Capitolo 7 - Intervento psichico

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 "Dai, Max! Il sole sta per tramontare. Dobbiamo prendere il pallone, altrimenti la mamma ci sgriderà."

"Non lo so, Tudor. È proibito scavalcare le mura."

"Ma ci metteremo un attimo. Mamma non ce ne comprerà un altro."

"E va bene, T. Ma lo prendiamo e corriamo a casa. Non mi va più di giocare."

C'era un motivo se le mura della cittadella di Tylus erano basse e non sorvegliate dall'esterno, ma Tudor e Maximilian non lo conoscevano ancora. Avevano sentito parlare di quel posto svariate volte e sempre con timore, ma in quel momento ogni avvertimento si era dissolto dai loro ricordi. Lo volevano indietro, quel pallone. Era il loro unico svago pomeridiano, dopo la scuola, e non volevano fare arrabbiare la loro mamma, tornando senza. Pensavano già a quando le sarebbero saltati addosso, alla cena, poi al bagno caldo, alle coperte rimboccate e alle favole prima di sprofondare in un lungo sonno.

Sarebbe stato un gioco da ragazzi.

E così le loro sagome erano scomparse dalla città di Artenia, lasciandosi alle spalle il fresco sapore dell'innocenza. I loro volti erano tinti di un allegro rossore e la pelle velata dal sudore; ma il brivido dell'avventura era stato spento all'improvviso dalla paura. Un branco di lupi li aveva accerchiati richiamando l'attenzione delle truppe del sovrano Tylus. I due bambini erano stati portati nella sala del Trono, processati e spediti su Tazàn, il pianeta dei prigionieri, e costretti a lavori pesanti, quando non venivano presi in prestito da squallidi uomini che sperperavano il loro fiume di monete per appagare i loro desideri più oscuri.

Tudor e Maximilian erano a un tratto cresciuti; avevano imparato che la vita non è come la si legge nei libri per bambini. Tutte le loro certezze erano crollate in un istante e l'unica consapevolezza era amara. Da quella sera non ci sarebbe più stato nessun bagno caldo, nessuna favola, nessuna mamma.

"Guarda, T!" esclamò Max, riportando Tudor su Artenia. "Si sta estendendo!"

Tudor posò gli occhi su Tobia, e notò che l'evanescenza si era diffusa dall'addome fin sotto le ginocchia. Allarmato, poggiò una mano sulla fronte del ragazzo. La febbre si era abbassata, il corpo aveva una temperatura regolare; i vestiti puliti erano umidi di sudore e dovevano essere cambiati con indumenti freschi. La medicina aveva funzionato, tuttavia il ragazzo andava smaterializzandosi man mano che passava il tempo. Pensò che non c'era cura che potesse rimettere a posto le cose, che Tobia dovesse tornare subito sul suo pianeta, che portarlo su Artenia era stato uno sbaglio. No!

Maximilian poteva scoprire cosa tormentava Tobia. Il suo dono! Lo aveva portato da lui per un motivo.

"Non ci avrei mai creduto," disse Max spostandosi in avanti con il busto "se non lo avessi visto con i miei occhi." Rilassò la schiena sullo schienale della carrozzina e prese ad accarezzarsi il pizzetto con aria pensierosa. "Questa è davvero una proiezione del corpo originario. Gli unici a esserne capaci erano gli dèi dell'universo superiore Nam. Pensavo che fosse rimasto solo Kur, adesso, a possedere questa capacità. T, sai da dove arriva il ragazzo?"

"Da un pianeta chiamato Terra" rispose Tudor, accigliando lo sguardo. "Sarebbe meglio se ricominciassimo daccapo, Max. Ho la sensazione che siano molte le cose che io non so, e fra un po' non riuscirò più a seguirti."

Maximilian si passò una mano tremante sulla fronte, come se a un tratto si sentisse in difficoltà.

"È successo tutto così in fretta" disse poi con un sospiro, fissando il pavimento. "Cinque giorni, un tempo davvero breve per demolire il cuore di miliardi di persone. Forse dovrei cominciare dall'inizio, sì! Sarà meglio fare così."

Tobia Muna e la fine di NamDove le storie prendono vita. Scoprilo ora