Capitolo 00

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Parole.
Ninnoli incatenati s'una frase.
Le cerco, affinché siano efficaci. Ma non lo sono mai veramente. Perché le parole non hanno davvero significato. Sono una sterile sequenza di simboli, cui noi diamo una parvenza di lucidità. Eppure sono l'unico modo per esprimerci. Per spiegare e dare ordine al caos, all'entropia che abbiamo dentro.

Ecco, è proprio ciò che devo fare ora: spiegare. Ma è veramente possibile spiegare l'inconcepibile in modo credibile?

Da perdere non m'è rimasto nulla. Striscio sul fondo del barile, ormai. Unghia rotte a furia di raschiare.
Ci provo comunque, a dare una parvenza di realtà a ciò che invece è stata pura illusione. Materializzare un sogno... si può?

«Cosa penseresti se ti dicessi, così all'improvviso, che i tuoi due ultimi mesi di vita sono stati un'illusione?»

Lei non risponde. Statua della più bella cera mai vista. Non un movimento a tradire la sua imperturbabilità. Niente scuote il suo sguardo, costruito su iridi di carbone e bordati da sfumature di limpida notte.

Non mi vede. Mi guarda.
Non mi sente. Mi ascolta.
E io parlo, per me e per lei.

«Secondo te qual è la differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è?»

Ancora nemmeno una parola, dalle sue labbra disegnate e carnose. Belle. Belle che le ho baciate tante di quelle volte...

«Immagino sia facile pensare a una questione di sensi, di sensazioni. Ma anche nei sogni le sensazioni sembrano reali, almeno fino a quando non ti svegli. Quindi... qual è il discriminante?»

Affila lo sguardo. Capisce di cosa parlo, ma la incuriosisco comunque. La cosa che stupisce me e come faccia a saperlo. Ma... è normale, lei sa sempre tutto.

«So che può sembrarti assurdo e credimi, al posto tuo scapperei a gambe levate, ma ciò che sto per raccontarti non è altro che la pura verità.»

La statua si muove. Curva mezzo sorriso, porta dietro l'orecchio una ciocca del suo taglio corvino assimetrico e, con la stessa mano, accomoda il mento in posizione d'attesa. D'ascolto pensante.

«È cominciato tutto una sera di due mesi fa. Una sera che non mi andava di rientrare a casa, dopo il lavoro...»

*

Ventitre e dodici.
Notte calda di metà settembre. Silenzio che dorme tra asfalto e palazzi, stuprato di tanto in tanto dalla sirena di un ambulanza o dall'autoradio a palla del tamarro di turno. Cammino senza meta, senza sapere dove andare o da chi.

Al rientro dal lavoro ho parcheggiato l'auto e sono sceso. Dovevo rincasare ma all'ultimo le gambe si sono mosse nella direzione opposta. E invece d'imboccare il vialetto che mi avrebbe condotto al portone, mi hanno masticato e sputato per strada.

Accendo la terza sigaretta. La terza da quando ho lasciato il parcheggio. Ultima testimone d'un pacchetto che non c'è più. Devo andarle a comprare.

Cambio direzione, svolto a destra imboccando via Salinella. C'è un bar-tabacchi, tre angoli più giù, aperto tutta la notte. Una "phalenopsis", di nome e di fatto...

Mi faccio un caffè, visto che ci sono.

Arrivo. Entro.
Al bancone.

La barista è carina: una biondina rotonda e dal viso simpatico, sulla ventina. Forse meno. Ha le guance rosse e una carnagione lattacea. Mi chiede cosa prendo.
«Un ristretto» rispondo.

Sorridendo, poggia sul bancone davanti a me piattino e cucchiaino. Ricambio di cortesia.
Dopo pochi secondi, adagia la tazzina con il mio espresso. Stretto, come il nodo che ho in gola.
Zucchero, piange il mio umore. Come si fa con i morti.

«Serata umida» dice lei, guardando fuori e attraverso le porte a vetri del bar.

Seguo la direzione indicata dai suoi occhi.
Si riesce a scorgere la luce arancione dei lampioni, patinata di bruma semi-autunnale.
«Già...»
Le rispondo, assente.

Giro il caffè più a lungo del dovuto, distratto dalla danza spiroidale di una falena attorno all'insegna del bar. Pare usino la luna per orientarsi e che la confondano con le luci artificiali.

Vivere mediamente due o tre settimane inseguendo la luna non dev'essere poi così male, specie se ti convinci essere capace di afferrarla...

«Tra un po' le fai il buco!»

Mi volto verso la barista. Non ho capito che ha detto.

«Come?»
«Il caffè... se continui a girarlo, farai un buco nella tazzina.»

Le sorrido, fingendo divertimento, e scendo dalla giostra in loop che mi gira nel cervello.
Bevo.
Non è male, c'è di peggio. La ragazza ha margini di miglioramento ma tutto sommato se la cava.

Cerca di attaccare bottone a tutti i costi e in un modo talmente insistente che quasi m'infastidirebbe, non fosse così simpatica e spumeggiante.

Parla.
Parla davvero tanto.
Parla del tempo, parla del lavoro, parla di tutto ma di nulla.

Mi stona terribilmente, solitamente non faccio questo effetto alle ragazze e non sono per niente abituato. Però la lascio fare e non so perché.
Parla così veloce che non recepisco nemmeno il cinquanta percento dei suoi discorsi. Ciononostante, non stacco nemmeno per un momento gli occhi dai suoi. Sono belli, di un verde intenso e cangiante. Anche se preferisco gli occhi scuri.

Mi appoggio al bancone, mento sul palmo sinistro. Dita strette sulla guancia, barba incolta che solletica i polpastrelli. Ho dimenticato di radermi, tanto per cambiare. Lo scopro solo adesso, come sempre troppo tardi.

Lei continua a parlare senza ritegno di ogni cosa che le passa per la mente. E non accenna a fermarsi, benché le uniche parole che le abbia rivolto siano state "un ristretto", "già" e "come". Non le ho detto nemmeno il mio nome. Lei invece si è presentata, si chiama Giada. Ma lo sapevo già, il suo nome, scritto a caratteri dorati s'una targhetta appesa alla sua divisa.

E mentre penso che non è molto carino etichettare i dipendenti come fossero animali domestici, lei mi atterra. Cioè proprio mi fa colare a picco, con una domanda che non m'aspettavo minimamente. E nonostante l'abbia sparata veloce, come un colpo di pistola o lo schiocco di una frusta, sono riuscito ad afferrarla al volo.

«Stacco a mezzanotte. Ti va di bere qualcosa, dopo?»

Giro il polso per guardare l'ora e mi sento colpire nel bel mezzo dei sensi.
Mancano venti minuti a mezzanotte, ma non è quello ad avermi colpito. E non è stato neanche l'orgoglio di aver ricevuto un tentativo così sfacciato di rimorchio.

È qualcosa di giallo, metallico e luccicante, s'una delle mie dita. Mi sta guardando in cagnesco, ringhiando sull'uscio delle promesse.

Prima volta che mi trovo di fronte un dilemma del genere. Una di quelle proposte che non accetteresti ma che vorresti. Troppo grande e difficile è il dover scegliere se rotolare giù lungo la caverna delle meraviglie o non far mancare l'appoggio ai piedi della vita.

Non sono in grado di scegliere. Deve scegliere qualcuno o qualcosa, per me. Cerco una moneta nelle tasche, nel portafogli, ma nulla.

Poi, l'illuminazione. Sfilo la fede e, come fosse una moneta, la faccio piroettare rapidamente sul bancone davanti a me.

Osservo l'espressione divertita di Giada, la quale aveva notato l'anello prima ancora che lo sfilassi. Aveva sfoderato la sua avanche perfettamente consapevole della sua presenza. La cosa sembrava non le importasse molto o, quantomeno, non sembrava turbarla affatto.

Continua a trottolare, sul bianco lucido e perfettamente levigato. Decido che se dovesse fermarsi e cadere dritta, ossia con il nome al suo interno rivolto correttamente, avrei accettato quell'invito.

Quando finalmente si ferma, controllo subito l'esito e la rimetto al suo posto. Nel suo profondo solco sull'anulare sinistro.

«Magari la prossima volta...»

Le sorrido, abbandonando il bar.

Take On Me [Completa - In Perpetua Revisione]Where stories live. Discover now