi mi viene da dire che salii sulla macchina con l'anima congelata. Ipnotizzato e terrorizzato accompagnai quei cento metri che ci separavano aggrappato al sedile posteriore, avvolto nel ronzio dell'auto che ripartiva dopo la sosta al miglio 71. Fu terrificante cercare di anticipare se quel lucchetto fosse stato divelto. Orribile fu non riuscire a mettere a fuoco l'immagine di quel lucchetto che sembrava chiuso, poi aperto e chiuso ancora; quasi si trattasse di una bugia. Terribile avere paura di urlare a mio padre "Ferma!" "Torna in dietro" "Scappiamo"; e nel panico i miei occhi continuavano a non capire se quel lucchetto fosse realmente saldato dalla ruggine o aperto o divelto. Più ci avvicinavamo più stringevo forte la maniglia dello sportello completamente in apnea; più ci avvicinavamo più cercavo di tenere aperti gli occhi su quel lucchetto, mentre era sempre più evidente che da quella finestra fuoriuscisse una luce baluginante nella notte. Più ci avvicinavamo più il mio cuore si straziava nel disperato tentativo di urlare di tornare indietro.

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⏰ Last updated: Apr 12, 2020 ⏰

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Della notte e di altri inganniWhere stories live. Discover now