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Sei mesi sono passati da quella conversazione sugli spalti dell'anfiteatro, ma sono accadute più cose in quei sei mesi che in tutta la mia vita, pensò Dora, muovendo la pedina dei latrunculi. La sua ancella di fiducia, Iris, si portò un dito alle labbra, meditando sulla prossima mossa, e permettendo così alla ragazza di perdersi di nuovo nei suoi pensieri.

Ripensò al matrimonio di Silvana e Bruto Cherea: una cerimonia intima, solo i parenti presenti, al cospetto del flamen e delle tabulae nuptiales. Al momento di apporre la sua firma, Bruto non aveva potuto non pensare alla firma che invece gli era stata negata, più di sei anni prima. Alla sposa che non si era presentata. Al sogno d'amore che non si era realizzato.

Aveva firmato quasi con rabbia, desiderando che al posto di quella ragazza sorridente ma muta ci fosse la sua Aurelia. Aveva sperato che almeno sul fronte sessuale sarebbe stato soddisfatto, ma i suoi parenti, pregati da Silvana, gli avevano impedito di accedere al talamo nuziale finché la gravidanza non fosse giunta al termine.

Al momento del parto, Bruto stava combattendo contro un mirmillone davanti agli occhi di migliaia di spettatori. Solo la sera gli aveva riferito che il bambino non ce l'aveva fatta. Si era soffocato col cordone ombelicale. Silvana era sopravvissuta per miracolo e per l'abilità dell'anziana levatrice di famiglia. Bruto era andato a trovarla – aveva stipulato un accordo col suo lanista che gli permetteva di rincasare ogni sera dalla scuola gladiatoria; era l'unico tra i suoi colleghi ad avere questa libertà, perché era anche l'unico ad essersi scelto quel destino; gli altri, Dendra compresa, erano tutti schiavi – ma "Dora" l'aveva trattato con gelida cortesia. Dopo qualche minuto di conversazioni stentate, Bruto era fuggito via. Preferiva passare una notte nell'angusta cella che da anni era il suo cubiculum piuttosto che sopportare le occhiate vuote della ragazza che era stato costretto a sposare.

Silvana era rimasta sotto sorveglianza per un mese. Anche se il fisico ci aveva impiegato molto meno a risanarsi, era il suo cuore ad essersi irrimediabilmente spezzato. Forse il piccolo che portava in grembo era il frutto di una violenza, ma anche se doveva staccarsene per ritornare alla sua vita claustrale, avrebbe dato la sua anima per vederlo crescere felice insieme alla sorella.

Un giorno, le due gemelle si erano ritrovate di nascosto, per scambiarsi di nuovo le identità. Silvana era tornata all'Atrium, senza neanche un ringraziamento per la sorella che aveva rischiato la vita per lei. Dora non le aveva rimproverato quel suo atteggiamento ingrato; aveva appena perso un figlio, doveva essere ancora traumatizzata.

Si era rassegnata al suo destino di moglie di un gladiatore. Dopo qualche giorno, i loro parenti avevano dato una grande festa per celebrare insieme la ritrovata salute di Dora e quel matrimonio che era stato celebrato in fretta e furia. Quella sera stessa, Bruto le aveva tolto la verginità...

«Domina, tocca a voi.»

Dora si riscosse, osservando la scacchiera. Eppure continuava a rivedere il viso duro e spigoloso dell'uomo quella sera, la sera dopo la festa. Risentiva il contatto delle sue mani sulle spalle, la sua voce roca e bassa come un rombo di tuono...

...

«Non ti pare assurdo, questo tuo atteggiamento? Siamo marito e moglie e, credimi, ne passerà di tempo prima che io possa arrivare a concepire la possibilità di un divorzio.»

Dora percepì il tocco delle sue mani sulla schiena, che risalivano lentamente verso le spalle e si fermavano sulla nuca. Le dita iniziarono a muoversi in una lenta carezza, che le provocò brividi di cui avrebbe fatto volentieri a meno, in quel momento.

Fece per divincolarsi, ma Bruto la fermò, afferrandole un braccio e voltandola verso di lui. Dunque le sollevò il mento, in modo che i loro sguardi si incrociassero. Quello di lei lampeggiava d'ira, quello di lui esprimeva solo il desiderio di vincere quella sfida.

La vestale e il gladiatoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora