come scellerate lo massacrarono, e da quella bocca, o Giove,
ascoltata persino dai sassi e intesa dai sensi delle fiere,
con l'ultimo respiro, l'anima si disperse nel vento.
Ti piansero afflitti gli uccelli, Orfeo, ti piansero branchi di belve,
le rocce immobili e le selve che un tempo seguivano il tuo canto:
senza più foglie, spogli, con la chioma rasa, gli alberi
espressero il loro lutto; e si dice che anche i fiumi crebbero
a furia di piangere, e che Naiadi e Driadi indossarono manti
velati di nero, lasciando spiovere sciolti i loro capelli.
Disperse intorno giacciono le membra: capo e lira li accogliesti
tu, Ebro; è un prodigio: mentre fluttuano in mezzo alla corrente,
la lira, non so come, flebile si lamenta, la lingua esanime
mormora un flebile gemito e flebili rispondono le rive.
Trasportati sino al mare, lasciano il fiume della loro patria
per arenarsi a Metimna sulle coste di Lesbo:
qui un feroce serpente si avventa contro il capo che, gettato
su quella spiaggia straniera, è ancora intriso di gocce fra i capelli.
Ma a quel punto Febo interviene e lo blocca mentre si appresta
a mordere, immobilizzando in roccia quelle fauci
spalancate, pietrificandolo, così com'è, a bocca aperta.
Sottoterra scende l'ombra di Orfeo, e tutti riconosce i luoghi
che aveva visto prima; poi, cercandola nei campi dei beati,
ritrova Euridice e la stringe in un abbraccio appassionato.
Qui ora passeggiano insieme: a volte accanto, a volte lei davanti
e lui dietro; altre volte ancora è invece Orfeo che la precede
e, ormai senza paura, si volge a guardare la sua Euridice.
Bacco però non permise che lo scempio rimanesse impunito:
addolorato per la perdita del cantore dei suoi misteri,
sùbito con grovigli di radici inchiodò nelle selve tutte
le donne di Tracia che avevano partecipato al sacrilegio.
Ad ognuna allungò, là dov'era al termine dell'inseguimento,
le dita dei piedi e ne conficcò le punte nella dura terra.
Come un uccello che posa le zampe sulla rete, con astuzia
occultata dal cacciatore, sentendosi preso si dibatte
e agitandosi convulsamente non fa che stringere le maglie,
così ognuna di loro, quando confitta al suolo vi aderì,
atterrita cercava invano di fuggire, ma tenace
la tratteneva la radice, impedendole i movimenti.
Mentre si chiede dove siano le dita, dove i piedi e le unghie,
vede ognuna salire il legno lungo le sue gambe affusolate,
e nel tentativo di battersi la coscia in segno di dolore,
picchia sul legno: e in legno si trasforma pure il petto,
in legno le spalle, e se tu avessi scambiato le braccia protese
per rami veri, non avresti sbagliato nel giudicare.
Non contento di ciò, Bacco abbandonò anche quelle contrade
e con seguaci più miti si recò nei vigneti del suo Tmolo,
vicino al Pactolo, fiume che a quel tempo non era ancora aurifero
e non era fonte di cupidigia per la sua sabbia preziosa.
Lì si radunò il suo solito séguito di Satiri e Baccanti;
mancava solo Sileno. Barcollante per gli anni e il vino,
l'avevano sorpreso i contadini della Frigia e inghirlandato
l'avevano condotto dal re Mida, che dal tracio Orfeo
e dall'ateniese Eumolpo era stato iniziato ai riti di Bacco.
Riconosciuto il vecchio amico e compagno di culto, Mida,
per la felicità del suo arrivo, aveva indetto una gran festa,
in onore dell'ospite, di dieci giorni e dieci notti.

E già in cielo per l'undicesima volta aveva Lucifero
disperso le stelle, quando, raggiante, nelle campagne di Lidia
giunse il re per riconsegnare Sileno al suo giovane pupillo.
Felice d'aver ritrovato il suo maestro, Bacco invitò Mida
a scegliersi un premio: facoltà lusinghiera, ma pericolosa,
perché il re non se ne avvalse con saggezza, dicendo: «Fa'
che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in oro fulvo».
Bacco esaudì il desiderio, sdebitandosi con quel dono, presto
fonte di guai, ma si rammaricò che non avesse scelto meglio.
Lieto, godendo a suo danno, se ne andò via l'eroe di Frigia
e prese a toccare ogni cosa per saggiare la parola data.
Quasi non credendo a se stesso, staccò dal ramo di un basso leccio
una frasca verdeggiante, e quella diventò d'oro.
Da terra raccolse un sasso e anche quello prese il colore dell'oro.
Tocca allora una zolla: al suo magico tocco la zolla diventa
una pepita d'oro; coglie aride spighe di grano:
un raccolto d'oro; stringe un frutto colto da un albero:
lo si direbbe un dono delle Espèridi; se poi accosta
le dita in cima a uno stipite, quello appare tutto sfolgorante.
Persino quando si lava le mani in acqua limpida,
quell'acqua, fluendo dalle sue mani, potrebbe ingannare Dànae.
Immaginando d'oro ogni cosa, non riesce più a nascondere
le sue speranze. E mentre esulta, i servi gli apparecchiano
la tavola, imbandendola di vivande e pane tostato.
Ma, ahimè, ora, come tocca i doni di Cerere
con la mano, quei doni diventano rigidi; se poi
avidamente cerca di lacerare coi denti una vivanda,
appena l'addenta una lamina d'oro ricopre la pietanza;
mischia ad acqua pura il vino del suo benefattore Bacco:
oro liquido gli avresti visto colare in bocca.
Sgomento per quell'inattesa sciagura, ricco e povero insieme,
vuol sottrarsi all'opulenza e odia ciò che aveva un tempo sognato.
Tanta abbondanza non può sedargli la fame, arida di sete
gli arde la gola e, come è giusto, è tormentato dall'odio per l'oro.
E allora, levando al cielo le mani e le braccia brillanti, esclama:
«Perdonami, padre Bacco, ho peccato, ma abbi compassione,
ti scongiuro, liberami da questa fastosa indigenza!».
Mite è il verdetto divino: poiché riconosce d'aver sbagliato,
Bacco lo rende com'era, annullando il dono concesso per obbligo.
E gli dice: «Perché tu non rimanga invischiato nell'oro
mal desiderato, rècati al fiume vicino alla grande Sardi
e cammina in senso contrario alla corrente, verso i gioghi
del monte, finché tu non giunga alla sorgente, e lì,
dove sgorga più intensa, poni il capo sotto gli zampilli
della fonte e lava insieme al corpo la colpa».
Il re ubbidì andando sotto l'acqua: l'aurifera facoltà
colorò la corrente e dal corpo umano passò al fiume.
Ancor oggi le rive, assorbito il germe di quell'antica vena,
si ergono dure e pallide con le loro zolle impregnate d'oro.
Tediato dalla ricchezza, Mida viveva in campagna e tra i boschi,
onorando Pan, che ha la sua dimora negli antri dei monti.
Ma era sempre un essere grossolano e per la testa gli passavano
tali sciocchezze che, come innanzi, gli avrebbero attirato guai.
Dominando dall'alto la vastità del mare, ripido si erge
in altezza il monte Tmolo e con le sue pendici estese, da un lato
si spinge sino a Sardi, dall'altro sino alla minuscola Ipepe.

𝐌𝐄𝐓𝐀𝐌𝐎𝐑𝐅𝐎𝐒𝐈 ━ 𝐎𝐯𝐢𝐝𝐢𝐨Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora