Il terzo membro del loro strano triumvirato, Jean-Luc, un giovane tecnico belga, era probabilmente rannicchiato nella sua cabina, a controllare per la centesima volta i sensori dei suoi apparecchi. Era un bravo ragazzo, Jean-Luc. Intelligente. Ma era fatto di vetro sottile in un mondo di martelli. Ogni suono della giungla lo faceva sussultare. Ogni insetto sconosciuto era una minaccia mortale. Max gli aveva dato una settimana, al massimo, prima di un crollo nervoso completo. Era carne fresca per la macina.
Mentre il sole iniziava a spargere una luce malata e giallastra sulla scena, arrivarono. L'imboccatura del "Cuore di Lufira" non era un affluente tranquillo. Era un taglio nella giungla, una ferita stretta da cui il fiume si gettava nel Congo con una piccola ma violenta cascata. La chiatta non poteva proseguire. Da lì in poi, sarebbero stati solo loro, i loro kayak in kevlar, e chilometri di verde sconosciuto.
La preparazione per la discesa fu un'operazione tesa e metodica. Max dirigeva le operazioni, i suoi ordini secchi e precisi. I kayak furono calati in acqua, scafi neri e affusolati che sembravano proiettili, pronti a penetrare nel cuore del buio. L'attrezzatura scientifica di Helena, sigillata in casse stagne, fu caricata con cura maniacale da Jean-Luc. Lui era nel suo elemento, ora. Circondato dalla sua tecnologia, la giungla diventava un semplice dataset da analizzare.
«Orologio atomico, sincronizzato,» disse Jean-Luc, con il suo accento vallone, battendo sul suo tablet corazzato. «Sonar a scansione laterale, online. Spettrometro di massa, calibrato. Siamo pronti, Helena.»
La sua voce era ancora un po' tremante, ma il lavoro lo calmava. Un mondo di certezze digitali.
Scesero nei kayak, il loro peso li faceva immergere nell'acqua torbida, color fango. Max era sul primo, il suo fucile bloccato davanti a sé, a portata di mano. Helena e Jean-Luc erano sul secondo, più grande, pieno di strumentazione.
Il capitano della chiatta, un francese anziano e sdentato, li salutò dalla ringhiera. «Appuntamento tra sei settimane. Se non ci siete, non vi aspetto. L'Africa non aspetta nessuno.»
Con un ultimo colpo di sirena che fece alzare in volo uno stormo di uccelli stridenti, La Chimère iniziò ad allontanarsi, lasciandoli soli con il rombo della cascata e la fame silenziosa della giungla.
Per un'ora, la discesa fu fisicamente estenuante, ma priva di eventi. Navigarono attraverso rapide leggere e tratti di acqua calma, scura e immobile come vetro affumicato. La vegetazione era così fitta da formare una galleria sopra le loro teste, intrappolandoli in un crepuscolo perpetuo. Enormi farfalle con ali blu elettrico, danzavano nell'aria immobile. Dalle rive, li osservavano occhi invisibili. Lo sentivano. Una pressione. Un'attesa.
Poi, l'anomalia.
«Strano,» mormorò Jean-Luc, gli occhi fissi sul suo tablet. «Il sonar ha un eco strano. Qui, vicino alla riva.»
«Cosa?» chiese Helena, sporgendosi.
«Un pesce. Grande. Un metro e mezzo, forse. Ma... la sua densità ossea è fuori scala. E la forma...»
Curiosi, si avvicinarono alla riva fangosa dove un piccolo affluente creava una pozza d'acqua stagnante.
E lo videro.
Galleggiava a pancia in su, un bestione argentato già gonfio per la decomposizione. Era un ciclide, una specie comune nel bacino del Congo. Ma era diverso. Le sue squame non erano quelle sottili e flessibili di un pesce moderno. Erano spesse, pesanti, simili a placche romboidali di smalto. Placche ganoidi.
«Mio Dio,» sussurrò Helena, la sua voce piena di una riverenza quasi religiosa. (Mein Gott). Si mise dei guanti e, senza esitazione, immerse le mani nell'acqua torbida per tirare il pesce a riva. L'odore era pestilenziale.
«Impossibile,» continuò lei, esaminando la creatura. «Queste sono scaglie da pesce del Devoniano. Si sono estinte 300 milioni di anni fa. Non possono essere qui. È un atavismo... una mutazione regressiva così estrema, da essere statisticamente impossibile.»
Max guardò il pesce. Non era uno scienziato, ma capiva le cose sbagliate quando le vedeva. E quel pesce era sbagliato. Profondamente, intrinsecamente sbagliato. La giungla, si rese conto, non sembrava antica solo a lui. Era antica davvero. E stava... perdendo pezzi. O forse, li stava ricordando.
Mentre Helena prelevava eccitata dei campioni di tessuto, la radio di Max gracchiò. Era Jean-Luc.
«Max... Helena... C'è un problema.» La sua voce era sottile, spaventata.
«Cosa c'è, ragazzo?» chiese Max.
«Il mio orologio... l'orologio atomico del sistema di navigazione. Ha... ha perso un secondo. Non dovrebbe essere possibile. È sincronizzato con cinque satelliti. Un orologio atomico non perde un secondo. Semplicemente... non lo fa.»
Max guardò il fiume. Non sembrava scorrere in modo naturale. Sembrava... denso. Pigro. Come un nastro che si svolge al rallentatore.
Un pesce con squame di un'altra era. Un tempo che perdeva pezzi. La sua mano destra, quella con la cicatrice a forma di mezzaluna sulla nocca dell'indice, ricordo di una rissa a Marsiglia, iniziò a prudere ferocemente. E per la prima volta da quando aveva lasciato la legione, sentì di nuovo quella sensazione. La sensazione di entrare in un posto dove le regole che conosceva non valevano più. Un posto dove persino il tempo poteva sanguinare.
La prima notte, si accamparono su una piccola spiaggia sabbiosa. Jean-Luc montò un perimetro di sensori di movimento, una fragile ragnatela di tecnologia contro un mondo che sembrava indifferente alla fisica. Helena era in trance, analizzando i suoi campioni, mormorando di genomi e regressione evolutiva in un misto di tedesco e inglese.
Max stette di guardia.
E nel cuore della notte, lo sentì.
Un suono che non era di nessuna specie conosciuta. Non era il verso di un uccello, né il ruggito di un giaguaro, né il lamento di una scimmia. Era un suono basso, lungo, lamentoso. Il suono di qualcosa di grande e di solo, che cantava una canzone triste al buio. Il canto di un ricordo.
Mentre ascoltava, una nebbia innaturale e fredda iniziò a salire dalla superficie del fiume. Scivolò verso la loro spiaggia, avvolgendo ogni cosa. Non era una nebbia normale. Era pesante. Aveva un odore. Non di acqua e di foglie, ma di polvere antica, di rocce erose, di qualcosa di inorganico e dimenticato. Odorava di tempo. L'odore del tempo stesso che si disfaceva, e loro erano intrappolati nel suo respiro umido e vecchio. E nella nebbia, Max vide delle ombre. Forme enormi, vaghe, che si muovevano lentamente sulla riva opposta. E si rese conto, con un brivido che non aveva nulla a che fare con il freddo, che non era solo la biologia a essere sbagliata in quel luogo. Era tutto.
Stavano scendendo in un fiume. O forse, stavano affondando in un sogno febbrile del pianeta Terra. E non sapeva quale delle due cose fosse peggio.
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REGRESSIONE
HorrorNelle profondità più oscure del bacino del Congo si nasconde il "Cuore di Lufira", un fiume mai mappato, un segreto che la giungla ha custodito per eoni. La Dottoressa Helena Strauss, biologa ossessionata dal mito del Mokele-mbembe, è convinta che i...
Parte 1
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