Capitolo I, sezione 1

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Nonostante quel giorno fosse cominciato nel migliore dei modi, quella megera aveva trovato comunque la maniera per farmi maledire tutto il Creato. Nulla di nuovo, tuttavia, lei era sempre stata così, possedeva una naturale inclinazione alla perfidia. A mio parere era stata adottata e i nostri genitori non ci avevano mai detto la verità. Ma perché nessuno mi prendeva sul serio quando lo dicevo ad alta voce? Era così evidente!

Mary Chloé Harris era, sfortunatamente per me, più grande di soli due anni e pretendeva che io la trattassi come un'adulta. Anche se, come testimoniava l'evento di quel pomeriggio di metà giugno, dimostrava di averne ancora cinque. Mia sorella si era sempre sentita un pelo - per usare un eufemismo - al di sopra di noialtri. La sua prosopopea era battuta solo da quella del pavone maschio nella stagione degli amori, ed era costantemente fomentata dal suo secondo nome, francese per origine, ma americano per vezzo. I miei genitori le avevano dato quel secondo, spocchioso nome perché desideravano per lei qualcosa di particolare e ricercato, uno che non si confondesse in mezzo a tutti gli altri negli appelli, ma che al contempo suonasse bene al fianco di "Mary"; dato che Antoinette sarebbe stato troppo ambiguo, i signori Harris pensarono bene di segnarla all'anagrafe con Chloé. E guai a toccarle l'accento su quella "e" troppo europea.

Chloé, come una casa di moda francese. Chloé, come un bacio a labbra chiuse. Chloé, come una nota delicata di un violino o il profumo di un lillà appena sbocciato.

Mary Chloé Harris non era mai stata nulla di tutto ciò.

Per quel pomeriggio mi ero aspettata una sviolinata simile da parte sua, già quando partii la mattina verso gli alberi immaginai cosa avrei trovato al mio rientro. Tanto per cambiare, la cara Chloé aveva detto a nostra madre che mi ero recata da sola nel bosco, cavalcando il vecchio Napoleon e allontanandomi più del dovuto. A rigor di adulta logica, una ragazzina di soli diciassette anni (oh, misericordia, e per di più di buona famiglia!) non poteva assolutamente permettersi di scorrazzare libera in sella a un mustang di quasi uno short ton, «Dio solo sa cosa le potrebbe capitare!» e inoltre: «Non sta bene!», come spesso affermava mia madre quando mi sorprendeva ad alzarmi la gonna sopra le ginocchia, per poter correre meglio quando giocavo con mio fratello Thomas. E così anche quella volta mi rifilò la stessa identica frase, dopo avermi fatto l'ennesima strigliata di capo sul portico davanti casa. Ah, quanta pazienza dovevo portare con lei! E avrei dovuto portarne per molto tempo ancora, dal momento che sposarmi non era assolutamente la mia priorità.

«Cynthia Veronika Harris!» tuonò furibonda.

Odiavo quando mi chiamava in quel modo: due parole terminanti con una "a" aperta erano troppe da sopportare in un solo nome; lo odiavo, al contrario di Mary, e mia madre fece finta di non saperlo anche quella volta. Ora che aveva catturato la mia attenzione, era libera di farmi innervosire ancora di più.

"Farmi innervosire" quel giorno pareva fosse diventato il passatempo più divertente per tutti. Non mi sarei stupita se, aprendo l'enciclopedia, avessi trovato "mia madre" o "donne conformiste" come sinonimo di "esaurimento nervoso".

«Quante volte devo ripeterti», vociò gonfiando il petto, «che non devi andare da sola in giro così! Neanche un'amazzone...» riprese fiato. «Potresti ferirti con un ramo, o cadere da cavallo ed essere calpestata in pieno volto! Rimarresti sfigurata a vita, Cindy, e nessun uomo si sognerebbe mai di prendere in moglie una ragazza sfregiata! Vuoi restare zitella per sempre, forse?» proferì quella domanda con l'ultima goccia di fiato, terminando in bellezza.

A quell'ultima frase alzai gli occhi al cielo, annoiata a morte da quella tiritera. Ormai era diventata un disco rotto che ripeteva sempre la solita strofa del pentagramma, peccato non fosse una dolce sinfonia.

Ahimè, indipendentemente dal tempo che sarebbe dovuto trascorrere, la mia pazienza aveva comunque un limite.

«Mamma, devi smetterla di preoccuparti così!» ribadii per l'ennesima volta. «Non sono più una bambina! So badare benissimo a me stessa e poi Napoleon è un cavallo affidabile», forse anche più affidabile di qualsiasi altro essere umano, avrei aggiunto. «Non mi importa di cosa blatera la gente. Quella avrebbe da ridire sempre e comunque, anche se andassi a offrirmi come infermiera volontaria in un ospedale da campo.»

La luce calda del tramontoWhere stories live. Discover now