UNO

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Billi piange. Piange sempre. Perché è il più piccolo. E quelli più piccoli fanno questo di mestiere. Piangono. Finché non diventano grandi e imparano a non farsi vedere, quando piangono.

Germana indossa un prendisole giallo. Lei è la più bella. Non dico in assoluto. Anche perché io, di assoluto, a tredici anni, ne so molto poco. E poi a Favara, della sua età, di ragazze se ne vedono pochine. Ha quasi un anno più di me. Ed è bellissima. La più bella. Fidatevi.

In giro per il paese, la tribù delle teste rasate fa bella mostra di crani lucidi. Perché qui da noi, d'estate, fa caldo. Ed allora due giorni prima di partire, i nostri genitori ci portano dal barbiere, e ci fanno rasare per bene. Io quest'anno però non ho voluto. Mio padre ha insistito, ha urlato, ha minacciato, ma alla fine deve aver capito. A tredici anni io non sono più un bambino, con una testa da rasare, in estate. Soprattutto perché a Germana, non piacciono proprio quelli con la testa rasata. L'ho capito l'anno scorso.

Lei, quando viene a Favara, abita proprio di fronte alla casa di mio zio Aldo, dove noi passiamo l'estate. E ha una stanza tutta sua. Proprio sotto il tetto. Un posto bellissimo, la sua stanza, perché aprendo l'abbaino, si può vedere il cielo. E voi, non potete immaginare cosa è il cielo sopra Favara, in estate, di notte. Una moltitudine di stelle. Disordinatamente disposte, a disegnare figure e movimenti di figure, nel buio del vuoto nero che le circonda. Ognuna con la sua luce, in una danza il cui ritmo è complicato da seguire senza il telescopio di mio zio Aldo. Magnitudine mi ha detto che si chiama la misura di questa luce. Mi racconta queste cose mentre io guardo nell'oculare il ritmo di quel balletto cosmico. Alcune di loro sono invece ferme, immobili. Come se preferissero guardarsi in pace la coreografia. Tutte sono fatte di luce antica, generata in un tempo troppo lontano dalla nostra esistenza, per essere pensato trascorrere. Troppo diverso dalla durata di quell'attimo dell'anno scorso, quando io girai lo sguardo e inquadrai la figura di Germana. Per la prima volta. Sia chiaro, lei la conosco da sempre. Ci siamo graffiati e presi a schiaffoni da quando registro ricordi. Io però, quella pelle, quelle smorfie, quei capelli, non li avevo visti mai. Adesso non chiedetemi di specificare in cosa erano diversi dal solito. Forse erano solo nuovi. E in quell'attimo, ho pensato alla mia testa rasata e ho capito, che non andava bene così. Ho pensato che lei, i miei capelli, neanche li conosceva. Ho pensato che senza i capelli in testa, non potevo girarmi a chiedere spiegazioni: Germana, ma questa pelle, gli occhi, i capelli, l'anno scorso non li avevi addosso. No, non potevo farlo e per questo non poteva raccontarmi dell'ultimo anno e di come, anche lei, se li fosse ritrovati un giorno addosso, come se tutto avesse seguito un piano preciso. Esattamente come previsto era il punto esatto dove la luce antica di quelle stelle, avrebbe raggiunto i nostri occhi. Esattamente quella notte. Esattamente su quell'abbaino alla Favara. Tutto troppo esatto, razionale, algebrico.

Così io, a tredici anni suonati, dal barbiere, elaborai la mia prima vera ribellione al mondo, reclamando il possesso dei miei capelli. Il loro uso esclusivo, per ricavarne il coraggio necessario al fare domande e pretendere risposte. Passai indenne la reazione di mio padre. Ma al di là delle urla percepii che anche lui, doveva avere coscienza della fatica che è obbligata a fare quella luce antica, nel suo interminabile cammino per arrivare a Favara. Bisognava avere rispetto per tutto quel percorrere gli spazi siderali, solo per arrivare sino a me. Ed alla fine mi aveva guardato solo un attimo negli occhi e mi aveva detto:

«Va bene! Solo una spuntatina. Così sembri più grande.»

E poi aveva parlato con mia madre. Non so bene per dirle cosa, ma deve aver tirato fuori una delle sue spiegazioni poetiche, perché alla fine aveva le lacrime agli occhi. Magari era solo perché era morto da un anno mio zio Aldo. O forse perché la luce antica delle stelle a Favara l'aveva vista anche lei. O magari era solo perché stava preparando lo sfincione e le cipolle fanno questo effetto.

Billi è il fratellino di Germana. E oggi piange, perché ha la febbre e deve starsene a casa. Per questo Germana lo consola. Perché se hai la febbre, non puoi arrivare fino alla spiaggia e buttarti in acqua. Devi stare in casa, a letto. Anche se ci sono quaranta gradi, e anche se tutte le teste rasate della Favara sono giù in spiaggia a schizzarsi l'acqua. Germana lo tiene in braccio e lo accarezza. Mentre lui piange disperato.

«Facciamo così, tu ora ti riposi a letto e poi questa sera ti portiamo da Alberto, a giocare con noi.»

Peggio. Billi inizia a strepitare, che lui è troppo piccolo e non sa ancora leggere, e da Alberto si gioca sempre a Monopoli, e lui non capisce niente, e non vince mai. Ci sono momenti nei quali, se hai i tuoi capelli in testa, devi fare qualcosa. Per forza. Così scosto la coda dei capelli di Germana, e prendo le mani di Billi nelle mie.

«Ascoltami, questa sera tu giochi con me e io ti aiuto. Lo sai che così vinci.»

Billi alza il viso.

«Però i dadi li tiro sempre io. E pure il pupino lo sposto io.»

Germana lo accarezza ancora una volta.

«Certo, lo sai che lui è un campione. Questa volta vinci sicuro.»

E così il piccolo piagnone si quieta, rintanandosi in casa, rassegnato a sorbirsi la calura estiva nel lettino, fino a sera. Germana chiude la porta. Ravvia i capelli, sistemando la coda. E inizia a correre dietro la fila di teste rasate, in mezzo alle sterpaglie. E io dietro. Non pensate adesso, che tutta questa ciurma di ragazzetti sia più veloce. Solo che a me piace controllarne la posizione. Sto sempre due o tre passi indietro. Così poi, cinque metri prima della spiaggia, do gas e puntualmente li frego arrivando in acqua per primo. E scateno la tempesta di schizzi. Lei davanti a me, agita la coda di capelli corvini nella corsa. Ad un certo punto si ferma, torna indietro di due passi e mi dice «grazie per Billi». Baciandomi sulla guancia.

Germana è assurda. Lo sa che io, cinque metri prima della spiaggia, accelero e batto tutti in volata. Lo sa da quando eravamo piccoli. Quindi, se si ferma e mi viene a dare un bacio sulla guancia, e poi si rimette a correre, è chiaro che lo fa perché vuole confondermi e vincere lei. E infatti, quando arrivo sul bagnasciuga, già tutta la marmaglia si schizza acqua da un pezzo. Arrabbiatissimo la cerco in mezzo alla schiuma. Niente. Giro lo sguardo verso la spiaggia. Una ragazza con i capelli lunghi corvini, che ci dà le spalle, sistema i vestiti su una stuoia. Però quella non è una ragazza e basta. Ha un costume azzurro che conosco. Addosso a un corpo, che ha in cima i capelli corvini di Germana. Tutti pezzi sparsi che non combaciano. Legati insieme a pezzi nuovi o, almeno, mai visti.

«Che hai da guardare?»

«Il costume. È quello del tuo compleanno.»

Si è quello. E allora?»

«È che fa caldo e io i capelli... cioè quest'anno... »

Per fortuna nell'ordine cosmico, questa cosa non doveva essere prevista. La luce, almeno, andava pianificata meglio. Diretta con maggiore attenzione verso punti meno confusi. Qualcosa o qualcuno, interrompe opportunamente la sequenza, precipitandomi all'indietro sott'acqua, sfumando il mio farfugliare in un rischio concreto di annegamento. A seguire solo fretta di recuperare la superficie, di dimenticare i costumi e i loro contenuti. E di tornare a respirare l'aria e gli schizzi d'acqua, illuminato solo dalla luce, nuova, del sole.

La figurina di ChimentiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora