1. L'idea

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Il figlio scriteriato, ecco cos'era per tutto il mondo che lo guardava ogni giorno. Scese i gradini di ferro che collegavano gli uffici della contabilità con il cuore della fabbrica e si sentì sulla pelle gli sguardi degli addetti alla pressa.

Un rumore sordo e battente risuonava nel capannone in cemento. La suola della scarpa destra si macchiò di olio e dovette strisciarla per qualche metro sul pavimento per pulirsi. Il caporeparto diede una tirata vigorosa alla sua Merit e gettò il mozzicone nel canale di scolo che portava gli scarti oleosi fuori dalla produzione.

«La fighetta si è degnata di scendere all'inferno,» gli sussurrò nell'orecchio il compagno di reparto che stava tenendo in equilibrio un lingotto di piombo fuso sopra la bocca della fornace. Marchesoni si era fatto tutta la trafila aziendale e in venticinque anni aveva ottenuto il privilegio di poter fumare durante l'orario di lavoro. Guardò il mozzicone scivolare lentamente nell'olio nerastro e si pulì il sudore con il dorso del guanto in pelle.

«Si vede che il paparino gli ha detto di andarsene a fare un giro in mezzo a chi lavora sul serio. Questa mattina uscivano i lampi dell'ufficio di sopra.» Il caporeparto fece cenno al collega di prestare attenzione al lingotto perché stava colando da un lato. Si affiancarono e, agendo sulle catene di trasporto, riuscirono a sversare tutto il liquido nella fornace. Un rutto di lava di alzò fino a sfiorare il soffitto e i due sorrisero soddisfatti.

Il ragazzo si era tenuto distante dalla zona di carico e, tenendosi con le spalle a contatto con il muro, non aveva resistito allo spettacolo dello sversamento. Marchesoni si tolse gli occhiali con le lenti annerite dal fumo e con un lungo fischio richiamò l'attenzione dei colleghi della zona di fusione.

Il fischio del caporeparto percorse una cinquantina di metri e si stampò nelle orecchie dei due pakistani che chiusero la condotta del fiume di fuoco. Marchesoni conviveva con ogni tipo di etnia da oltre dieci anni e si esprimeva a fischi. Uno corto e acuto significava un richiamo all'attenzione. Lungo e basso, fine del lavoro. Due secchi, vado a bermi un caffè.

Mahmood si tolse la maschera in cuoio marrone e il suo sorriso anticipava l'aroma del caffè che finiva nella sua gola assetata. Il caporeparto aveva fischiato due volte, ma ne aggiunse un terzo. Una rarità, ma significava che voleva godersi la pausa in solitario.

Il ragazzo si era appollaiato sullo sgabello in legno e fissava il calendario appeso sopra al distributore di bevande. Le sue mani stringevano il bicchierino di carta ormai vuoto, come se dovessero aggrapparsi a quest'ultima speranza di vita.

Marchesoni inserì la chiavetta nella fessura e pigiò il bottone. Nella stanza con i muri ingialliti dal fumo delle sigarette e la porta senza maniglia riusciva a ritagliarsi dei brevi momenti per pensare.

«Preferisco Marzo,» disse guardando il ragazzo che aveva da poco distolto gli occhi dal calendario. «Marzo ha le tette grosse, solo Agosto gli può andare vicino.»

Il ragazzo scese dallo sgabello e gettò il bicchierino nel bidone in plastica azzurro. Una goccia di caffè si mescolò con i mozziconi di sigarette e con la saliva che colava sul bordo interno.

«Dobbiamo farlo, non abbiamo alternative.»

L'operaio mescolò il caffè con la palettina in plastica e rimase a fissare il fondo. Davanti a lui, con gli occhi sulle punte delle scarpe, il figlio del padrone tentava di dargli degli ordini.

«Piano con il plurale, io non c'entro nulla con le vostre cazzate. Sono un semplice operaio e se la vostra baracca fallisce mi rovo per strada, ma un posto lo trovo sempre.»

Il ragazzo si pulì la suola della scarpa contro il supporto in acciaio dello sgabello e si infilò le mani in tasca. Il contatto con le chiavi della sua Mercedes gli diede coraggio.

«Sai benissimo che dopo questa operazione ti avrò riservato un posto in ufficio, lontano da questo inferno»

Marchesoni sbuffò e ingoiò il caffè ormai tiepido in un soffio.

«Non mi dispiace del tutto questo inferno, come lo chiami tu, dopotutto ci mantengo i miei figli e pago il mutuo della mia casa.»

Si avvicinò al calendario e alzò il foglio patinato per vedere la protagonista del prossimo mese. Soddisfatto tornò al suo posto e gettò il bicchiere nella spazzatura.

«Ora non facciamo la scenetta del capo cattivo e dell'operaio buono. Tu conosci queste persone e io ho il denaro. Lasciamo da parte i convenevoli e andiamo al punto.»

La timidezza era svanita del tutto e dietro la camicia azzurra del ragazzo batteva un cuore da padrone.

«Flavio, voglio essere sincero con te perché ti conosco da quando sei piccolo. Sei una testa di cazzo e non hai la minima voglia di piegare la schiena. Ti piace andare per feste con i tuoi amici e spendere tutti i tuoi soldi in puttanelle. Un po' ti invidio, ma credo che ti stai mettendo in un gioco più grande di te.»

I due si guardarono negli occhi e rimasero con il fiato bloccato in gola. L'operaio si avvicinò alla porta e controllò dalla fessura in vetro che la produzione procedesse senza intoppi.

«Non ti preoccupare di me, se i tuoi amici sono così in gamba non dovremo preoccuparci di nulla. Hai messo l'annuncio?»

Il ragazzo sapeva che il potere del denaro non aveva confini e con un gesto veloce spostò il tavolino in formica grigia contro la porta bloccandola.

«Si, la prima volta ho usato il computer di un phone center e non è successo nulla. Poi, chi mi ha spiegato la procedura, mi ha detto che devo mandarlo da un computer ufficiale; ho usato il portatile che mi hai prestato e dovresti avere le coordinate.»

«Tutto semplice, conosco il posto. Ho bisogno di qualcuno che mi accompagni, è una grossa cifra e se qualcuno mi tira una botta in testa sono finito.»

Marchesoni cercò nella tasca della tuta il suo pacchetto di sigarette. In pochi secondi gli si materializzò nel cervello l'immagine di sua moglie che lo obbligava a promettergli di smettere. Estrasse il pacchetto e offrì una Merit al ragazzo. Flavio scosse il capo in segno di rifiuto.

«Il paparino conosce quello che stai facendo.»

Il fumo della prima boccata si era insinuato nelle narici del ragazzo e lo faceva ripiombare in quel mondo di sudore e dita ingiallite. La puzza di pelle rancida dei pakistani e le calze di lana del nigeriano che pregava in cortile.

«Non proprio, lui non si rende conto che la concorrenza ci sta mangiando. Vive nel suo mondo di numeri e vecchie strategie. Mi ripete sempre che l'economia tornerà a girare e che i cinesi non sono un problema. Col cazzo che non sono un problema.»

Il pugno del ragazzo scosse il display del distributore e Marchesoni quasi ingoiò mezzo filtro della sua Merit.

«Domani portiamo la borsa dove ci ha detto e gli lasciamo dentro la foto del bastardo.»

L'operaio osservò sognante gli anelli di fumo che uscivano dalle labbra. Sua moglie gli diceva sempre di smettere di fumare, ma lei non doveva scendere all'inferno con quella gente e difendere il proprio territorio e i propri privilegi ogni giorno. La prima volta che Flavio era entrato in azienda avrà avuto sei o sette anni. Girava per la fonderia sul muletto pilotato dal nonno e tutti gli operai si spostavano per farlo passare. Sembravano passati secoli.

Il cineseWhere stories live. Discover now