8. L'angelo del ghetto (II)

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«Venice Winters» rispose di getto. Stranamente, tra tutti i cognomi tra cui avrebbe potuto scegliere, le venne in mente proprio quello dei suoi vicini.

«Piacere, Venice Winters. Io sono Xavi».

«E non ce l'hai un cognome, Xavi?» lo provocò la ragazza, arricciando le labbra furbescamente.

L'altro sogghignò. «Xavi Karev. Non è di certo un cognome che ho piacere a svelare, ma probabilmente a te non dice nulla».

Camelie scosse il capo confusa.

«Meglio così. Vuol dire che non hai pregiudizi nei miei confronti».

Qualsiasi pregiudizio difficilmente avrebbe offuscato l'effetto che il fascino di Xavi Karev aveva su di lei. In quel momento, Camelie non si sarebbe stupita se un paio di ali nere fossero spuntate improvvisamente dalla sua schiena muscolosa. Nere, perché si trovavano pur sempre nel ghetto. La ragazza non poteva di certo dimenticare in dieci minuti i racconti che aveva sentito per anni su quel luogo sospeso tra terra e inferno.

Una persona per bene non avrebbe mai accettato di vivere nel quartiere più malfamato dei Nilemouth, Xavi Karev non poteva di certo essere l'eccezione. Eppure non sembrava pericoloso. Ed era divinamente bello.

«Avrai però una marea di pregiudizi sul circo» riprese il ragazzo facendosi serio.

«Beh... Come tutti conosco le voci che girano....» Camelie tentò di prenderla alla larga.

«Le voci che girano tra i borghesi, intendi» la corresse lui. «Non tutti vedono il mondo come lo vedono gli schiavisti in cima alla piramide, Venice. Ti assicuro che quando hai i piedi per terra, la prospettiva è molto diversa. Magari avrai l'occasione anche tu di osservare finalmente il mondo da vicino».

Non sapendo come controbattere, senza accusare il bell'angelo di essere un poco di buono, Camelie prese a guardarsi intorno con attenzione.

Si trovavano effettivamente in un tendone. La cerata, che riparava un'area di qualche centinaio di metri quadri, non era un pezzo unico, ma un telo cucito insieme alla meglio. Il risultato era un mosaico di variopinta causalità. Non c'era alcun criterio nell'accostamento dei colori di quel soffitto nato evidentemente solo per necessità.

L'ambiente era riscaldato da stufe di svariate dimensioni e tipologie: c'erano macchinari elettrici, alimentati da cavi che entravano e uscivano dal pavimento come serpenti dalle loro tane; caloriferi che bruciavano legname sintetico e stoffe; turbinette a vapore che emettevano gli sbuffi da cui Camelie era stata svegliata.

Non era chiaro se il tendone fosse un riparo provvisorio oppure un enorme accampamento stabile, dal momento che oltre alle numerose amache erano state montante anche tende da campeggio. Si poteva davvero vivere stabilmente in un posto così?

Camelie non riusciva inoltre a capire se tutta quella gente appartenesse al circo. C'erano centinaia di persone ammassate lì dentro. I pettegolezzi che riguardavano il circo dipingevano la problematica comunità come l'amalgama dei tratti peggiori del genere umano. Ladri, spacciatori, violentatori, contrabbandieri, tutti che portavano avanti le proprie losche attività dietro alla facciata di spettacoli grotteschi che una volta a settimana richiamavano un numero incredibile di abitanti di Nilemouth. Il circo era infatti l'unica forma di divertimento per coloro che non potevano permettersi il teatro, i concerti o il cinema esperienziale.

Sollevandosi meglio nell'amaca, Camelie scorse l'area in lungo e in largo, aspettandosi di vedere le gabbie degli animali. Non si sarebbe stupita se uomini e bestie avessero dormito insieme.

Non c'era però neanche l'ombra delle belve che costituivano l'attrazione principale del circo.

«Cosa darei per essere nella tua testa, in questo momento» la richiamò Xavi e Camelie dovette mordersi la lingua per non ribattere che non aveva nulla in contrario a farlo sbirciale tra le sue sinapsi. E non solo.

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