Dopo essersi sottratte a forza di remi a Scilla e all'ingorda
Cariddi, le navi troiane, ormai in vista della costa
d'Ausonia, furono respinte dal vento sulle spiagge di Libia.
Qui, donandogli il proprio cuore, Didone accolse nella sua casa
Enea, ma poi non sopportando che il marito frigio
l'abbandonasse, in cima a un rogo eretto col pretesto di una sagra,
si gettò sulla spada e, ingannata com'era stata, ingannò tutti.
Lasciata la città da lei fondata in quella regione sabbiosa,
Enea ritorna nella terra di Èrice, presso il fedele Aceste,
e fa un sacrificio per onorare la tomba del proprio padre.
Quindi salpa con le navi, che Iride, fedele a Giunone,
per poco non ha bruciato, e oltrepassa il regno del figlio di Ippota,
le terre fumanti di zolfo ardente e gli scogli delle Sirene,
figlie dell'Achelòo. Poi, perduto il nocchiero, la flotta costeggia
Pròchite e Inàrime, nell'arcipelago brullo e rupestre
delle Pitecuse, così chiamato dai suoi abitanti.
Il padre degli dei infatti, non tollerando più gli spergiuri
e le frodi dei Cercopi, i misfatti di questa gente intrigante,
li trasformò da uomini in animali, deformandoli in modo
che apparissero insieme diversi e simili all'uomo.
Ridusse le membra, appiattì e rincagnò nella fronte
il naso, solcò il loro viso di rughe senili
e, coperto tutto il loro corpo di pelo fulvo,
li confinò in questa terra. Ma prima tolse loro l'uso
della parola, d'una lingua ferrata nei più turpi spergiuri:
soltanto di lamentarsi con rochi squittii lasciò facoltà.
Oltrepassate queste isole, lasciate le mura di Partenope
sulla destra, verso ponente la tomba del melodioso
Eolide e una contrada piena di paludi, Enea
giunge alle spiagge di Cuma e all'antro dell'antica Sibilla.

La prega di guidarlo nell'Averno sino all'ombra
di suo padre. La Sibilla, rimasta a lungo con lo sguardo a terra,
finalmente invasata dal dio, alza gli occhi e dice:
«Grande cosa chiedi, o eroe grandissimo per le tue imprese,
che in guerra hai brillato col braccio e in mezzo al fuoco
per pietà filiale. Non temere dunque, o Troiano: avrai
quello che chiedi e guidato da me vedrai la sede dell'Eliso,
l'ultimo regno del mondo, e lì l'ombra cara di tuo padre.
Nessuna via è preclusa alla virtù». Così dice e gli indica
un ramo d'oro che brilla nel bosco di Persefone,
la Giunone infernale, e gli ordina di staccarlo dal tronco.
Enea obbedisce e così riesce a vedere la terrificante
maestà dell'Averno, i propri avi e l'ombra del suo vecchio padre,
il magnanimo Anchise; apprende pure le leggi del luogo
e quali pericoli dovrà affrontare in guerre future.
Poi, risalendo il sentiero con passo stanco,
allevia la fatica conversando con la sua guida cumana.
E mentre in un livore d'ombre percorre quell'orrido tratturo:
«Io non so se tu sia una dea o solo diletta agli dei» le dice,
«ma per me sarai sempre un nume e sempre ti sarò riconoscente
per avermi permesso di scendere in questi luoghi della morte
e di sfuggirli dopo aver visto la morte.
Per questi meriti, quando sarò di nuovo all'aria sotto il cielo,
ti erigerò un tempio e ti onorerò con l'incenso».
La profetessa si volge a guardarlo e con un profondo sospiro:
«Non sono una dea» risponde; «non venerare con l'incenso sacro
un essere umano. E perché la cecità non t'induca in errore,
sappi che luce eterna e senza fine avrei potuto ottenere,
se la mia verginità si fosse concessa a Febo, che mi amava.
Nella speranza di ottenerla, corrompendomi con i suoi doni,
Febo mi disse: "Esprimi un desiderio, vergine cumana:
sarà esaudito". Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai,
chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita
quanti granelli di sabbia c'erano in quel mucchietto.
Sciocca, mi scordai di chiedere che anni fossero di giovinezza.
Eppure anche questo m'avrebbe concesso, un'eterna giovinezza,
se avessi ceduto alle sue voglie. Disprezzato il dono di Febo,
eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l'età più bella
mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un'acida vecchiaia,
che a lungo dovrò sopportare. Vedi, sette secoli
son già vissuta: per eguagliare il numero dei granelli,
trecento raccolti e trecento vendemmie devo ancora vedere.
Tempo verrà che la lunga esistenza renderà il mio corpo piccolo
da grande che era, e le mie membra consunte dalla vecchiaia
si ridurranno a niente. E non si potrà credere che m'abbia amata
un dio, che a lui sia piaciuta. E forse persino Febo
non mi riconoscerà o negherà d'avermi mai amata,
tanto sarò mutata. Alla fine nessuno più mi vedrà: solo
la voce mi rivelerà, la voce che il fato vorrà lasciarmi».
Questo raccontava la Sibilla lungo la ripida salita,
quando dalle profondità dello Stige l'eroe troiano emerse
nella città di Cuma. Fatti i sacrifici d'uso, scese
alla spiaggia che ancora non aveva il nome della sua nutrice.
Qui s'era fermato, dopo lunghe e penose avversità,
anche Macareo di Nèrito, compagno dell'ingegnoso Ulisse.

𝐌𝐄𝐓𝐀𝐌𝐎𝐑𝐅𝐎𝐒𝐈 ━ 𝐎𝐯𝐢𝐝𝐢𝐨Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora