Chi sta male non lo dice

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L'età del malessere è stato uno dei primi libri che mi hai prestato, non l'hai mai rivoluto indietro. La radice del tuo malessere era il risultato delle molteplici delusioni ricevute dai tuoi affetti importanti. Tu eri le foto che cancellavi, il sorriso nascosto dietro la mano messa davanti alla bocca. "Io ho paura di non poter fare nulla per aiutarti e sento anche che tutta questa roba non ti dà l'equilibrio che cerchi ma solo nuova rabbia. Ho paura che un giorno tu possa non piacermi più, perché ogni giorno che passa diventi un'altra persona. Penso sempre a quanto tu sia bello così." Mentre parlavo, tenevi d'occhio la bicicletta legata a un palo della luce dall'altra parte della strada. Eravamo rimasti seduti sulle panchine come se il tempo non passasse e quello fosse l'unico luogo possibile dove poterlo passare. Mi guardasti con disaccordo e ti voltasti nuovamente verso la bicicletta senza rispondere. Mi facevi arrabbiare perché per me tu eri sempre bellissimo, così bello che non credevo fosse possibile. Ogni ragazzo, in ogni momento della giornata lo paragonavo a te. Non c'era una volta in cui io avrei potuto dirti "no, secondo me staresti meglio così", perché tu non saresti stato meglio in nessun altro modo per me. Eri bellissimo quando sorridevi, quando mi prendevi in giro, quando mi ignoravi. Ti guardavo per minuti interi senza stancarmi perché non ci si stanca mai delle cose infinite. Ti inumidisti le labbra e con amarezza mi dicesti "tu non devi aiutarmi. Smettila di parlarmi come se fossi malato. Io so cosa devo fare, lasciami in pace, cosa vuoi da me?". Io da te non volevo nulla, o forse solo stare bene, nient'altro. Non pretendevo che curassi le mie ferite e nemmeno che mi insegnassi che non ero capace di sentirmi viva da sola, che le storie d'amore non sono altro che storie di vita destinate a finire. Non volevo niente, perché quando mi sono aspettata qual-cosa, la vita mi ha risposto "tanto non succederà", perché quando ho provato a essere felice, ho capito che mi sarebbe bastato solo stare meno male. Perché quando mi sono innamorata, ho capito che da me si può solo fuggire. "Non voglio niente Yannick. È che tu dici di sapere cosa devi fare, ma in realtà non lo sai. Non vuoi ammetterlo, non ti sei accorto di come il tuo viso sta cambiando, del fatto che non pensi ad altro?" Senza accorgermene, avevo alzato la voce, tu ti alzasti per dirigerti verso la bicicletta e con le chiavi in mano dicesti "Ifem io non sono una foto. Nella mia vita non ci dovete stare tutti. Se sto cambiando, forse è meglio che mi lasci. Io non mi sono accorto di niente, te ne sei accorta solo tu". Poi facesti un cenno della mano, come per salutarmi.


Non me ne ero accorta solo io. I primi a rendersi conto che eri diverso furono i professori. Una mattina chiamarono tuo padre e gli dissero che eri diventato problematico e lui minimizzò dicendo "è sempre stato così". Dimenticavi spesso lo zaino a casa e ti addormentavi in classe. Dissero a tuo padre che non parlavi con nessuno fuori dalle lezioni, che stavi sempre per conto tuo. Perché per loro essere adolescente significava parlare un sacco, chiacchierare per ore di niente, correre durante educazione fisica, fidarsi di chiunque. Non sapevano che per un ragazzo come te che aveva vissuto così tante solitudini affollate, era complicato essere qualcuno in mezzo ad altri. Smettesti di essere una persona in mezzo ad altre persone. Appena mettevamo piede fuori di casa ti aspettavi il peggio. C'erano momenti in cui ti sentivi vulnerabile e avevi timore di incontrare qualche conoscente che ti avrebbe fermato a parlare. A volte cercavi di distogliere l'attenzione dal tuo sentirti fuori posto, ma non sempre ci riuscivi.






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