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Era mattina, di nuovo.
Doveva stare in città, in mezzo alla gente, di nuovo.
Le giornate avevano quell'odioso vizio di ripetersi, ogni giorno più uguali e più finte, come solo per il gusto di sottrarle tempo prezioso in cui si sarebbe potuta dedicare a ciò che le importava davvero. Che cosa?
Be', questo forse non lo sapeva nemmeno lei, in effetti non aveva chissà quali hobby, né faceva sport.
Le piaceva solamente dormire, disintegrarsi le retine per ore davanti al computer e... era troppo pigra addirittura per pensare che cos'altro le piacesse fare. Non si era mai soffermata a fare una lista delle sue attività abituali, giusto per ridere di se stessa nel vedere come era in grado di sprecare la sua vita, lei le cose le faceva e basta.
In ogni caso, però, Agnese sentiva un gran bisogno di tempo, come una vecchia consapevole di dover morire a breve. Effettivamente si sentiva vecchia dentro, non aveva quella voglia di fare baldoria e mettersi nei guai tipica degli adolescenti, amava la tranquillità, la solitudine, l'equilibrio.
La sua anima avrà avuto 90 anni, il suo faccino tondo e il suo corpicino esile non ne dimostravano, a parer suo, più di 13, mentre i documenti si ostinavano a dire che ne aveva 16.
Mah, convinti loro.
Accennò una smorfia nel momento in cui le cuffiette iniziarono a pomparle nelle orecchie una canzone che non aveva voglia di ascoltare.
Grugnendo infastidita, premette il tasto per andare avanti, ma non le andava nemmeno il brano successivo. Continuò a cliccare nervosamente, finchè, prima di rompere l'apparecchio, si rassegnò a mettere in riproduzione la vecchia cara playlist dello Zecchino d'Oro.
Guardò la città sfilare frettolosa fuori dal finestrino del tram.
Gli edifici sembravano le proiezioni della gente che brulicava ai loro piedi, le ombre dei cittadini: una villetta residenziale in mattoni pareva un anziano signore assonnato, che sopportava a fatica la baraonda urbana; un palazzone popolare mezzo disfatto, con i balconcini identici replicati su tutta la facciata a dare la parvenza di un alveare, pareva una madre povera in mezzo ai suoi bambini urlanti vestiti con abiti rattoppati; un grattacielo altissimo, moderno, tutto a vetri, chiara creazione di qualche architetto dell'alta società, sembrava un uomo d'affari in giacca e cravatta, pronto a recarsi nell'ufficio di qualche altro imprenditore pieno di soldi; e una palazzina all'angolo... accidenti a quella palazzina, ogni mattina segnava la fine della pace.
Sembrava un professore con in mano la sua cartellina di compiti che 'non ha mai il tempo di correggere', col dito puntato dietro l'angolo della strada come a dire:
"Salve Agnese, finalmente sei arrivata. Proprio qui dietro c'è la tua scuola, scommetto che non vedi l'ora di entrarci e di passarci sei entusiasmanti ore! Buona giornata!"
Che seccatura. Perchè il tragitto in tram non poteva durare in eterno? Era così rilassante sentire i sistematici scossoni e il rombo metallico del mezzo sulle rotaie, sembrava di essere in una culla.
Eppure, anche il suo amato treno pareva essere in combutta con il professore-palazzina. Si fermò di fronte ad un grande edificio dai muri color crema e aprì le porte.
Agnese sbuffò, si caricò lo zaino in spalla e scese, dirigendosi verso l'istituto col passo meno stanco e dondolante possibile.

Quando arrivò in classe, che per qualche scatto di benevolenza dell'universo era al pianterreno, Agnese salutò i compagni già presenti con un sorriso sereno e un "Ciao" sonoro, mentre sbatteva la cartella sul suo banco in seconda fila con la grazia di un cavernicolo.
Ricevette qualche cenno e angolo di bocca arricciato all'insù in risposta.
"Oi, Agna!"
Sentì mentre sistemava su quella lastra mista di compensato e cicche secche l'occorrente per la prima ora di lezione: la piaga del triennio, meglio conosciuta come filosofia.
"Oh, ciao!"
Fece voltandosi leggermente e tirando una pacca amichevole sulla spalla della compagna.
"Allora, Bea, hai già mal di pancia per l'interrogazione di arte?!"
"Non me ne ricordare, ti prego, che devo resistere le prime cinque ore senza dare di stomaco!"
"Dai, dai, io ci sono passata ieri e sono ancora viva e vegeta. Pensa che è l'ultimo giro e che se ti offri poi non devi più studiare per tutto il quadrimestre. Così in gita ti riposi invece di fare sessioni notturne di studio e rituali satanici come gli altri per salvarti la media!"
Bea ridacchiò.
"A proposito di gita..."
La ragazza appoggiò una cartellina verde ricolma di fogli dall'aria formale sopra ai libri dell'altra.
"Ti ricordi per caso che cosa devo portare in segreteria oggi?"
Il viso di Agnese si contrasse immediatamente nell'espressione di un cane che sa di stare per essere bastonato.
"Autorizzazione dimenticata di nuovo, eh?!"
Agnese annuì meccanicamente, con un sorrisetto di plastica dipinto sul volto.
Che poteva farci? Era una ragazza diligente, simpatica, benvoluta, ma con la burocrazia proprio non c'erano speranze. Mai una volta che si ricordasse di far firmare una circolare e di riconsegnarla a scuola entro i tempi fissati.
Beatrice lo sapeva bene ed era principalmente per rimediare alle dimenticanze dell' amica svampita che aveva accettato di diventare rappresentante di classe.
"Va be', va be', non c'è da stupirsi..."
Proseguì passandosi una mano nel caschetto biondo.
"La segreteria chiude alle quattro, se riesci ad andare a casa e a portarlo firmato entro quell'ora..."
"L'ho perso."
"Sul serio?"
"Sì."
"Wow, hai superato te stessa. Fortuna che ci sono io..."
Beatrice tirò fuori un modulo vuoto e una penna.
"Te lo compilo io?"
"Sì, grazie."
"Nome: Agnese.
Cognome: Smirnov.
Data di nascita: 04/09/2002.
Classe: 3°F.
Nome e cognome madre?"
"Lidia Smirnov."
"Ok. Padre?"
Prima che Agnese potesse dire qualunque cosa, Beatrice arrossì e tirò una riga frettolosa sulla sezione dell'altro genitore.
"Ah, no, scusa."
Farfugliò.
"Allora tieni, manca solo la firma di tua mamma."
Le passò il foglio e si alzò velocemente, con l'aria di chi ha appena fatto una gaffe.

Altra cosa che Agnese non aveva in comune con gli altri adolescenti:
la necessità farsi commiserare, di lamentarsi, di sentirsi tutto il mondo addosso.
Per lei non aveva senso.
Il mondo è talmente grande che è statisticamente impossibile trovarsi ad un estremo: c'è sempre qualcuno che sta meglio e qualcuno che sta peggio, qualcuno più bravo e qualcuno meno bravo, qualcuno più fortunato e qualcuno meno fortunato.
Non aveva mai sentito il bisogno di vittimizzarsi per il fatto essere senza padre o di far sentire insensibili le persone che incappavano per sbaglio nell'argomento.
Francamente, non gliene poteva importare di meno.
Suo padre non se lo ricordava, non le era mai mancato, non ne sentiva il bisogno, non le dava fastidio o tristezza pensarci, quando raramente le capitava.
Non sopportava che le persone lo vedessero come un tabù, che pensassero che per lei fosse un tabù.
Però la gente ha questa tendenza, di ostentare i propri problemi, di piangersi addosso dandosi un'aria d'importanza per le disgrazie che passa.
Agnese comprendeva come fosse un comportamento evidentemente intrinseco nella natura umana, ma non riusciva a non disprezzarlo.
Non si sarebbe mai atteggiata a povera disgraziata, vittima di chissà quale infanzia traumatica o situazione familiare difficile, perchè non lo era, non lo era per niente.
Lei era Agnese, una ragazza moderata, a cui non interessava apparire diversa tra mille altre, consapevole delle dinamiche e della grandezza del mondo.
Aveva quel po' di sano menefreghismo necessario a non farsi più problemi di quanto non fosse strettamente indispensabile, non aveva intenzione di disturbare nessuno e se ne stava a suo modo in pace con la propria vita, ma qualcuno faceva ancora fatica a capirlo.

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▪Spasibo▪Where stories live. Discover now