TAKEN - Finale

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Domenica mattina.

Giggi si sentì strattonare con violenza, e aprì gli occhi intimorito. Pensava di trovarsi davanti un ladro o un assassino, invece c’era il marito. Aveva uno sguardo stranamente più terrorizzato del suo. “Che succede?” Balbettò, ancora intento a risvegliarsi dal sonno.
Ma Salvini sembrava non riuscire a trovare la forza di rispondergli.
Si levò, sedendosi e facendogli segno di mettersi accanto a lui. Tuttavia l’altro scosse la testa.
“E’ Conte”
“Che ha fatto? E’ tornato ubriaco?”
“No. Non è tornato”

Silenzio.
Un forte, struggente silenzio.

Giggi si alzò, correndo per le scale verso la cameretta del figlio, aveva bisogno di vederlo con i suoi occhi per crederci. E quando si rese conto che Conte non c’era, passò al secondo step. Facendo dei respiri profondi e svegliandosi completamente grazie alla preoccupazione, tentò di calmarsi e di ragionare. “D’accordo, sarà rimasto a dormire lì. O forse da Berlusconi. O Macron, infondo sembrano molto… Li dovremmo chiamare” Fece per tornare in salone per prendere il telefono, quando il marito lo fermò.
“Giggi”
“Sì?”
“L’ho già fatto. Non c’è da nessuna parte”
Sorrise, aggrottando le sopracciglia. Dando poco conto a quanto aveva appena sentito, provò a richiamare chiunque avrebbe potuto entrare in contatto con il figlio la sera prima. Ma nessuno aveva idea di dove si trovasse al momento, o se fosse andato via dalla festa con qualcun altro.

Tra una chiamata e l’altra si fece velocemente pomeriggio, e più le ore avanzavano, più i genitori perdevano la calma.
Giunsero al terzo step. Giggi si lasciò cadere sul divano, quello stesso divano dove appena la sera prima aveva salutato suo figlio, ed era felice, così felice, senza le lacrime che ora gli segnavano il viso. “E’ colpa mia. Tutta colpa mia”

In quell’istante il telefono di Salvini iniziò a suonare Vesuvio lavali col fuoco, accendendo un’inattesa speranza dentro di loro. Rispose immediatamente mettendo il vivavoce, con il cuore a mille.

Numero sconosciuto.
La voce che parlava era distorta, irriconoscibile. Spaventosa. “Abbiamo vostro figlio”
Salvini trattenne il respiro. Non poteva star succedendo realmente.
“Se ci tenete a rivederlo, dovrete fare solo una cosa”
Giggi strappò il telefono dalle mani del marito. “Cosa sarebbe?”
“Dateci il reddito di cittadinanza”

Silenzio.

“No, noi non… non possiamo…” In preda alle lacrime, il giovane ministro ridiede il telefono al proprietario, per poi nascondersi il volto tra le mani cercando di risvegliarsi da quell’incubo.

Ma Salvini aveva un’espressione ben diversa dal marito. Nel suo corpo non c’era più disperazione, paura o preoccupazione. Solo ira. “Io non so chi siete, non so cosa volete. Se lasciate andare mio figlio, la storia finisce qui. Non verrò a cercarvi, non vi darò la caccia. Ma se non lo farete, io vi cercherò. Vi troverò… e vi ucciderò”

Chiamata terminata.

Diede un bacio all'amato e uscì di casa. Tutto ciò che aveva era la sua felpa verde e una pistola. E la rabbia propria solo di un genitore. E di un leghista.
Quando montò in macchina nella sua testa vi era un'unica frase, indirizzata ai sequestratori.
Quattro parole.
"La pacchia è strafinita"

MISSING - Where is Conte?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora