Uomini e topi

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(Brano 2° classificato nel concorso CM Arena di HS Tanner)

Regole: dovrà essere un monologo di 500-1500 parole, tutto in prima persona e al passato remoto. Si può scegliere il protagonista fra: prigioniero di guerra, soldato in zona di guerra, bambino in zona di guerra. Il protagonista deve avere qualcosa di particolare, a livello fisico o mentale. Nella prima scena il protagonista deve vedere qualcosa di scioccante alla finestra e da lì inizia a ricordare. Io ho scelto il prigioniero di guerra .

Si tratta di un genere che mi è completamente nuovo e che no so se ho reso al meglio... mi potete dire cosa ne pensate? grazie :-*

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Quella mattina fui svegliato da un rumore proveniente dal cortile davanti alla mia cella.

Era un rumore che non sentivo da tempo e che mi fece accapponare la pelle. Metallo sbattuto con forza contro qualcosa di non troppo duro, come il corpo di un animale.
O di un uomo.
Tonfi sordi che continuavano incessanti, accompagnati da lamenti sempre più flebili.

Iniziai a sudare freddo, mentre la mia mano destra andò a sfiorare, come ogni volta che ero in ansia, la cicatrice che correva lungo tutto il lato sinistro del mio viso. Sentii le ossa sporgenti degli zigomi, qualche pelo ispido della poca barba che mi era rimasta e la pelle floscia dove una volta c'erano state le guance, pallido spettro dell'uomo che fui. In quel momento non ci feci caso.

Il mondo si era ridotto a un buco nero nel quale risuonavano quei colpi sordi.

In qualche modo il mio corpo si alzò, senza che ne fossi pienamente consapevole.

Quando tornai in me ero di fronte alla finestra.

Serrai gli occhi mentre le mie mani ossute afferravano le sbarre, così violentemente da darmi la sensazione che si sarebbero spezzate.

Un altro colpo. Un altro lamento.

Deglutii e aprii gli occhi.

Stavano massacrando di botte il Capitano Müller, in mezzo al cortile, a monito per tutti gli altri prigionieri. Per noi, perché non fossimo così folli da pensare di emularlo tentando la fuga dal campo di prigionia.
Erano cinque contro uno e quando si spostarono per colpirlo meglio vidi cosa stavano utilizzando per la loro impresa.

Vanghe.

Gli occhi mi schizzarono fuori dalla testa e la mia bocca si aprì in un grido silenzioso. Scivolai a terra grattando con le unghie il muro e cercando disperatamente di respirare. Di non urlare. Di non perdere definitivamente il senno.

Mi ritrovai in ginocchio, a fissare le strisce di sangue che i miei polpastrelli martoriati avevano lasciato lungo il muro e sul pavimento.

Mi sembrò che quel rosso arrivasse a coprire tutte le pareti, mi assalisse e mi sommergesse.

Chiusi gli occhi ma non servì a nulla.
Continuavo a vedere il sangue grondare dal muro e dalle vanghe sollevate per colpire, continuavo a sentire i colpi e i lamenti.
Vidi emergere da quella marea rossa gli occhi del Capitano Müller che mi guardavano supplichevoli alla ricerca di un aiuto che non sarebbe arrivato mai.

All'improvviso gli occhi che mi fissavano non erano più quelli neri di Müller, ma quelli azzurri di Franz. Tornati ancora una volta a perseguitarmi.

Mi ranicchiai nell'angolo più buio della cella per sfuggire a quello sguardo accusatore, ma era impossibile.

Con le mani contratte in mezzo ai pochi capelli rimasti, il respiro affannato e gli occhi sbarrati, all'improvviso non fui più nella mia cella, ma di nuovo nel rudere di quella casa poco fuori Leningrado, dove ci nascondevamo spesso nei turni di riposo, per non restare in trincea a dormire.
Eravamo l'esercito attaccante eppure ci muovevamo come topi, ci nascondevamo come topi. Sembravamo noi la parte sotto scacco, non il contrario. Avevamo fame, freddo, eravamo male equipaggiati, giovani e spaventati. Scaraventati all'inferno senza una preparazione adeguata, forniti di poche armi e con la testa piena di tante belle parole e intenzioni, che si sgretolarono di fronte all'orrore nel quale ben presto fummo immersi fino al collo. Come quando, per sopravvivere, fummo costretti anche a rubare ai morti i pochi viveri commestibili, o gli abiti consumati, o le armi mezze rotte. O quando ci ordinarono di portare un attacco lungo la Strada della Vita che si snodava attraverso le acque ghiacciate del Lago Ladoga, per impedire che le vettovaglie, dirette alla popolazione di Leningrado, arrivassero a destinazione. In un primo momento tutto il mio essere si ribellò a quell'ordine, perché sapevo che, se fossimo riusciti nell'impresa, avremmo causato la morte per fame di tanti innocenti. Uomini, donne e bambini il cui unico torto era stato quello di essersi trovati a vivere nella città sbagliata nel momento sbagliato.

Da bravo soldato obbedii.
Portammo a compimento la missione con successo e in quel momento svanì anche l'ultimo miraggio di stare combattendo una guerra giusta, insieme a tutto ciò che ero stato prima di arrivare lì.

Passarono i giorni. Il mio corpo si disfece lentamente a causa del freddo e delle privazioni e, contemporaneamente, la mia mente cancellò ogni valore e si aggrappò a un unico pensiero: restare vivo, a qualsiasi costo. Niente più eroismi, niente più principi o etica. Solo sopravvivenza.
Come un animale.
Come un topo.

Ogni volta che vedevo un bengala partire dalla città sotto assedio ero fra i primi a correre a nascondersi, anche se sapevo che, il più delle volte, questi venivano sparati solo per seminare panico.

Non mi interessava più che i superiori mi considerassero un pusillanime, un codardo. Non mi interessava più niente.

Giunse l'inverno. Vennero i giorni del gelo, quello vero.
Le trincee erano trappole mortali di neve e ghiaccio, in cui stavamo appostati in attesa di ordini che non arrivavano per giorni.
Di notte vivevamo un incubo di terrore senza nome, passando le ore a osservare i dintorni avvolti nel buio, per capire se fossero in arrivo le ronde nemiche mandate a stanarci e a ucciderci, armate di vanghe perché i colpi dei fucili avrebbero fatto troppo rumore.

All'inizio sembrò solo una leggenda creata per farci rimanere all'erta.
Invece no.
Fu Franz ad accorgersi che stavano arrivando, in una notte senza luna, silenziosi come serpenti.

Poco prima ci eravamo accorti che il mitragliatore che avevamo in dotazione si era inceppato a causa del ghiaccio, così ci guardammo in preda al panico, sapendo di non aver modo di difenderci.

Intorpiditi dal freddo e dalla fame, iniziammo a strisciare lungo la trincea il più silenziosamente possibile e presto raggiungemmo i ruderi della casa che usavamo nei momenti di riposo.

Andammo lì dentro a nasconderci, pensando che fosse una buona idea.
Io mi misi in un punto dal quale potevo vedere sia Franz che uno scorcio della zona esterna. Il mio amico, invece, si acquattò dietro un muro mezzo diroccato dalle cui fessure poteva tenere d'occhio l'avanzare dei russi verso la trincea da cui eravamo fuggiti.

Forse facemmo un rumore, o semplicemente fu un sesto senso. Con terrore vidi che gli otto soldati nemici improvvisamente modificarono il loro percorso e si diressero senza esitazione verso il nostro nascondiglio.

Anche Franz se ne accorse e mi guardò. Nonostante fosse buio, potei scorgere la paura devastargli i lineamenti: non era ben nascosto e aveva visto che stavano arrivando proprio dalla sua parte. Provò a muoversi, ma fu agguantato al collo: uno della ronda, non visto, si era staccato dal gruppo ed era giunto da un altro punto cogliendolo di sorpresa.

Mi appiattii nel mio nascondiglio, incapace di distogliere lo sguardo da quello terrorizzato e supplichevole di Franz. Incapace di muovermi. Di alzarmi e difenderlo.

Continuò a guardarmi anche quando iniziarono a colpirlo con le vanghe. Mentre il suo sangue schizzava sul muro diroccato e lasciava una chiazza sempre più grande sul terreno. Mentre i suoi gemiti diventavano sempre più fiochi fino a che non si spensero. Tutto finì. Ma anche allora i suoi occhi, ormai privi di vita, erano incatenati ai miei.

La ronda non proseguì nella ricerca. Gli otto si allontanarono dal corpo di Franz e, semplicemente, se ne andarono.

Ero salvo. Se così poteva dirsi di un involucro svuotato da ogni umano sentire.

Mi misi le mani davanti alla bocca per non urlare e rimasi così, immobile, per ore, finché alcuni commilitoni non mi trovarono, mezzo congelato e in stato di shock.

Dei mesi successivi, fino alla resa di Paulus, poi non ricordai quasi nulla, se non che mi offersi per ogni missione, attacco, scorribanda venisse programmata.
Volevo morire.
Volevo cancellare dalla mente lo sguardo di Franz, che mi perseguitava ogni minuto di ogni giorno.

Capii che non sarebbe stato quello il mio destino quando, dopo la resa, fummo prelevati dai soldati sovietici per essere deportati nei campi di prigionia.

Non mi era concesso l'oblìo della morte. La mia condanna sarebbe stata vivere.

Vivere ogni singolo minuto della miserabile vita da topo in gabbia che ancora mi restava, sapendo di aver lasciato morire un amico senza fare nulla, sapendo che non avrebbe potuto esserci né salvezza né redenzione per me, che avevo svestito i panni di uomo nell'unico momento in cui avrei dovuto essere fiero di indossarli, qualunque fosse stato il prezzo da pagare.

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