Parte III

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A quanto pare avevano preso la cosa molto seriamente. Non salivano più i frattoni, la calce e i mattoni, ma solo materiale umano. Dovetti per forza chiudere le finestre e abbassare le tapparelle. Non riuscivo più ad ascoltare i miei pazienti perché l'occhio cadeva sempre su quel via vai di gente che saliva lassù da ormai quattro giorni. Mancava solo la biglietteria, ma era l'unica volta che il biglietto era gratis.

Un circo di gente che si metteva a ciondoloni vicino a lei. Sempre come lei. A parlare con lei. E una volta finita la seduta tornavano giù di nuovo. Più contenti di prima? Non era chiaro. Forse neanche a loro.

Iniziarono molto pochi, tipo due o tre persone al massimo, fino a formare gruppetti di sette, otto anche dieci, venti persone. E io ero solamente una spettatrice che in quei giorni aveva raccolto una cinquantina di biglietti, senza averne tenuto neanche uno.

Però mi turbava, era snervante.

Avrei potuto esserci anche io, ma l'agenda era piena di impegni e ogni secondo perso a guardare quella ragazzina era un secondo perso per chi aveva bisogno di me. Cercai di rimanere concentrata e non pensare troppo al caldo o ai discorsi che non potevo sentire. Dovevo chiudere.

Nel tempo quella ragazzina divenne mito. E successivamente uno scoop televisivo. Iniziarono a notarla redattori, giornalisti e altri curiosi. Così li chiamavo.

Come l'acqua del mare può essere cristallina e trasparente il giorno prima e sporca e sudicia il giorno dopo, allo stesso modo su quel piano in costruzione fu allestito un set televisivo. Qualche cinepresa, due o tre microfoni, un piccolo sistema di illuminazione che catturasse bene la sua immagine, monitor e casse acustiche. Tutto come se fosse al suo comando. Quella ragazzina per fortuna parlava e respirava. Non scriveva solo, ma vedeva tutto e dava indicazioni a tutti. Catturava l'attenzione. Era brava in questo.

Ma questo voleva dire che l'avrei vista in televisione, su qualche rete privata o pubblica. Dipende dall'importanza che poteva avere.

Il sabato ricevevo solo di mattina. Il pomeriggio potevo seguire l'eventuale diretta. E così fu.

Aspettavo quel momento da quando vidi per la prima volta quella felpa qualunque. Aspettavo il primo piano. Aspettavo di sentire la sua voce. Aspettavo di seguire il filo dei suoi discorsi, di vedere la faccia dell'altro interlocutore. Ero riuscita a non distrarmi durante le sedute alzando il tono della voce così da lasciar passare eventuali brusii.

Era tutto pronto.

Eccola lì. Di una bellezza folgorante. Non scostava mai la ciocca dalla fronte e guardava in camera con gli occhi mezzi chiusi, vividi e lucidi, azzurri e incantevoli.

Alzai il volume.

Non era la prima diretta, non c'era alcuna presentazione, ma avevo capito che si chiamava Miami, dieci anni appena compiuti. Le avevano riservato un grande spazio sul palinsesto per seguire le sue conversazioni con quelli che salivano lassù. Nessuno sapeva cosa avessero in comune quelle persone, ma certamente il biglietto era la sfida più ardua. L'abbinamento più difficile, tutto affidato al caso, senza dubbio. Non era scritto da nessuna parte.

Arrivò il primo.

Il signor Jeremy West, un musicista sulla sessantina che praticava molti generi, tra cui la musica contemporanea. Non era neanche di quelle parti. La voce si era sparsa molto in fretta. Si mise vicino a lei accovacciandosi con qualche acciacco. Con il suo biglietto sempre ben stretto.

Lei attaccò dopo qualche istante:

« Cosa c'è scritto? » il musicista spiegò il biglietto senza neanche guardarlo:

Non disperdere nell'ambienteWhere stories live. Discover now