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"Nella vita perdi sempre tutto ciò che vuoi.
Tornare indietro nel tempo, non puoi."

-Ognuno porta una sua particolare cicatrice dentro, dipende solo da quanto tu sia bravo a tenerla coperta.- mi ripeteva la mia mamma, lo faceva sempre, quando un motivo per dirlo e accentuare quelle parole, realmente, non vi era.

Le pareva, forse, carino ricordarmi quanto la vita potesse ferire qualcuno, anche solo sfiorandolo.

E, quelle parole, così persuasive e ricche di attrito, erano sornione sulle sue labbra rosse. E me le ripetevo, sempre.

E le ripropongo al mio organismo anche mentre preparo lo zaino e metto tutti i libri per domani, dopo aver fissato per mezz'ora il cellulare.

Ma non ha squillato, nemmeno per sbaglio, non ce ne sarà stata l'occasione, mi dico, per pensare a me.

-Celeste.- la voce acuta di mia zia riavvicina la mia attenzione a quel che è e mi volto, lasciando che lo zaino, dopo aver strisciato parallelamente alla mia gamba, cada a terra con un tonfo. Sorrido assurda.

-Celeste, tesoro, tutto bene?- mi guarda, chiudendo velocemente i bottoni della camicetta, mentre coi piedi cerca di infilarsi gli scomodi tacchi a spillo rossi.

Annuisco, accovacciandomi e rimettendo tutti i libri nella sacca nera, la chiudo e la getto sul letto, con scarsa attenzione.

Zia Maddy mi sorride, ancora, aggiustando i suoi capelli scuri, tenendo fra le labbra la forcina che le occorre.

-A che ora devi andare a lavoro?- mi domanda, mentre mi stravacco sul letto duro ed afferro un libro sul comodino, scocciata.

I capelli sul cuscino e le gambe penzoloni, ed ignoro il suo quesito troppo pieno d'ansia per i miei gusti.

Mordicchio il labbro, le parole di Emily Bronte, sempre le solite, sono la cura.

La sento sospirare, prima che i suoi tacchi propongano un ottuso suono sul pavimento rovinato di casa, mentre si avvia verso camera sua.

Trentatre anni e una nipote troppo ribelle a cui badare, il destino non risparmi nessuno.

Abbasso il libro sul mio ventre, sbuffando col senso di colpa, e mi guardo attorno, contraendo il mio labbro in una smorfia consapevole.

Lancio un'occhiata alla sveglia sul comodino e, con i palmi sulle coperte vecchie, mi sollevo, optando per cambiarmi ed andare a lavorare.

Prendo la solita camicetta e i consueti pantaloni neri, posizionandomi davanti allo specchio, cambiandomi velocemente.

Il ciondolo al mio collo risalta sull'abbigliamento semplice e me lo sfioro con le mani, portandolo alla bocca e stringendolo con le labbra; curiosamente, dondolo.

Con le mani armeggio e lego in una coda alta e sconciata i capelli castani, e poi dondolo un po', avanti ed indietro, il ciondolo ancora intrappolato fra i denti.

Lo lascio cadere e mi volto, con scatto repentino afferro lo zaino sul letto ed esco dalla camera, sbattendo la porta.

Un cenno a zia, un'altra porta chiusa con troppa forza e giù dalle scale; prendo la bici ed esco dal portone principale, ritrovandomi in una strada del mio quartiere.

Cresciuta come tanti, ha detto una volta la prof di filosofia, ai bordi di periferia.

Ma cosa ne sanno gli altri, mi ridico, prima di scacciare i pensieri.

Respiro, pentendomi di non aver indossato il giubbotto nero e salto in sella, sistemando il telefono nella tasca posteriore e mettendo le cuffie.

Provo a star sola, sempre. Con la più quieta e stramba, nonché perfetta, solitudine, che mi segue incessante, mi sento a casa.

Hands Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora