Capitolo 4

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Passai le tre sedute successive a raccontare la mia storia. 
Sempre con più dettagli, sempre con più dolore.

La mia memoria si stava colorando di sfumature che mai, prima d'allora, ero riuscita ad osservare, ma allo stesso tempo il ricordare in maniera così prepotente mi riportava a vivere, costantemente, lo stesso terrore che provai al tempo, enfatizzato dalla becera sensazione della consapevolezza;  lei aveva sfondato una porta rimasta chiusa per anni e anni, stava toccando con mani roventi ciò che avevo celato con tanta cura. 

Io e la Dottoressa Baroni ci vedevamo una volta a settimana, con cadenza regolare, nel suo ufficio denso di anonimia. 

Provavo, nei confronti della Dottoressa e dei nostri incontri settimanali, delle sensazioni divergenti: da un lato, spinta dal senso del dovere, mi adeguavo alla sua richiesta ripetitiva di descrivere, passo dopo passo, ciò che era accaduto quel pomeriggio. 

Dall'altro lato, tuttavia, la mia smania di migliorare era così asfissiante che in sole tre sedute avevo già perso gran parte della pazienza e della voglia di continuare, il tutto accentuato dalla straziante sofferenza che tornava ogni volta che aggiungevo un piccolo tassello a quel puzzle di ricordi.

In generale, il mix letale tra la mia irrequietezza e la mia spiccata razionalità, mi rendevano una persona fondamentalmente avversa alle cure astratte e metafisiche della psicologia.

Decisi pertanto di chiarire le mie perplessità con mia madre.

Una sera attesi il suo ritorno dal lavoro, appisolandomi sul divano e svegliandomi con un suo tenero bacio sulla nuca alle due di notte. 

Le confessai le mie insicurezze riguardo la terapia e la sua efficacia, le spiegai dei mancati miglioramenti, né nella sfera emotiva legata alla mia esclusiva intimità, né nel rapporto diretto con gli altri.

Il consiglio di rivolgermi ad un esperto partì proprio da mia madre ed era da lei che dovevo tornare nel momento in cui avrei iniziato a nutrire dubbi a riguardo.

Ciò che mi tormentava della mia storia, erano gli effetti che essa aveva provocato e continuava a provocare nella mia quotidianità; il mio senso di colpa si era addentrato in modo viscido in ogni mio gesto consueto dal momento in cui mi aveva infettato.

Si palesava spesso di notte, nei miei sogni, nelle mie urla a volte silenti, a volte deliranti nel fulcro del mio sonno irrequieto.

Erano anni che, nel mio sognare stanco, ripercorrevo quel pomeriggio, ogni volta con un epilogo diverso.

Ero sfinita: non riuscivo ad essere in pace nemmeno nelle mie visioni oniriche.

Mia madre cercò di placare la mia disillusione sempre più crescente e mi riportò con i piedi per terra: ciò che cercavo era, sostanzialmente, una medicina inesistente per una malattia cronica, immune a qualsiasi bacchetta magica.

Non era possibile curare le mie sofferenze in un battito di ciglia, né tanto meno vedere i miei incubi, le mie paranoie, il mio orrore continuo svanire senza aver combattuto lentamente, grazie all'aiuto di qualcuno.

Versai numerose lacrime quella notte. 

Mancavano solo tre giorni alla fine dell'anno scolastico, del mio ultimo anno, ed io non ero ancora riuscita a liberarmi delle penose gabbie emotive che costringevano il mio ego a limitarsi in tutto. 

Nutrivo notevoli aspettative e un' immensa speranza per quello che sarebbe stato il mio futuro, ormai sempre più tangibile e vicino.

Fremevo all'idea di poter ricominciare da zero con l'inizio del mio percorso universitario: mi ero ripromessa di aprirmi alle volontà emotive di una diciottenne qualsiasi e di interagire concretamente con quelli che sarebbero stati i miei futuri colleghi. 

Spalancai le palpebre e rimasi in silenzio a fissare il soffitto umido della mia camera.
Nella mia testa risuonava, come un ronzio frastornante, il tintinnio della biro in tre sottolineature precise: "Non esco di casa quasi mai".

Potrei riassumere facilmente il mio vissuto scolastico in una sola, semplice parola: Disagio

Ho sempre visto la scuola come una mera e atroce metodica per studiare ed imparare senza, tuttavia, accettare l'idea che potesse essere un luogo anche di accrescimento sociale. 
Ho provato più volte ad approcciare a mia madre l'idea di diventare una studentessa privatista e questo aveva scatenato ogni volta liti di una certa entità. 

Mia madre vedeva il mio ritiro sociale come una sconfitta personale, ma al contempo non riusciva a contrastare con solidità la mia caparbietà e spesso ne usciva vinta. 
Tuttavia, malgrado la mia posizione nei confronti della scuola fosse salda, ho sempre lasciato che il pensiero di mia madre prevalesse: con il senno di poi credo che, in fondo, volevo che rimanesse lo spiraglio impalpabile di un possibile contatto con gli altri.

Non ero prevenuta nell'interagire in maniera positiva con le persone.
Ero tuttavia realmente inadatta nel portare avanti relazioni di qualsiasi genere. 
Ho sempre avuto, inoltre, una preferenza per il genere femminile nella sua totalità: infatti, per quanto trovassi deleterio e frustrante cercare di essere accettabile per le altre ragazze, il gesto di essere vicino a loro e di interagire non provocava in me grandi sofferenze.
Era, al contrario, il loro disperato e disgustoso desiderio di accompagnarsi con elementi maschili a provocare in me un riprovevole rifiuto nelle persone. 

Iniziai ad individuare dei problemi in me al ritorno a casa, a seguito della mia permanenza in ospedale causata da quell'evento.

Attuai un mutismo assoluto nei confronti dei miei genitori, dei miei nonni e di qualsiasi persona si proponesse di entrare in contatto con me ed aiutarmi.
A sette anni capii per la prima volta il concetto del Male, e per me il Male si estendeva potenzialmente in chiunque capace di parlare e toccare.

Capii anche, quasi immediatamente, che la figura di mio padre nella mia testa si era infranta violentemente contro un muro di violenza. 
Quando il mutismo totale sparì e incominciai, come se fosse una nuova prima volta, a parlare, esibii fin da subito un'avversione deleteria nei confronti di mio padre e, in minor parte, di mio nonno.
Ogni suo gesto affettuoso, ogni suo tentato contatto familiare era interpretato dalla mia mente come un gesto di sfondo meramente sessuale, anche se, all'epoca, non riuscivo perfettamente a comprendere il vero significato della sessualità.
Percepivo, tuttavia, il ripetersi angoscioso nei suoi gesti innocenti di un'episodio già visto.

Ho trattenuto le lacrime e i pianti fin quando c'è stato lui in casa. 
Sapevo che nel momento in cui avrei urlato o pianto nel cuore della notte, sarebbe venuto lui a toccarmi per calmarmi e io questo non lo tolleravo.
Ogni sua carezza era ustionante per le mie ferite. 

E' per questo che ho represso ogni singolo pianto, è per questo che i miei occhi diventano aridi dopo una sola lacrima, ogni notte. 

I contrasti in casa tra i miei genitori diventarono sempre più frequenti, sempre più biechi.
Nemmeno la nascita di mia sorella, due anni dopo quel pomeriggio, servì a risanare un rapporto che ormai si era spezzato insieme alla mia infanzia perduta.

Mio padre se ne andò dalla nostra casa quando io avevo ormai 11 anni.

E da quel momento in poi decisi di evitare la sua presenza con ogni mezzo possibile. 









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