Capitolo 1 (ANNA)

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Eccovi il primissimo capitolo, spero che vi piaccia. L'idea è quella di postare un capitolo al giorno, così da non lasciarvi troppo in sospeso. Se vi piace la storia (o non vi piace per niente) lasciatemi un commento, una stellina... quello che volete, ma fatevi sentire, pleeeeeeease! :)

BUONA LETTURA! <3


Domenica, 20 luglio 1997 (Anna, 18 anni)

Apro gli occhi e fatico a mettere a fuoco ciò che mi sta attorno, c'è un tizio sopra di me che cerca di dirmi qualcosa ma il sangue che mi ronza nelle orecchie mi impedisce di capire una sola parola. Mi sembra agitato ma non so il perché e, soprattutto, non so per quale motivo sia distesa sull'asfalto. Fino a due secondi fa avevo la visiera del casco aperta, l'aria che entrava mi rinfrescava e asciugava il sudore che mi colava dalla fronte, ora non ho nemmeno più un casco addosso.

Mi girano su un lato e il dolore lancinante alle gambe mi fa salire le lacrime agli occhi offuscando la mia vista, vorrei gridare ma il gusto metallico del sangue in bocca mi tiene inchiodate le labbra in una morsa che fa quasi male. Gli occhi si riempiono di quelle gocce salate che mi impediscono di vedere chiaramente gli alberi sopra di me, il cielo terso di una domenica d'estate, il volto di mio padre che mi sorrideva fino a qualche minuto fa... e Marco, il suo sorriso, i suoi capelli scuri spettinati sopra la testa, i suoi due immensi occhi dello stesso colore di un cielo in tempesta, con quell'espressione furba e tutta la vita che ci puoi trovare dentro.

Marco che fino a due minuti fa mi rimproverava di essere un'incosciente mentre io lo sfidavo ad andare più veloce, perché anch'io volevo sentirla tutta quella vita che lui ha dentro... Marco che adesso non mi permettono di vedere ma che non sento, non vedo vicino, che non percepisco più sotto le mie dita, strette in una morsa sulla sua tuta di pelle.

Mi alzano quel tanto che basta per infilare sotto il mio corpo una barella rigida di plastica, quella a cui mi assicurano per poi caricarmi sull'ambulanza. C'è tanta gente attorno a me, tanta confusione ma non riconosco nessuno, il tizio che ho visto appena aperti gli occhi tiene tutti distanti, deve essere uno importante.

Mi tagliano la giacca, vorrei dire loro di non farlo, che provo a toglierla da sola, mi è costata sudore, fatica e mesi di risparmi messi da parte, ma loro non mi ascoltano, forse perché non sono ancora riuscita a dire una parola. Armeggiano con aghi e siringhe e dopo poco il mio dolore passa ma io me n'ero già dimenticata di quelle fitte lancinanti alle gambe, come posso pensare a me quando Marco non lo vedo? Quando non so se sta bene oppure no?

Dicono che quando stai per morire tutta la vita ti passi davanti agli occhi. A me non è successo, forse perché io non stavo per morire, non ho visto le estati al mare con i miei, la prima vacanza a Rimini da sola con Elisa. Non ho rivisto nemmeno il mio primo bacio, quello brutto e umidiccio che Carlo mi ha dato nello scantinato della scuola, ma non ho visto neppure l'ultimo, quello che mi ha fatto girare la testa, quello perfetto che solo le labbra di Marco ti possono dare. Non ho visto i giri in moto con papà e i libri trovati sotto l'albero di Natale, non ho visto le farfalle al pomodoro che ogni domenica nostra nonna ci prepara o le corse a piedi scalzi tra i filari delle viti dello zio. Io tutti i miei più bei ricordi non li ho visti, sono rimasta lì, con gli occhi spalancati mentre il mondo si capovolgeva e Marco mi sfuggiva tra le dita. È durata tanto l'attesa prima che il dolore forte e violento mi facesse uscire l'aria dai polmoni, ho solo pregato che tutto potesse finire presto, che quel dolore arrivasse, perché lo sapevo già che non avrei potuto evitarlo... e quando è arrivato violento come un tuono, si è portato via all'improvviso anche la luce, almeno finché non ho riaperto gli occhi e ho visto il tizio che adesso mi sta quasi accennando un sorriso.

Ora riesco a sentire quello che mi capita attorno, le sirene dell'ambulanza che gridano come forsennate e ogni piccola curva o incongruenza dell'asfalto che fa tremare questa gabbia opprimente in cui mi hanno rinchiusa.

«Marco» riesco a pronunciare a denti stretti con il sangue che un po' esce dalla mia bocca.

Il tizio mi sorride e adesso che lo guardo bene mi sembra pure di conoscerlo, d'altra parte il paese in cui abito è talmente piccolo che in fondo ci conosciamo tutti.

«È nell'altra ambulanza» mi dice con voce ferma, il sorriso sempre piantato sulle labbra ma che non gli raggiunge mai gli occhi.

Non mi fido di lui, l'ho deciso nell'esatto istante in cui mi ha risposto, non mi fido perché il suo sorriso ha coinvolto solo la bocca e non tutto il resto, la sua faccia, il suo cuore. Le lacrime tornano a velarmi gli occhi e mille idee si accavallano nella mia mente confondendomi il cervello e l'anima. Continuo a ripetermi che, se non ci fosse più niente da fare, non l'avrebbero messo in un'ambulanza... ma il mio cuore è troppo spaventato perché possa credere ai ragionamenti logici e disperati del mio cervello.

Chiudo gli occhi e spero che il buio si inghiotta tutte le mie paure.

[COMPLETA]Come in quella vecchia PolaroidDove le storie prendono vita. Scoprilo ora