2. C'è di peggio

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«Non puoi bere solo una tazza di acqua sporca, dopo non reggi fino a pranzo».

«Sono tesa, vomiterei tutto prima ancora che mi arrivi allo stomaco». Fu la mia ferma risposta, tuttavia portai lo stesso la tazza alle labbra e cominciai ad ingurgitare tutto senza fare altre storie, consapevole che in battaglie come quella mia madre avrebbe comunque avuto la meglio.

Lei mi osservò attentamente mentre svuotavo la tazza e quando buttai giù l'ultimo sorso sospirò pensierosa.

«Dovremmo contattare la psicanalista, prima che la storia degeneri ancora».

Riportai la tazza sul piattino. «Non serve» cercai di rassicurarla, con lo sguardo fisso sul fondo della tazzina in ceramica, dove i granelli di zucchero che non si erano sciolti affogavano in qualche goccia di tè con il latte. «Alla fine, è solo un po' di stress da trasferimento. Passerà».

Mia madre non disse nulla, si limitò a scrutarmi da dietro la caraffa di succo d'arancia disposta sistematicamente in modo che non mi guardasse diretta negli occhi, poi finì di bere il suo caffè e lasciò la cucina borbottando un «Okay» poco convinto.

Alla fine non è che credessi anche io alla mia versione della storia, solo mi ero stufata degli anni passati dagli strizzacervelli che non facevano altro che imbottirmi di pillole dicendo che ero stressata, non dovevo vedere film horror, dovevo dormire di più e cercare di avere lo stesso dei rapporti sociali con i miei coetanei.

Tante belle parole quanto però ovvie e banali; alla fine non arrivavano mai al dunque e mi rifilavano un nuovo farmaco che comunque non avrebbe avuto effetto.

Lasciai la cucina dove mia sorella, ancora nel mondo dei sogni, stava finendo di fare colazione, salii in camera e nel giro di venti minuti ero pronta per uscire di casa.

Solito trucco, soliti capelli sciolti, maglione scuro e jeans grigi.

Su ordine di mia madre tirai qualche colpo secco alla porta della stanza di mio fratello, che già di mattina presto suonava il suo basso elettrico con il volume al massimo, ma tanto sapevo che non mi avrebbe ascoltata o non avrebbe sentito comunque la mia vana protesta, quindi lo lasciai nel suo brodo e scesi le scale.

Arrivata alla porta d'ingresso salutai con un 'ciao' generale e, raggomitolata nel mio montgomery grigio, uscii finalmente di casa.

L'aria gelida di novembre mi travolse con violenza, obbligandomi a nascondere il mio viso fin sopra il naso nella sciarpa.

Alzai gli occhi verso il cielo e grossi nuvoloni grigi occuparono subito la mia visuale. Quasi sicuramente a breve avrebbe cominciato a piovere.

Cominciai ad incamminarmi verso la fermata dell'autobus, che raggiunsi neanche centro metri più avanti.

Trovai un po' di spazio su una panchina di pietra circondata da grossi vasi di fiori dall'aspetto curato ma ormai leggermente sciupati dal freddo. Mi sedetti, aspettando l'arrivo dell'autobus.

Forse una delle parti più seccanti di Winchester era l'inesistenza della metro, che invece ero abituata a prendere ogni giorno.

Dopotutto, non era molto grande come città. Mentre lo pensavo staccai un fiorellino bianco sciupato dal vaso e cominciai a privarlo uno a uno di tutti i suoi petali.

Prima però che potessi ridurlo a una spoglia corolla di un giallo spento l'autobus che avrei dovuto prendere fece capolino da dietro l'angolo.

Il bus rallentò e si fermò, piazzandomi esattamente davanti agli occhi la porta centrale.

Il mio sguardo notò subito il rassicurante spazietto in cui avrei potuto resistere per quella manciata di chilometri che mi separavano dalla scuola.

Nightmare Where stories live. Discover now