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Daniel

Dicembre era da sempre il mese dell'anno che più odiavo. Non servivano la neve (che nonostante la sua bellezza, alla fine, a Torino era come fosse pioggia), o il Natale a farmi cambiare idea. Per me era un vero e proprio incubo.

Finiva il trimestre e all'ultimo, prima delle vacanze, ero strapieno di verifiche e interrogazioni. Poi dovevo anche aiutare mia sorella a recuperare le materie in cui aveva un po' di difficoltà, regalandole decine di ore a settimana di ripetizioni. In fondo, io e Vanesa ci passavamo tre anni e di cose ne sapevo parecchie più di lei.

Mia madre, oltretutto, ci teneva molto che io mi comportassi da fratello maggiore. Voleva che io fossi sempre gentile e disponibile con lei. Non che a me dispiacesse, anzi. Amavo fare immedesimarmi in quel ruolo, ma tornare a casa dopo sei ore di faticoso studio a scuola, mangiare di fretta, dare ripetizioni a Vanesa per un paio d'ore al giorno, poi mettermi al lavoro per garantirmi bei voti non era semplice. Se poi ci si mettevano anche gli allenamenti per danza, era la fine.

Quelli li avevo di sera, ed erano strazianti. Arrivavo a casa alle undici, stanco morto, chiedendomi perché non fossi nato cane. O pianta. O magari gatto per fare tutto quello che faceva Gardenya: più che dormire e fare le fusa, non sapeva a che altro dedicarsi.

Dicembre era anche il mese con le giornate più corte dell'anno. Di mattina, alle otto, era ancora buio e alle cinque di pomeriggio era impossibile vedere le strade se a collaborare non c'erano i lampioni: nell'ultimo periodo, un guasto aveva lasciato l'intero isolato avvolto dalle tenebre per giorni.
Non si poteva neppure rimanere a lungo fuori perché faceva freddo e il tasso di umidità era molto elevato.
Come se non bastasse, quell'anno avrei anche avuto il saggio.
Mi ero preparato duramente per superarlo al meglio, ma l'ansia rimase comunque fino al giorno dell'evento. Poche ore prima avevo chiamato Sonia per dirglielo e  condividere con lei le mie paure. Sapevo che mi avrebbe capito e rassicurato, e in un certo senso

Alla presentazione era pieno di gente. Della mia famiglia erano venuti i miei genitori, mia sorella e i miei nonni, assieme ad alcuni zii. In tutto erano in dieci. La cosa non mi preoccupó fino a quando non salii sul palco del teatro con soltanto due miei compagni. Eravamo noi tre, gli incaricati ad aprire il saggio.
Su di noi gravava questa responsabilità, forse perché eravamo i più precisi e responsabili e potevamo garantire un inizio decente.

Il saggio durò un'ora e mezza, e fu un momento memorabile. Nonostante l'agitazione iniziale potei constatare di aver vissuto uno dei momento più emozionanti dell'ultimo periodo. Me ne sarei ricordato a vita. La musica, la coreografia, la gente che applaudiva. Fu qualcosa di magico che avrei custodito nel bagaglio dei ricordi e raccontato a voce a Sonia non appena fosse tornata a Torino.

Fummo tutti molto soddisfatti di come andó: io, i miei parenti che non smisero un attimo di applaudire, Tommaso, Fabio, Annabella. Andrea. Anche lui era venuto a vederci. Era seduto proprio accanto a mia madre, in prima fila. Indossava una giacca blu, una camicia bianca e dei pantaloni non troppo attillati del colore della giacca. Era elegantissimo.
Per tutto il tempo aveva sorriso, era contento di assistere ad uno spettacolo dove ci fosse il suo fidanzato al centro dell'attenzione assieme a me e ad un altro ragazzo. Sorrideva e batteva le mani ad ogni occasione in cui poteva farlo. E scambiava qualche sguardo di intesa a Fabio. Qualcuno di essi cadde anche sui miei occhi. E fui talmente imbarazzato di incrociare il suo sguardo che, per una frazione di secondo, mi parve di essere l'unico presente in quella sala oltre a lui; per una frazione di secondo non ricordai più cosa dovessi fare.

Poi spostai lo sguardo altrove, verso mia sorella, che mi trasmetteva piú sicurezza di quanto non facessero quelle iridi che non avevo mai incontrato prima di quel momento.
Lei in realtà si limitava a guardare un punto fisso davanti a sé, forse verso la sceneggiatura: a dire il vero era proprio il fatto di non fissarmi ad avermi fatto decidere di guardare lei invece che qualunque altra persona. Sembrava un po' svampita, ma almeno non mi deconcentrò. Era rassicurante per me non sentirmi osservato, riuscivo a concentrarmi meglio. Preferivo non ricevere neppure un sorriso, avrebbe potuto distrarmi (osa che aveva fatto fino a poco prima Andrea). Per quei pochi istanti in cui i nostri occhi si erano incrociati, ero rimasto imbambolato. Per me, i suoi occhi erano come un turbine in cui rischiavo di perdermi. Erano bellissimi e... sconosciuti.
Cosí come le sue labbra rosse: sollevatesi in una curva, si erano mostrate in uno dei iú bei sorrisi avessi mai visto. Forse aveva percepito la mia agitazione e aveva cercato di confortarmi. In fondo, ero pur sempre un ballerino come il suo ragazzo.

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now