Prologo

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Prologo





Adoravo il mattino.

Ancor di più, adoravo il mattino in casa mia.

Il familiare profumo della colazione che consisteva in pancake con frutti di bosco o gocce di cioccolato, come la tradizione della nostra famiglia voleva ed il vocio proveniente dalla televisione in salotto, la frenesia della giornata che comincia, il sole che si infrangeva contro le tende color lavanda della mia camera.

Quello però sarebbe stato l'ultimo giorno in cui mi sarei svegliata tra quelle pareti  sommerse dalle mille fotografie che, da quando ero piccola, avevano man mano occupato ogni piccolo spazio libero. Con il cuore già colmo di nostalgia osservai malinconicamente alcune delle immagini che preferivo, che ritraevano una me più piccola in compagnia dei miei cari.

Imposi a me stessa di alzarmi e, con lentezza, mi diressi verso la sedia dove erano adagiati gli unici vestiti che non erano finiti in quelle valigie che ora mi attendevano in corridoio, in attesa di essere trascinate lontano da lì.

Indossai senza fretta la maglietta blu ed il paio di jeans chiari per poi chiudermi alle spalle la porta del bagno.

Stavo vivendo a pieno tutti quegli ultimi momenti.
Amavo il mattino ma quella volta era diverso, perché quel giorno sarei andata via.

Raggiunsi la cucina dove mi aspettava l'ultima colazione e mi venne da ridere riflettendo sul tono solenne con il quale stavo etichettando ogni mia azione. Sorrisi a mia mamma, appoggiata al piano della cucina, che a sua volta sorrideva tristemente alla sua figlia maggiore che stava per partire. Sospirava ripetutamente chiedendomi in silenzio di ripensarci, ancora.

Indossai la giacca e presi in mano la valigia più grande mentre mio padre caricava il resto dei bagagli in macchina. Quella mattina anche l'aria aveva un profumo diverso, l'odore dei fiori era più forte, tutto mi sembrava migliore come se la più piccola parte di me cercasse una scusa per convincermi che partire non fosse la scelta giusta. Il mio sguardo si impigliava perfino tra i più impercettibili particolari, come le crepe nel legno delle travi o il muro sul quale la mia altezza era progressivamente stata annotata con colori diversi a seconda dello scorrere degli anni.

Salii in macchina e lasciai sbattere lo sportello dietro di me. Sentii il rombo ruggente del motore, poi il silenzio. Nessuno aveva il coraggio di parlare, quasi come se farlo avrebbe distrutto quel finto equilibrio tranquillo che ognuno di noi cercava di portare avanti fin quando non avessi messo piede sul treno.

Guardai l'ultima volta la mia casa che scompariva dietro la curva alberata. Ripensai alle mie giornate trascorse lì fino a quel momento e come da quel giorno in poi tutto sarebbe cambiato. I corridoi lunghi ed illuminati si rincorsero nella mia mente, le immagini di mia mamma ai fornelli che cucinava per il pranzo con i nonni, mio padre chino sul computer a leggere di politica, mio fratello che in giardino si esercitava senza sosta per diventare il migliore della squadra. Ad occhi chiusi cercavo di imprimere nella mia testa tutti questi piccoli particolari che avevo sempre dato per scontato, come se avessi il timore di poterli dimenticare una volta lasciato il paese.  Una volta che avrei lasciato la mia vita, che spesso avevo creduto non essere un granchè; la mia vita, che dopotutto, mi sarebbe mancata.

***

La stazione era affollata e scorsi il treno che mi avrebbe portata fino all'aeroporto, da dove sarei volata lontano, in quella città che prometteva sole, spensieratezza, belle giornate e rinascita. Fino alla mia nuova vita. Osservavo con attenzione coppie innamorate che si scambiavano saluti, ragazzi e ragazze con bagagli che salutavano i propri genitori, pronti a partire e non potei far a meno di sorridere al pensiero che a partire, questa volta, tra tutti quei volti che avevo invidiato tante volte, c'ero finalmente anche io.

Attraverso la folla frenetica, notai una chioma di capelli mori avvicinarsi e capii che era arrivato il momento.

Mi feci stringere dalle braccia salde di mio padre che mi sussurrò con voce spezzata e tentennante  un flebile "ti voglio bene, piccola" che venne ricambiato con una stretta ancora più forte da parte mia.

Guardai verso il mio fratellino, che nei suoi capelli scuri ed i suoi occhi castani cercava di non sembrare troppo triste alla mia partenza. Somigliava incredibilmente al nostro papá, anche nei modi di fare, che sentii familiari mentre mi attirava a se, sovrastandomi in altezza nonostante fosse più piccolo di un paio di anni.

"Ciao Aiden, ti voglio bene" sussurrai contro il suo petto ben allenato "non far girare troppo la testa alle ragazze" rise stringendomi forte.

"Torna presto, mi mancherai" rispose lasciandomi andare.

Guardai mia mamma che cercava di trattenere senza risultato alcune lacrime.

"Ciao mamma" dissi fiondandomi nel suo caldo abbraccio. Mi baciò la guancia e mi guardò con dolcezza prima di passarmi una piccola fotografia. Osservai il volto di mia madre, che cercava di assorbire le mie emozioni, come a valutare se avesse preso la scelta giusta mostrandomi quel piccolo pezzo di passato che mi apparteneva.

Guardai la foto. Ritraeva una me bambina, forse introno ai nove o dieci anni. Uno chignon ordinato troneggiava sul mio capo. Mantenevo in mano un piccolo trofeo dorato mentre sorridevo alla fotocamera, nel mio vecchio tutù bianco. La misi in tasca con un sorriso forzato e poi parlai, dopo aver scrutato ancora una volta il viso incerto di mia mamma.

"Per non dimenticare mai chi sei" sussurrò socchiudendo gli occhi con fare complice, per poi stringermi ancora tra le sue braccia.

"Ti voglio bene mamma"

"Ti voglio bene piccola mia"

Mi staccai a malincuore da lei e guardai la mia famiglia, prima di allontanarmi per raggiungere la mia amica che salutava in lontananza con un sorriso eccitato.

Salimmo sul treno dopo aver lasciato i tanti bagagli e prendemmo due posti vicino il finestrino, poco prima che il grosso macchinario partisse. Non riuscivo più a tenere dentro di me l'entusiasmo, pensando che in poco tempo saremmo arrivate all'aeroporto e da lì saremmo volate lontano.

Guardai fuori, oltre il vetro e salutai un'ultima volta prima di vedere le loro figure rimpicciolire e poi svanire oltre la banchina ancora affollata.

La mia compagna mi sorrise stringendomi una mano ed io ricambiai prima di tirare fuori la vecchia fotografia. La osservai con attenzione e malinconia poi la cacciai nuovamente nella mia giacca di pelle.

Guardai ancora una volta verso la natura che ci sfilava davanti, fiera dei suoi colori accesi e vivi e mi ritrovai a leggere sull'insegna il nome della mia città diventare sempre più piccolo.

La scritta in rosso che recitava "Aveley" scomparve oltre le curve.

Sospirai e lasciai cadere la testa sulla testiera del sedile, rilassai i muscoli della schiena ed un fremito mi scosse. Senza ragione mi abbandonai ad un sorriso ed una nuova consapevolezza lentamente si fece strada in me, come se prima di allora non ne fossi stata ancora del tutto convinta.

Trovarmi lì, su un treno che sfrecciava veloce verso l'aeroporto di Londra, pronta a decollare verso una terra completamente nuova, ne fui pienamente certa.
Niente sarebbe più stato uguale.

Stavo andando via.





























Se state leggendo quest'improvvisato spazio d'autrice, vuol dire che avete trovato la mia storia. Benvenute! Spero che possiate rimanere con me per tutto questo viaggio.
Prometto che mi impegnerò a farvi ridere, farvi piangere, farvi arrabbiare, divertire, avere paura, sorridere, sognare ed innamorarvi insieme ai miei personaggi. 
E spero che questo sia un viaggio meraviglioso, che valga la pena di essere vissuto.

Grazie per essere passate di qui.
Un bacione enorme!

A presto!

Seguitemi su Instagram se volete. Mi chiamo "noemi_antenucci".

Damaged (#Wattys2020)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora