𝙪 𝙣 𝙥 𝙤 ' 𝙛 𝙧 𝙖 𝙣 𝙘 𝙚 𝙨 𝙚

725 104 50
                                    

| 03rd |
Pensò che non aveva mai incontrato nessuno con cui si sentiva tanto bene tacendo.
— David Grossman



Seconda lettera,
'83.

Ricordo benissimo il nostro primo incontro. Io ero appena fuggita da una cena di famiglia dove niente era fuori luogo, tranne che la mia presenza, e mio fratello Simon mi aveva seguita. Per nascondermi da lui, mi ero infilata tra gli spalti del campetto vicino casa mia perché ormai era buio e non avrebbe potuto vedermi, in ogni caso.

A causa dell'infortunio, Simon aveva rinunciato presto alla sua ricerca. Proprio come te, lui era un giocatore di football americano, con l'unica sfortuna di avere un ginocchio fuori uso.

Ho avuto il coraggio di uscire allo scoperto solo dopo dieci minuti, quando il silenzio ormai mi aveva circondata e la brezza fresca attraversava leggiadra i miei capelli.

Tu stavi facendo un giro di campo per allenarti ancora un po' e nell'ombra mi avevi vista tentennare tra i posti a sedere, indecisa dove mettere i piedi per uscire.

Eri rimasto a guardarmi per alcuni secondi, prima di avvicinarti e controllare la situazione. Dopo neanche due minuti le luci del campo si erano già accese e io, finalmente, avevo iniziato a respirare un po' di più. L'avevo capito che quel gesto era riservato a me, nonostante tu avessi visto solo la mia ombra e io la tua.

Quindi mi sono affrettata a scendere, sfilandomi i tacchi e alzando il vestito lungo per non cadere. Infine, ti ho visto uscire dagli spogliatoi con un asciugamano sulla spalla.

Tentennavamo entrambi per parlare, non avevamo molto da dirci. Però, nonostante l'imbarazzo, ti avvicinavi sempre di più.

La tua divisa era bianca e rossa, non la scorderò mai, e ti stava da Dio. Eri bellissimo, così come la bandana che ti teneva i capelli per non farli cadere sugli occhi.

Mentre io... io ero un disastro.
Avevo ancora gli occhi gonfi dal pianto e il trucco sbavato, il vestito rosso, che mi calava dolce sui fianchi, finiva come uno straccio a terra per la mancanza dei tacchi, tolti d'istinto per raggiungerti.

Avresti potuto dire qualcosa d'intelligente, io avrei potuto ironizzare sul nostro bizzarro incontro, ma non successe niente di tutto questo.

Tu, come sempre, eri il solito sfacciato.

«Ti sta proprio bene il rosso», mi dicesti, come se mi avessi vista in precedenza con altri colori addosso. «Di dove sei? Sembri quasi una principessa.»

Volevo reggerti il gioco, così ho sostenuto lo sguardo, sentendomi un po' imbarazzata dai tuoi complimenti. «Quasi?»

Tu sbuffasti e dopo due secondi alzasti gli occhi al cielo, facendoti sempre più vicino. «Ho detto quasi perché le principesse non hanno gli occhi gonfi, e solitamente non corrono sugli spalti. È pericoloso.»

Tutte le emozioni positive si erano spente dopo le tue parole, ma ti sei subito affrettato a regalarmi un sorriso che, nel bene o nel male, mi aveva contagiata.

«Stavo scappando da una cena di famiglia», ti spiegai brevemente, omettendo solo una piccola parte della mia brutta serata.

Dopo le mie parole mi avevi superata, facendomi segno di raggiungerti su una delle sedie nelle prime file. Non ho esitato neanche un secondo per seguirti.

«Che peccato», dicesti. «Una principessa non dovrebbe scappare via.»

Tu continuavi ad affibbiarmi quel nomignolo e io mi scioglievo sempre di più. Ti avevo già inquadrato: origini inglesi, occhi da favola e rubacuori. Io l'avevo già capito, mi sono fatta conquistare di proposito.

«Non sono una principessa, l'hai detto tu stesso», ti ripresi, ridendo. «E poi, io mi sento troppo inadatta in certe situazioni.»

«La gente come te si sente inadatta? Davvero?» ti fingesti sorpreso.

Per scherzare, ti avevo spinto per farti chiudere quella dannata bocca, ma ovviamente non hai smesso di parlare neanche per un secondo.

Poi, come se niente fosse, hai chiesto il mio nome.

«Sai, hai un accento strano, un po' francese... vorrei saperlo giusto per precauzione.»

E io mi sono messa a ridere perché tu eri proprio un cretino, ma io il mio nome volevo dirtelo con piacere. E per la prima volta in vita mia, m'interessava davvero sapere il nome della persona che mi stava davanti.

«Mi chiamo Noëlle, ho un accento francese perché vengo dalla Francia», scossi la testa con tono ovvio, tu mi guardasti profondamente negli occhi. Mi chiedevo a che cosa stessi pensando. «Stai bene?»

«Sì, è solo che sono negato in francese, Noëlle», facesti spallucce. «Magari potresti insegnarmi qualcosa. E poi hai un bel nome. Mi sembra giusto. Un bel nome per una ragazza stupenda», ridacchiasti, mostrandomi le tue meravigliose fossette. «Io mi chiamo Harry.»

«Anche tu hai un bel nome, Harry. Te l'hanno mai detto che somigli a Mick Jagger?»

«Spesso. E lo prendo come un complimento, principessa.»

Il tempo sembrava essersi fermato.
I tuoi occhi si mischiavano con i miei e io mi sentivo felice, spensierata, come se la mia vita al di fuori di quel campetto non esistesse.

Abbiamo continuato a parlare per un'infinità, lasciando volare via nel vento migliaia di parole... abbiamo esplorato discorsi di vario genere, con te si poteva parlare di tutto tranne che di geografia; lo ammetto, lo facevo di proposito quando ti chiedevo la capitale di qualche paese sconosciuto.

Fingevi sempre di arrabbiarti, eppure si vedeva lontano un miglio che ti piaceva essere stuzzicato a tua volta.

Abbiamo sempre sofferto per il mio carattere un po' solitario e freddo. Solo ora capisco che tutto ciò che facevi era per rendermi felice.

Adesso dimmi, che ne è stato di tutte le sere passate insieme a guardare le stelle?

Che ne è stato dei tuoi tentativi d'imparare il francese solo per impressionarmi?

Che ne è stato delle tue mani strette nelle mie nei giorni d'inverno? Lo sai, sono sempre stata freddolosa e non sopportavi vedermi le mani tutte rosse.

Sappi che da quando non ci sei, le mie mani sono sempre screpolate, e io in mezzo alla neve e il gelo non mi preoccupo neanche di metterle in tasca.

Non voglio avere le mani calde.
Non se non ci sei tu a riscaldarle.

MémoireUnde poveștirile trăiesc. Descoperă acum