Capitolo 3 - La finestra galattica

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Il tavolo e le sedie su cui erano seduti Tudor e Tobia presero a tremare, e fuori si alzò un forte vento che generò turbini di foglie. I due si guardarono inarcando le sopracciglia, intanto che i bicchieri vuoti e la bottiglia piena per metà vibravano in mezzo a loro; poi il vecchio volse la testa verso la finestra a un tratto rabbuiata. Sembrava che il sole fosse stato coperto da un mantello di nuvole temporalesche.

"Strano!" meditò Tudor. "La stagione delle piogge è terminata da un pezzo. Cosa sarà?"

Tobia avvertì un vuoto allo stomaco e il respiro gli venne a mancare per un istante; chinò il volto e osservò la porzione trasparente del suo addome, ma non era quello il motivo del suo malessere, e nemmeno l'eventualità che fuori stesse per accadere qualcosa di spiacevole. Tobia si sentiva nuovamente schiacciato da quella presenza dall'odore fetido che gli bisbigliava strane parole alle orecchie. Era dentro di lui e si muoveva a fatica, come se si volesse espandere ma non avesse spazio a sufficienza. Un cucciolo di squalo rinchiuso in una vasca in attesa di essere liberato nell'oceano. Ma se non fosse riuscito a liberarsene? Tobia strinse le palpebre e si aggrappò con entrambe le mani al bordo del tavolo, cercando di fare resistenza.

Nel frattempo Tudor si era alzato dalla sedia sostenendo il peso del suo corpo con il bastone e si era diretto verso la finestra. Il sole era coperto da una gigantesca nave spaziale di colore nero lucido che scivolava nell'aria con una traiettoria verticale e si avvicinava al terreno con una maestosità unica. Il motore produceva un rumore sommesso, come il fischio del vento che viaggia su una pianura vasta e spoglia, ma la sua potenza continuava a far brontolare la terra e a generare turbini d'aria che, da lì a breve, avrebbero reso di cartapesta l'intera area colorata di fiori, alberi e piante.

"Che disastro!"

Tudor tentò di capire a chi appartenesse quell'astronave, quindi scorse lo sguardo sul simbolo della casata galattica stampato sul lato destro del velivolo, tre grandi spirali bianche disposte a triangolo e collegate tra loro dall'estremità esterna di ognuna. Non l'aveva mai visto prima, ma non aveva importanza, giacché sapeva cosa stessero cercando.

"Sono qui per te!" disse con voce ferma.

Tobia provò una fitta di dolore dentro al cranio e, con un grido strozzato, domandò: "Chi?". Poi scivolò dalla sedia e cadde con un tonfo sul pavimento, portando le mani alle orecchie. Il bisbiglio acuminato di quella presenza non voleva cessare. Tudor si girò di spalle sbarrando gli occhi e con uno scatto innaturale per la sua età si precipitò sul ragazzo, che si dimenava per terra.

"Che ti succede?" gli chiese piegandosi sulle ginocchia e mollando la presa sul bastone. Le mani erano a pochi centimetri dal corpo del giovane, come se avesse paura di toccarlo.

"La testa!" bisbigliò stridulo Tobia, stringendo più forte le orecchie. "Mi sta scoppiando." Si prese una pausa in cui, con i denti stretti e un'espressione agguerrita, schiacciò quella voce che serpeggiava in ogni angolo della sua mente, dopodiché continuò in un sussurro: "C'è qualcuno che mi parla in una strana lingua e le sue parole fanno male, pungono come chiodi".

Sulla fronte del vecchio apparvero numerose goccioline di sudore.

"Non hai più tempo, ragazzo!" esclamò Tudor. "Di chiunque sia la nave spaziale che sta per atterrare sulla mia terra, è chiaro che vogliono te. E se sono loro a provocarti questo, allora dobbiamo andarcene, e subito."

Nell'udire la parola "nave spaziale", Tobia si rannicchiò in posizione fetale e la faccia gli si contrasse in una smorfia di pianto. Il bisbiglio era cessato di punto in bianco, ma la sua testa rimbombava di dolore e paura, e per un attimo considerò l'idea di chiudere gli occhi e lasciarsi andare a un lungo sonno. Tuttavia il ricordo nitido dei suoi genitori affiorò in quell'istante ed egli provò tanto rammarico.

Pensò alle sue ultime ore trascorse sulla Terra, alla discussione violenta avuta con il padre in merito alla decisione di voler abbandonare l'azienda di famiglia e di realizzare il suo più grande sogno; visitare i posti più belli al mondo e disegnarli su tela, o magari sulle pagine di un libro, o addirittura pubblicare un fumetto basato sulle sue avventure, o inventarne di strabilianti e ambientarle in giro per il pianeta. Poi, tra i vari ricordi, arrivarono le lacrime aggrappate agli occhi lucidi della madre e provò un rimorso tremendo. Con uno sforzo, quasi tra sé e sé, disse: "Voglio tornare a casa!".

La terra smise di tremare in quell'istante e la finestra tornò a brillare dei colori del cielo. Le raffiche di vento si erano placate di colpo. Tudor afferrò Tobia e lo tirò su con una forza notevole, poi con un piede colpì il bastone e lo fece roteare in aria afferrandolo al volo con una mano.

Tobia ebbe un capogiro che gli procurò un senso di nausea. Le pareti gli sembravano danzare intorno e mischiarsi all'arredamento della casa. "Tu..." biascicò, cercando di non perdere i sensi, con lo sguardo basso, "chi sei tu?"

"Oh, ragazzo!" disse il vecchio, poggiando il dorso della mano sulla fronte di Tobia. "La tua testa scotta!"

Tobia fissò Tudor con gli occhi socchiusi, fece un sorriso poco pronunciato che trasmise al vecchio un brivido lungo la schiena, e svenne. Adesso il corpo del ragazzo era diventato molle e sembrava pesare il doppio, e Tudor lo sosteneva con grande sforzo.

Il padrone di casa fece un lungo sospiro e in quel momento capì che Tobia portava con sé un grande fardello. Poco prima che la casa cominciasse a tremare aveva detto al ragazzo di aver trovato la soluzione e, ora più che mai, ne era convinto. Il pianeta Terra non era stato distrutto, perché altrimenti Tobia si sarebbe riunito alla materia primordiale dell'universo; inoltre Tobia non era morto nel sonno, poiché in tal caso la sua anima avrebbe perso di consistenza in un lasso di tempo molto breve. Dunque quella che vedeva davanti a sé non era l'anima di Tobia, ma la proiezione del suo corpo.

Tudor non aveva mai visto nulla di simile in tutta la sua vita, ma d'un tratto ricordò di aver sentito parlare, nella sua giovinezza, di un antico popolo in grado di viaggiare da una galassia all'altra creando copie del proprio corpo originario, e di lasciare quest'ultimo dormiente sul pianeta nativo. Il guaio era che non ricordava il nome di tale pianeta, né del popolo che lo abitava, né aveva più sentito parlare dell'argomento in questione. Pensò che c'era un motivo se tra gli innumerevoli pianeti di ogni settore dell'universo fosse toccato a lui occuparsi di tale fardello, e a quel punto si sentì in dovere di prendere una decisione che avrebbe cambiato la sua vita e quella del ragazzo.

D'altro canto non aveva intenzione di trascorrere quanto gli restava da vivere rinchiuso in quella casa, tra i ricordi, le foto e i fiori che rievocavano nella sua mente il profumo della moglie defunta.

Avrebbe voluto avere il tempo di vendere tutto e racimolare l'intero patrimonio lasciatogli da Ginevra, ma sapeva di non averlo. Sarebbe tornato a sistemare la faccenda, pensò. E chissà cosa gli avrebbero offerto i giorni futuri d'ora in poi. All'improvviso, al di fuori della sua dimora, si levò un tonfo sordo.

"L'astronave!" bisbigliò tra sé e sé. "Chi ti sta cercando e per quale motivo, ragazzo?"

Tudor afferrò un braccio di Tobia e se lo mise intorno al collo, e con fatica trascinò entrambi davanti alla parete contro cui era poggiato il suo comodino.

Tossì tre volte e da una porzione pentagonale della parete fuoriuscirono scie luminose di colore giallo, verde, rosso, blu e di tanti altri toni che si mescolarono tra loro fino a raffigurare lo spazio infinito del cosmo.

"Asterisco, uno, due, tre, quattro, asterisco, tartaruga, cervo volante, cancelletto" disse Tudor.

La parete risucchiò il pentagono luminoso con un fruscio, dopodiché espulse un carrello di legno con dentro una boccetta di vetro contenente un liquido blu notte. Tudor la afferrò, poi si voltò di spalle insieme a Tobia e la lasciò cadere per terra a un metro dal corpo. Il vetro si frantumò in tanti pezzettini e il liquido evaporò sul pavimento fino a scioglierlo e a formare una finestra galattica grande abbastanza per ospitare entrambi.

Sopra il cerchio blu notte apparve una scritta bianca ondeggiante: "Inserire destinazione".

"Destinazione Artenia!" esclamò Tudor.

La finestra galattica cambiò di colore e divenne verde smeraldo.

"Ci siamo!" sussurrò Tudor per farsi forza, e afferrò la sua giacca a vento distesa sul letto.

"Chiunque voi siate, avrò il mio caffè!" Poi strinse forte a sé il bastone, la giacca e il ragazzo, e si tuffò.

Tobia Muna e la fine di NamWhere stories live. Discover now