Parte 1 - 1

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La signora McLeod diceva sempre che senza una famiglia non era possibile avere una vita normale e felice. Secondo lei bisognava contare su qualcuno, fidarsi e lasciarsi aiutare nei momenti di difficoltà. Beh, si sbagliava. Io ero la prova vivente che tutte le persone come la signora McLeod avevano torto: vivevo sola, giorno dopo giorno, badando a me stessa. Per me non esisteva nessun altro. Il mio unico scopo era arrivare a sera con la pancia piena e il cuore leggero.
"Ehi, bellezza!" una voce roca e minacciosa attirò la mia attenzione. Spike.
"Stai lontano!" gli intimai con fermezza.
Spike si materializzò davanti ai miei occhi con il suo solito sorriso beffardo. I suoi occhi brillavano nell'oscurità della notte e riflettevano la luce arancione del lampione sotto cui ci trovavamo.
"Avanti, è stata una giornata dura per tutti. Non essere egoista." Allungò una mano per afferrare il panino mezzo mangiato che avevo recuperato vicino ad un fast food.
"È il mio bottino, Spike. Gira al largo!" con un riflesso felino lo bloccai e presi la mia cena con rabbia.
"Stai scherzando, vero? Non hai intenzione di dividere?"
Mi alzai di scatto e mi incamminai lungo il marciapiede. "Non ti devo niente."
"Gli amici si aiutano." L'urlo di Spike riecheggiò nella città, facendo scappare alcuni uccelli appollaiati sui rami degli alberi.
"Non ho amici." Senza voltarmi addentai il mezzo panino lasciando che il suo sapore mi invadesse la bocca.
Non era sempre facile trovare del cibo, ma quando ci riuscivo mi godevo il momento. Qualsiasi cosa si poteva mangiare: avanzi di un ristorante, frutta rubata dalle fattorie, bucce di patate trovate tra la spazzatura. L'importante era che l'odore fosse ancora buono. Era bello vivere senza regole, ma la mia era una vita difficile. Sopravvivere era quello che facevo tutti i giorni, combattevo per avere una vita. Non mi importava che genere di vita fosse, io volevo solamente vivere.
Camminai per le vie di Los Angeles per un tempo che mi parve infinito; mi lasciai trasportare dalle mie gambe senza sapere dove stessi andando. Osservare la città di notte era l'unico lusso che potevo permettermi: le finestre dei palazzi rispecchiavano la luce dei lampioni, le strade erano deserte, il vento soffiava leggero muovendo le foglie degli alberi. Mi sentivo la padrona del mondo. Una pura e semplice illusione che mi faceva credere di essere una ragazza come le altre. Semplice e felice. I miei sensi si misero in allerta appena percepii delle voci provenire dall'angolo della strada. Rallentai il passo fino a sentirmi abbastanza sicura di non essere notata.
"Hai fatto un ottimo lavoro. Il giorno dell'inaugurazione il locale sarà pieno."
"Lo spero, amico. Sarebbe un inizio fantastico."
Il rumore di un mazzo di chiavi echeggiò nella via rivelandosi l'unico segno di vita in tutta la città. Voltai l'angolo con passo lento e deciso, pensando a come attuare il solito piano che mi permetteva di sopravvivere giorno dopo giorno. Davanti alla porta di un pub si trovavano due uomini: uno alto e muscoloso, l'altro leggermente più basso e con le spalle larghe. Entrambi erano vestiti in modo elegante con pantaloni e camicie dall'aria costosa; avevano un aspetto curato e sofisticato. I classici uomini d'affari con un portafoglio pieno di contanti. Continuai a camminare, andando verso l'uomo muscoloso che scherzava con l'amico. Nessuno dei due mi vide arrivare e li colsi di sorpresa quando mi scontrai contro quel muro di muscoli e forza.
"Oh, mi dispiace tanto. Sono proprio sbadata."
L'uomo mi afferrò aiutandomi a mantenere l'equilibrio. "Si sente bene?
Ero ancora in tempo per raggiungere il mio obiettivo.
"Sì, mi scusi. Ho solo bevuto un bicchiere di troppo." Dalla mia bocca uscì una risatina stridula, mentre la mia mano si avvicinava silenziosamente alla tasca posteriore dei pantaloni dell'uomo.
"Forse dovrebbe chiamare un taxi." Suggerì l'altro.
"Abito qui vicino, sono quasi arrivata." Mi giustificai sfilando lentamente la mano dalla tasca.
Mi allontanai fingendo di riacquistare un po' di lucidità e mi rivolsi all'uomo che avevo di fronte. "Mi scusi ancora."
Senza aggiungere altro, mi incamminai nella direzione opposta a quella dalla quale era venuta e accelerai il passo per mettere più distanza possibile tra me e i due uomini. All'improvviso un urlò squarciò il silenzio notturno e il cuore prese a battermi forte contro il petto.
"Ferma! Il mio portafoglio!"
Iniziai a correre con tutte le forze che avevo nel corpo e mi addentrai in una via buia che conoscevo bene. A prima vista poteva sembrare una strada chiusa, ma in fondo a sinistra c'era una rete rotta che conduceva alla riva di un canale.
"Fermati!"
Mi buttai a terra strisciando sull'asfalto caldo e oltrepassai la rete stringendo tra le dita il portafoglio di quel povero uomo. Mi nascosi dietro il primo albero che vidi e trattenni il respiro. Questa era la parte più difficile ogni volta che derubavo qualcuno: scomparire. Bisognava nascondersi bene, in posti stretti e apparentemente improbabili, e non si doveva fiatare. Qualsiasi piccolo rumore poteva tradire la propria posizione.
"L'hai presa?" Una voce spezzata dal fiato corto risuonò nella via.
"No." L'uomo del portafoglio imprecò e colpì qualcosa con forza.
Quando li sentii allontanarsi, ricominciai a respirare. Lentamente, il mio battito cardiaco rallentò e i muscoli si rilassarono. Tra le mani tenevo ancora la mia unica possibilità di sopravvivere per un altro giorno.
Il portafoglio era pesante e morbido, rivestito di pelle scura. Un leggero sorriso mi increspò le labbra, mentre l'adrenalina e la felicità si facevano strada nelle mie vene. Mi allontanai dall'albero avvicinandomi alla riva del canale ed esponendomi alla luce della luna che regnava alta nel cielo. Il rumore dell'acqua che scorreva era l'unica cosa che mi trasmetteva tranquillità in quel momento di forte trepidazione. Mi sedetti sull'erba umida e aprii il portafoglio. Un profumo di pelle misto a una fragranza ambrata invase i miei sensi, trasportandomi in un mondo lontano dalla strada, dai cassonetti e dai senzatetto. Le piccole tasche interne erano piene di biglietti da visita e di tessere dei club più rinomati di Los Angeles. Due carte di credito erano incastrate in una cavità dietro la tasca principale, quella dove si trovavano i contanti. Contai le banconote e rimasi delusa nello scoprire che il portafoglio conteneva solamente cinquanta dollari. Mi aspettavo una somma più consistente.
Mentre rimettevo i soldi al loro posto, notai un documento: una carta d'identità. Ogni volta che controllavo il lavoro della giornata trovavo una moltitudine di patenti, passaporti o permessi di soggiorno, ma non avevo mai controllato chi fossero i poveri sfortunati che avevano perso i loro soldi a causa mia. Stavolta, invece, nacque una forte curiosità dentro di me e non fui in grado di controllarmi. Estrassi la carta d'identità e la osservai. Era rivestita da una pellicola di plastica trasparente che la proteggeva dai segni tempo; a sinistra c'era una foto e a destra si trovavano i dati anagrafici dell'uomo che avevo derubato.
La sfortunata vittima si chiamava Ryan Woods e abitava a Los Angeles. Era biondo con gli occhi grigi, aveva un naso dritto, la mascella squadrata e le labbra piene. Come me, anche lui aveva ventiquattro anni. Misi il portafoglio nella tasca della giacca e mi sdraiai osservando le stelle e ascoltando lo sciabordio dell'acqua del canale.

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