Storia.

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La prima volta che provai ad uccidermi avevo dodici anni.
Ricordo che, in un momento di rabbia cieca, presi una corda abbastanza spessa e ruvida, e me la rigirai più volte attorno al collo, e inizia a stringere, a stringere, a stringere tanto che i miei occhi si appannarono e i miei polmoni bruciarono, e l'ossigeno che continuavo ad inghiottire era come pezzi di vetro che mi raschiavano la gola.
Non ci volle molto che persi le forze e lascia andare la presa.
Scoppiai a piangere contro la parete fredda del muro di camera mia.
Non sapevo come fare a salvarmi.
A salvarmi da me stessa, da quegli incubi che la notte strusciavano fuori da sotto il mio letto e mi costringevano a sopprimere i miei respiri contro il cuscino e rendevano le mie mani perennemente zuppe di lacrime.
Presi grandi boccate d'aria, il cuore che accelerava sempre più, gli occhi gonfi e pesti per le notti insonni, la pelle del mio collo lacerata.
Chiusi forte le palpebre. Lasciai che i miei capelli mi comprissero il volto.
Mi raggomitolai su me stessa, schiacciandomi alla parete.
E mi lasciai inghiottire dal silenzio. Dal buio della notte imminente.
Sono sempre stata un'estremista. Non conoscevo la mezza misura.
Esisteva per me solo il giusto o lo sbagliato. Il buono o il cattivo. Il mare o la montagna.
Allo stesso modo, se non riuscivo ad amarmi, altro non mi restava che odiarmi all'inverosimile.
E credo che quell'odio che proviamo nei nostri confronti non sia neanche paragonabile a quello che proviamo per le altre persone.
Sei costretto a passare il resto della tua vita con una persona che detesti. Che ti rende vulnerabile e debole. Che non sa trattenere le persone che ami nella tua vita. Che siede sola sul tram e passa il tragitto a guardare le gocce di pioggia scivolare sul finestrino, per poi accorgersi alla fermata che fuori c'è il sole ed erano solo i suoi occhi che piangevano, riversando lacrime salate sulle sue guance.
E quella persona é te stesso.
Un anno dopo inizia ad indossare felpe eccessivamente larghe con le maniche così lunghe da coprirmi le dita delle mani.
Ma anche quei segni rossi, sui miei polsi, che continuavano ad aumentare.
Avevo deciso di segnarmi con una lametta ogni mio errore.
Alla fine di ogni giornata c'erano più di venti tagli nuovi.
Mi resi conto che ero davvero un disastro.
E mi convinsi che una come me doveva meritarsi solo sofferenze, e punizioni.
Doveva stare a digiuno per giorni e passare le ore a vedere il sangue scorrerle via dalle braccia, dalle cosce, nella speranza di intravedere anche un po' di tutto quel male che aveva dentro sgorgare via con esso.
Per certi periodi, divenni tutt'una con la solitudine che riempiva il mio cuore e rendeva il rumore di ogni suo battito un suono malinconico, triste.
Ero sola nella stazione affollata alle sette della mattina, o quando tornavo a casa.
Ero sola mentre camminavo per strada per dirigermi in libreria, nel disperato tentativo di scappare dalla mia vita, rifugiandomi tra le pagine di quella di qualche d'un altro.
Ero sola, quando mi stendevo sul prato la sera, perdendomi tra quelle stelle così lontano, ma che mi scaldavano come se fossero così vicine.
In altri mesi, mi persi completamente.
Le stagioni smisero di susseguirsi, i colori impallidirono, cedendo il posto al bianco e al nero.
Gli inverni divennero più rigidi e le estati più brevi.
I suoni e i rumori si attutirono, riducendosi a un sussurro, dei flebiti.
Tutto, intorno a me, iniziò lentamente a sgretolarsi, a cedere.
Caddero i prati fioriti, e i tramonti, e i cieli trapuntati di costellazioni, e il soffio del vento e il rombo del tuono. Caddero le Case, le persone, le emozioni.
E da quelle macerie si alzarono spessi muri, che mi imprigionarono.
L'unica cosa che continuava a cadere, era la neve, trascinando con se le mie ultime speranze di riuscire a vedere per un'ultima volta il sole.
Ero persa, sola, senza più ragioni per restare.
Credetti davvero che alla mia fine sarebbero mancate poche albe, anche se non potevo vederle.
Una fine che avrei scritto io.
Presi una penna rossa, appena comprata, e mentre inizia a tracciare le prime parole del mio ultimo capitolo di vita, un petalo cadde vicino le mie dita.
Alzai gli occhi con stupore.
Ero convita ci fossi solo io dentro la prigione che altro non era che me stessa.
E invece, proprio davanti a me, c'era un vaso contenente una pianta.
Non ricordo che specie era.
Sinceramente, non ha importanza.
La guardai. Ancora. Ancora.
Il fusto dall'apparenza fragile culminava con con pochi petali stropicciati, rovinati, che cadevano lentamente sulla scrivania.
Nel turbinio di ghiaccio e neve nel quale mi trovavo non credevo potesse sopravvivere.
Era sempre stata lì, spoglia, scura, esile.
Non gli diedi attenzione. Non mi accorsi nemmeno della sua presenza.
La davo già deceduta.
E invece, era proprio lì dinnanzi a me.
Pensai che prima di togliermi la vita, potessi darne un po' a quel fiore, potessi aiutarlo.
Inizia a prendermi cura, annaffiandolo giornalmente E controllando che possibili insetti non gli mangiucchiassero le foglioline.
Feci una crepa nel muro, quel tanto che bastava per far filtrare un poco di luce, nonostante io non la vedessi, né sentissi il suo calore, per quella piantina.
Col passare del tempo, inizia a vederla sempre più rinvigorita.
Crebbe. Tanto.
E lentamente, la luce da cui doveva teoricamente passare il sole per bagnarla di caldo, divenne ... luminosa.
E iniziai a sentire il suo calore.
A vederla.
Con la penna rossa, al posto di scrivere la mia fine, disegnai fiori.
Riempii pagine e pagine di fiori. E poi le mie braccia. Le mie gambe. Le mie labbra. Le mie palpebre.
E le mie ferite sui polsi.
Queste, divennero cicatrici.
Iniziai a ricoprire di fiori ogni mattone che costituivano i miei muri, e questi, piano piano, si dissolsero, divennero polvere, dalla quale nacquero ciclamini, campanule, viole, girasoli....
E io potevo vederne il colore.
Potevo sentirne il profumo.
Rampicanti di gelsomini mangiarono le pareti ancora in piedi della mia prigione.
Mi ritrovai ricoperta di petali, seduta su un prato fiorito.
Il sole mi illuminò il volto, dopo tanto tempo.
Il cielo ero limpido. Di un azzurro chiaro... ma lucente.
Mi alzai da sola.
Barcollavo un po' e la mia vista faticava a mettere a fuoco ogni singola cosa.
Ma era normale; avevo vissuto nell'ombra per così tanto tempo.
Vidi il mio vaso; la pianta era sbocciata.
E con essa, ero sbocciata anche io.
Prendendomi cura di lei, mi accorsi che ero ancora in grado di dare affetto e che il mio cuore non era completamente ghiacciato.
Capii che dal mio amore poteva nascere qualcosa di bello. Di buono.
Scoprii che non tutto quello che facevo ero uno sbaglio, un errore. Poteva essere anche un bellissimo vaso di rose. O un intero prato di viole. O una rampicante di gelsomino.
Piantai così tanti fiori che non ricordo di preciso.
A volte capita che prendendoci cura di qualcosa, o di qualcuno, finiamo per prenderci cura anche di noi stessi.
Di crescere insieme. Di diventare migliori.
Di nascere, nuovi, più forti di prima... di fiorire.
E poi pensa; se ne tuoi momenti bui sei in grado di far sbocciare fiori nelle parti più tristi di te, immagina cosa sei in grado di fare nei tuoi momenti migliori.
Di sicuro, qualcosa di bellissimo.













ANGOLO ME:
Non pubblico storie da un po', e per questo vi chiedo perdono.
Dovete sapere, che trovare delle storie "accettabili" secondo il mio canone di interesse è difficile...quindi questa storia è un miracolo 😂
Ciuauuu:3

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