Lavori forzati

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Un rivolo di sangue iniziò a scorrere lungo le mani di una giovane ragazza. La corsa del fluido non fu interrotta da nessun ostacolo, poiché ormai le estremità si erano abituate a tal costume. Le rosse perle iniziarono a fondersi poco più in basso dell'impugnatura di un piccone, cadendo poi in una pozza d'acqua putrescente unendosi, come la vita ad un corpo, a quell'esercito di malattie ristagnati. Gli unici rumori che venivano uditi erano il vagare delle picconate contro le spesse pareti della cava. Chilometri di tunnel scavati nel sottosuolo d'Akavir rendevano impossibile la fuga fra le loro curve nodose. Le mani si erano riempite di vescichette color cremisi e, fra le nuove, ce ne erano di altre molto più vecchie con cicatrici molto evidenti anche al disotto della spessa pelliccia. Il pianto non poteva lenire le sofferenze, quindi il numero tredici sapeva benissimo di non doverlo fare, i carcerieri si sarebbero di certo infuriati con lei, pestandola ancora una volta con l'elsa di una spada, come facevano spesso quando lei era bambina. Non aveva mai conosciuto la gioia, e molto probabilmente non sapeva l'esistenza di quest'emozione; la sottomissione, invece, era l'unica cosa di cui era perfettamente cosciente. Quando vide i genitori morire sotto un crollo non provò niente, forse rabbia all'inizio ma la cosa scemò presto. Non era una ragazza molto loquace, poiché per la maggior parte del tempo portava delle robuste morse fissate con dei perni alle ossa del muso che le impedivano di poter aprire bocca, spesso i lembi di pelle s'infettavano e le cicatrici si aprivano facendo uscire pus giallastro e consapevolezze di dolori imminenti. Gli aguzzini controllavano più volte che le valve del blocco fossero ben salde. Almeno una volta al giorno scendevano nei cunicoli e, dopo aver strattonato con forza le chiusure in metallo, lasciavano gli schiavi per terra agonizzanti dal dolore. La ragazza capì che i carcerieri avevano paura di qualcosa nascosta forse nelle loro bocche, ne era sicura. Non avrebbero avuto tali accortezze altrimenti. Mentre le braccia iniziavano di nuovo ad ottenere quel loro moto ripetitivo ed i suoni di pietre rotte diventavano monotoni, lei ricordò di alcune storie che la sua popolazione si scambiava seduti su sporchi pagliericci alla luce delle poche torce. I pesanti oggetti ferrei attaccati al muso si dissolvevano per magia non appena le persone entravano nelle loro stanze, per poi riapparire appena varcati la soglia d'uscita. In questi rari momenti, dove la maledizione non era evocata, riaffioravano alla mente ricordi di episodi accaduti ere addietro raccontate loro, in assoluto segreto, da alcuni prigionieri che avevano acquisito queste storie tramandandosele oralmente da generazione in generazione. Le fu raccontato di un tempo in cui la razza Volpe viveva libera, in tribù disposte lungo le coste di Argonia. I primi Betmer avevano iniziato un processo evolutivo differenziandosi geneticamente a seconda del territorio da loro occupato. Molti altri, invece, stringendo patti con i Daedra avevano assunto le forme più assurde e disparate. I Lilmothiit erano una popolazione che viveva di pesca e caccia. Le braccia, così desiderate dagli Tsaesci per la loro forza, servivano per rincorrere la preda ed attaccarla. Il branco, una volta composto, rimaneva indissolubile e creava una tribù che, però, manteneva stretti contatti con le altre al di fuori del confine. Il clan così formato eleggeva un capo che amministrava i rapporti economici, sociali e militari della comunità. Fungeva anche da leader spirituale, sempre in contatto con Anu era i suoi occhi e la sua volontà, fra il più abile mago e guerriero aiutava in battaglia con l'evocazione delle Spriggan. Le tribù iniziarono ad avere complesse strutture gerarchiche, collegate le une alle altre per il corretto funzionamento della società. La più famosa di queste era la capitale dei regni Lilmothiit, Tosca. Era, prima dell'invasione degli umani da Atmora, la più grande cittadella di Argonia. Le continue incursioni degli Argoniani venivano fermate dai guerrieri d'elite e dalle numerose Spriggan create. Il popolo Volpe addestrava i propri combattenti all'uso delle arti magiche, l'addestramento variava a seconda del grado di affinità con la magia. Chi non ne avesse, veniva reclutato come guerriero.

<<Numero tredici, è ora di riposare.>> Disse una giovane guardia Tsaesci alla ragazza, che in un leggero sussulto si ridestò dal sogno ad occhi aperti.

L'intreccio del NirnWhere stories live. Discover now