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Sherlock è insopportabile.

Ho voglia di ucciderlo.

Lavoro con lui da un mese e per un pelo non l'ho fatto fuori. Se continua così non credo lo risparmierò con questa parsimonia la prossima volta.

- Virginia! Potresti essere meno irritante?! - esclama seduto sulla sua poltrona, pizzicando le corde del suo violino con le sue agili dita.

- Ascolta, sono appena entrata in casa tua, non mi sono nemmeno levata il cappotto e già ho voglia di andarmene.

- Oh, ne sarei tanto grato. - sussurra.

- Lestrade ha detto che la stampa sta facendo pressione. - provo a dire.

- Me ne frego della stampa. - sbuffa. Io mi prendo la libertà di togliermi il cappotto e di sedermi sulla poltroncina di fronte alla sua. Davanti a me, solo pile di libri accasciati sul pavimento, polvere e uno Sherlock sfrontato e sprezzante. Raggiungo il suo sguardo con sicurezza e decisione.

- Cosa? - chiedo vedendo il suo sguardo sgranato. Incrocio le gambe e cerco di non macchiare i braccioli con gli stivaletti di cuoio. Lui sembra ancora più interessato, quasi strabiliato dal mio gesto, mentre mi rivolge una sua occhiata bigotta. - Oh, è la poltrona! - esclamo. - Davvero comoda, devo dire. - respiro a pieni polmoni quel piccolo dettaglio di profumo che arriva alle mie narici. - Dopobarba. - affermo inclinando la testa. - Non il tuo, bambolino. Perché non rispondi? Il gatto ti ha mangiato la lingua?

- Niente gatti in casa mia. - sussurra con una punta di nostalgia.

- Suppongo che sia... la sua. - dico con aria materna. Non risponde di nuovo, e si appresta a scappare alla finestra con il suo strumento. Inizia a suonare una melodia nostalgica che non ho mai sentito. - L'hai scritta tu? - sussurro dietro il suo orecchio. Lui ne è chiaramente spiazzato. - Ho il passo leggero, lo ammetto.

- Sherlock! Sono arrivati! - irrompe la signora Hudson e quasi strizza gli occhi per la vicinanza tra me e Sherlock. Questo tizio è davvero così strano?

- Io faccio il te. - mi appresto a dire a testa bassa diretta verso la cucina. Sherlock era alquanto sorpreso dalla frase della donna, magari non aspettava dei clienti. Io apro la credenza e tiro fuori le bustine, riempio la teiera con l'acqua e mentre la metto sul fornello gli rivolgo uno sguardo. Si è precipitato sulla sua poltrona a pizzicare di nuovo le corde del violino. Vuole apparire con il solito tronfio e annoiato Sherlock.

- Sherlock! - sento dire da una voce pastosa appena entrata nella stanza. Rimango immobile per un attimo. Stesso dopobarba. Lui è tornato.

- Oh, John. - risponde piatto. Andiamo Sher, è il tuo migliore amico. Il tuo unico amico, a quanto ho visto.

- E così sei il famoso John Watson. - li raggiungo con passo da regina, e Sherlock non osa nemmeno alzarsi e salutarlo come si deve. John è un ometto carino, con un naso importante e gli occhi di un grigio freddo, le labbra sottili e i segni di una pubertà sofferta con i punti neri. Sarà alto meno di un metro e settanta e la nostra altezza grava un po', ma lo stesso non accade con le sue ciocche bionde, che nemmeno i miei boccoli rossi possono sminuire. Ha un viso molto gentile e il mento privo di barba. - Virginia Lake. - sorrido cordiale tendendo la mano. Gentile e di classe fin dal primo momento.

- Molto piacere, - mi stringe cordialmente la mano. È calda e ha un bella stretta, sento anche qualche piccola rughina sulla punta delle dita, infermiere? Ah giusto, dottore, me lo aveva detto Myc. - Non sapevo che avessi un caso. - si rivolge a lui.

- Ce l'abbiamo. - lo correggo. - Io sono il nuovo capo del dipartimento della scientifica del distretto. - accenno un sorriso. L'uomo sembra confuso. - Cioè, in realtà la Queenie ha dato i fondi a Scotland Yard e Lestrade ne ha approfittato per trovargli un nuovo babysitter. - scherzo.

Sento ancora qualche passo lieve sulle scale, troppo preciso per essere della Hudson, ormai trascina un po' i piedi per i gradini. E la vedo arrivare, avvolta nel suo impermeabile scuro, il sorriso sulle labbra, i capelli biondi scompigliati dal vento freddo. Mi ero quasi scordata che aspetto avesse, quella stronza. È un po' cambiata, ma non è male, ha sempre avuto quel sorrisino innocente di chi coccola i cuccioli e ama preparare i biscotti. Ah, ma guardala, pure incinta all'ottavo mese,è un maschietto. Allora i miracoli esistono davvero.

- Oh, Virginia, lei è mia moglie Mary. - me la presenta l'uomo. Lei mi sorride palesemente falsa, così come faccio io. "Le giuro, Vostro Onore, non ho mai visto questa stronza!" Si avvicina al centro della stanza, si slaccia l'impermeabile e fa sbucare fuori il pancione in un maglioncino sgargiante di quelli che portano le bimbe di otto anni a natale.

- Molto piacere, - sorrido mentre le stringo la mano, è ancora gelida come ai tempi di Stoccolma. - Virginia Lake, vivo qui di fronte. - iniziamo a marcare il territorio, tesoro.

- Mary Morstan. - accenna un sorriso dolce. Morstan. Mary. Ma che fantasia che hai.

- Lui come si chiama? - indico il pancione pronto ad esplodere. I due ridacchiano.

- Oh non abbiamo ancora trovato un nome... - si guardano. Anche io una volta riuscivo a guardare qualcuno in quel modo. La stronza è stata fortunata, Watson sembra un uomo gentile.

- John, oh John! - esclama la padrona di casa dalle scale al piano di sotto. - Ti piacerebbe scendere un attimo?

E come una piccola apetta operaia, l'uomo scende di fretta le scale. Sherl lo segue in un mugugno generale, non sia mai che non venga interpellato in qualcosa. La bionda aspetta qualche secondo, poi la teiera inizia a fischiare e mi precipito ad abbassare la fiamma. Lei mi segue, mettendomi unamano sulla spalla.

- Non ci credo che ce l'hai fatta.. - sussurra.

- Non fingere di essere felice per me, - inizio acida – stronza.

- Oh andiamo Virginia, sono passati così tanti anni.. - ridacchia. - Come va la tua mano?

- Andava meglio prima che mi sparassi a Stoccolma. - mi giro sorridendole, poi riprendo a versare l'acqua nelle tazze.

- Ne abbiamo già parlato.. - pronuncia in tono materno, come se fossi una bimba che fa i capricci.

- Earl Grey o vaniglia? - la ignoro.

- Ho saputo quello che è successo, mi dispiace davvero tanto... - ricomincia. Io non rispondo. - Vaniglia, è sempre stato il mio preferito.

- Sono stati due anni d'inferno, - aggiungo cercando di non scottarmi le dita – ma ne sono uscita una volta per tutte.

- È giusto ricominciare, dopo tutto quello che ci è successo, ti capisco.

- Lui lo sa? - la guardo negli occhi.

- Sarà meglio parlarne altrove, - sussurra – qui i muri hanno le orecchie.


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Hey,  che ti aspettavi?



















Cronache di una Sociopatica IperattivaWhere stories live. Discover now