Vincenzo era in stato confusionale, ma riuscì a chiedere:

«E' vivo? Gabriele è vivo?»

Lei sembrò seccata.

«CERTO che è vivo! Credi che mi darei tanto da fare se non fosse vivo? Ti sparerei un colpo in fronte e basta, no? Ora entra, che col buio finisce che fai dei guai.»

Questo modo di fare era così vicino a quello della Nives, spiccio, asciutto, che si sentì rincuorato. Almeno sarebbe morto per mano di una donna forte. Seguì le istruzioni alla lettera, con calma e metodo, portando a termine per bene il suo ultimo compito. Parcheggiò l'auto, dando ascolto all'ultimo borbottio della marmitta. Infilò il portafogli e il cellulare in tasca, anche se non gli sarebbero serviti, ma era abituato così. Diede un'occhiata al mondo alle sue spalle. Pensò che era stato bello. Difficile, ma bello.

"Meglio di così non mi è venuto."

Ed entrò nel macello.

*

Era già stato in un mattatoio, una volta. Non più attivo, era stato riconvertito da un architetto e ora ci esponevano delle opere d'arte appese ai ganci. Si era sentito male ma non era voluto uscire perché gli sarebbe sembrato maleducato. La Nives di arte era quasi del tutto digiuna ma tra i pittori che esponevano c'era pure un suo parente e allora non aveva voluto fare la zotica di famiglia. Se n'erano venuti via con addosso un senso di disagio, lui perché aveva immaginato troppo e lei perché non aveva capito granché. Stavano insieme da pochi anni e la Nives era ancora abbastanza soda da fare appetito a molti, ma quella sera non aveva avuto modo di soddisfare ed essere soddisfatta, perché a casa Vincenzo le aveva confessato di avere dei problemi con certe cose, si era messo a tremare accarezzando i gatti, poi era andato in bagno e non era uscito più. Ancora adesso, quindici anni dopo, Vincenzo aveva problemi con certe cose. Il posto gli mormorava di sangue e morte e bestie che avevano paura. L'odore era di vuoto, polvere, umidità che si mangia i muri. Camminava lento, senza riuscire a vedere bene, con l'ansia che si trasformava in angoscia e tutte le paure che confluivano in una sola, l'imperativo categorico: il bambino.

Dov'era il bambino?

Come lo salvava, ora, il bambino?

Come poteva essere certo che lo liberasse?

Non poteva.

Ecco tutto.

Alla fine aveva visto lui prima ancora di vedere lei. La scala a palchetto in cima a una piccola rampa. Sopra la scala una sagoma. Dalla sagoma a una delle travi di metallo una corda. Gabriele era un fagotto informe poggiato sul ripiano della scala munita di rotelle. Vivo, morto, non si capiva. Intorno al collo aveva un cappio semplice, nessun nodo scorsoio. Il cappio era stato assicurato alla trave di ferro. Se la scala si spostava il bambino scivolava giù e moriva impiccato. La scala era inclinata, senza freni o fermi, due ruote già giù dalla rampa. A tenere ferma la scala lei.

«Vieni avanti, Vincenzo, che non ti vedo.»

«C'è buio.»

«Sì, ma qui c'è un po' più di luce. Vieni avanti.»

«Gabriele è vivo?»

«E' vivo.»

«Come faccio a saperlo?»

«Puoi salire e toccarlo.»

«Perché la corda?»

«Per precauzione. Vieni avanti.»

Mise il piede su qualcosa di diverso dal cemento, frusciava, sembrava un telone cerato di quelli che usava per avvolgere gli alberi in inverno.

«Cos'è?»

Non ti faccio nienteWhere stories live. Discover now