III

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Rylee guardò davanti a lei i sei studenti che facevano parte del comitato studentesco, quel giorno era particolarmente annoiata.
I ragazzi stavano discutendo per dare un tocco di colore alla scuola, ma non sapevano come, in quanto un'impresa di imbianchini sarebbe costata fin troppo. Rylee era dell'idea che, certo, potevano pitturare i muri, ma essi avrebbero fatto piacere agli studenti solo per un mese, poi sarebbero ritornati come prima. Ovvio, un tocco di colore metteva sempre allegria, ma con il passare del tempo sarebbe diventato monotono.
Rylee sapeva che serviva qualcosa di più, l'idea le venne così d'istinto: «E se fossimo noi a colorare i muri?»
Tutto il corpo studentesco si voltò verso di lei con un sopraciglio alzato, la ragazza non si scompose: era già successo in passato che dalla sua bocca uscissero le idee più strane, molte delle quali avevano avuto un ottimo esito, come per esempio quello di fare un presepe vivente un paio di anni prima.
«Rylee, non ci daranno mai il permesso.»
«E tu che ne sai, Kevin? - Proruppe la ragazza. - La preside è molto a favore degli studenti e se noi ci procuriamo dei teloni, la tempera e dello scotch, sono sicura che ce lo farà fare.»
«Ma non dire cazzate, Rylee. - Continuò Natasha. - Chi mai lascerebbe pitturare a degli studenti dei muri? Ci potrebbero scrivere qualsiasi cosa!»
«E' dall'inizio del semestre che vi scervellate per dare un tono più positivo a 'sta scuola e non avete ancora concluso niente.» disse Rylee innervosendosi, lei aveva già capito da tempo che non c'erano soluzioni per rendere più ospitabile la scuola, ogni cosa avessero pensato sarebbe costata troppo alle casse dell'edificio, l'unico rimedio era quello di risvoltarsi le maniche e mettersi al lavoro.
«Io sono d'accordo con lei.» disse Tom.
«Sul serio, Tom?» domandò Kevin.
Il ragazzo alzò le spalle e spiegò: «Rylee ha ragione, è dall'inizio dell'anno che cerchiamo un modo per rendere più bella la scuola, ma non abbiamo trovato niente a cui non serva l'uso di soldi, quindi direi che per renderla più accogliente dobbiamo fare qualcosa noi.»
Gli altri ragazzi che facevano parte del gruppo studentesco annuirono convinti, «Il papà di un mio amico fa l'imbianchino, potrei chiedergli se ci potrebbe fare uno sconto sui colori.» disse uno di loro.
Rylee si entusiasmò e sfoggiò il suo sorriso: «Grande, sì, dai!» e fece un cenno di ringraziamento al ragazzo.
«Chi lo dice alla preside?» chiese Kevin, riluttante.
«Io. - Disse Rylee convinta. - Ragazzi ora vi lascio, ho una verifica.» detto ciò uscì dalla stanza.
Non appena nella camera non ci fu più Rylee, si sentì: «E' una stronzata immane.»
«Almeno lei si è fatta venire in mente qualcosa, Kevin.»
Per tutta risposta il ragazzo batté un pugno sul tavolo e dileguò l'assemblea.

Maxie posò la penna sul tavolo e attese che il resto della classe terminasse l'esercizio. Aveva sempre adorato la matematica, quasi quanto la musica.
Amava come tutti quei numeri si sommassero, dividessero o sottrassero tra di loro, dando origine a un risultato che neanche si sognava.
Sembrava l'inizio e la fine di una canzone, che sembrava terminare nello stesso modo dell'avvio, quando in realtà c'era dietro tutta la melodia e una sorta di malinconia che costringeva a sentirne un'altra e poi un'altra ancora.
Ecco, così era la matematica per Maxie: una specie di malinconia che lo costringeva a fare esercizi su esercizi per soddisfarsi. Alcune volte si dava del pazzo da solo, solo un coglione faceva dei compiti supplementari, di matematica per di più.
«Già finito?» domandò Louis con un sopraciglio alzato.
Maxie sorrise imbarazzato e annuì, il ragazzo alla sua sinistra per tutta risposta prese il foglio dal compagno e scopiazzò l'esercizio.
Maxie sorrise, gli piaceva Louis, era nata subito un'ottima intesa tra quei due. Finalmente Maxie aveva trovato qualcuno con cui parlare di musica e sperava davvero che un giorno avessero potuto suonare insieme, già si immaginava come la sua chitarra si fondesse con il piano di Louis.
Aveva sempre amato la chitarra e il piano mescolati assieme e non vedeva l'ora di provarlo sulla propria pelle.
«Presentami un po' di gente, dai.»
«Allora, lui è Josh, il figone. - Indicò un ragazzo dai lineamenti fini e belli, occhi azzurri e capelli castani, un perfetto dongiovanni. - Poi, qui davanti abbiamo Kim e Lucy, le migliori amiche. - Indicò le due ragazze davanti a loro. - Là c'è Mad, va sullo skateboard.»
«Noto.» alluse Louis, poiché il ragazzo indossava vestiti larghi al massimo tre taglie in più, abbigliamento molto comune tra gli skater.
«Jade. - Indicò una ragazza in prima fila. - Direi che è proprio una secchiona, però ti passa i compiti ed è abbastanza figa, quindi ci sta. - Louis sorrise e ammiccò alla ragazza, il suo amico non aveva torto: bel culo, la maglietta gli fasciava la schiena e i capelli erano biondo platino. - Oh, poi lì c'è Niko, è l'unico con cui sia riuscito veramente a legarmi qui dentro.» mormorò Maxie indicando un ragazzo che aveva i capelli lunghi.
«Perché ha i capelli così lunghi?» domandò Louis.
«Vuole farsi i dread.» rispose Maxie arricciando il naso.
«Non ti piacciono?»
«Cristo, no.»
«Ti piace dire 'cristo' a te, vero?» disse Louis ridendo.
Maxie alzò le spalle e sorrise a sua volta.
Non credeva in dio, aveva iniziato ad avere dubbi all'eta di quattordici anni, durante la quale si chiedeva com'era possibile che un dio, così tanto amoroso, fosse al tempo stesso scontroso e menefreghista. Se il dio cristiano fosse stato davvero un dio parsimognoso e premuroso, allora avrebbe aiutato quella merda di mondo nel quale viviamo in qualche modo. Invece, se ne stava come un dio greco ad ammirare il mondo e godersi il nostro sfracellamento. Maxie aveva smesso di credere in dio perché non aveva più fede e si sentiva leggermente rincoglionito a inginocchiarsi sul letto, congiungere le mani e dire preghiere al soffitto.
Ora stava bene con se stesso e non aveva rimpianti riguardo la sua decisione, cercava di non bestemmiare mai, soprattutto per una questione di rispetto, ma ormai la parolina 'cristo' era sulla sua bocca tutti i giorni.
«Di lei che mi dici?» disse Louis indicando la ragazza che l'aveva accompagnato dalla preside.
«Chi, Rion?» domandò Maxie.
«Non so come si chiami.»
«Rion, beh è un muro quella ragazza.»
«Un muro?» domandò Louis.
«Già, non parla mai. L'anno scorso mi hanno messo vicino a lei, è passato un mese prima che mi parlasse di sua spontanea volontà.»
«Davvero?»
«Cristo se è vero. - E ridacchiò. - E' un peccato, perché è davvero bella.»
Louis annuì e rispose: «Ha un culo.»
«Figa, hai visto? Madonna.»
Gli occhi di Louis saettarono alla ragazza e si chiese cosa mai avesse da nascondere. Si disse che magari era il suo carattere, ma dopo un po' avrebbe dovuto sbloccarsi, invece da quello che gli diceva Maxie era silenziosa e chiusa da sempre.
«Comunque, se ti interessa, ha una sorella.» disse Maxie.
«Una sorella?»
«Gemella, per di più, è il suo opposto. - Disse Maxie. - E' nel comitato studentesco e parla.» ridacchiò.
«E' uguale a lei?» chiese.
«Nah, ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. Onestamente a livello di bellezza preferisco Rion, ma Rylee è molto più loquace, ci sono uscito un paio di volte in compagnia, è simpatica.»
«Fantastico, ma non esce mai?»
«Rion? Non che io sappia, c'è una cosa strana su di loro, Louis.»
«Sarebbe?»
«E' come se non fossero sorelle. - Maxie lo guardò negli occhi. - Io lo so perché ho fatto le elementari con loro, ma ti posso assicurare che nella classe lo sappiamo solo io, te e Niko.»
«Scusa non si nota la somiglianza?»
«Non se Rion fa finta di non esistere.»
«Ma che cosa è successo?»
«Non ne ho idea, Rylee non me ne ha mai parlato.»
«Cazzo.»
«Maxie, se hai finito di parlare con Louis, correggeresti l'esercizio?»
«Scusi, prof.» disse Maxie e iniziò la correzione.
La professoressa Finch era una delle migliori del corso, se non la più brava. Maxie e quasi tutto il resto degli studenti l'adorava, lei era in grado di farti piacere la matematica, nonostante fosse una materia disprezzata dalla maggior parte degli studenti.
Lei, una donna sulla quarantina, con i capelli scuri boccolosi, un fisico asciutto dalle giuste forme e sempre vestita in modo consono, da non procurare strane idee agli studenti, era un vero e proprio genio a spiegare. Aveva un modo tutto suo, all'inizio sembrava strano con tutti quegli esempi sulla vita quotidiana, ma dopo un po' imparavi ad amarlo.
Maxie adorava quella prof. proprio perché era stata in grado di fargli amare la matematica più di quanto non lo facesse già.

Due minuti dopo il suono della campanella gli studenti sciamarono fuori dalla classe, ma Louis fu trattenuto.
«So che è il primo giorno Louis, ma spero tu ti sia trovato bene.»
Louis parve sorpreso da quell'affermazione: nessun professore si era mai interessato a come lui stesse veramente. Ogni insegnante era sempre stato occupato ad assegnare un voto al suo reddito scolastico, invece ora, quella donna con gli occhi grigi gli chiedeva qualcosa di personale.
Louis si sentì talmente coinvolto da quello sguardo premuroso che rispose: «Sì, mi sembra un'ottima classe, l'unica cosa è che questa scuola è così grigia.»
La Finch proruppe in una risata sincera: «In effetti hai ragione, ci vorrebbe proprio un tocco di colore.»
Louis sorrise e guardò il pavimento, non sapendo cosa dire.
«Ti ho portato degli esercizi da fare per casa. - Sorrise spiritosa. - Non sono obbligatori, stai tranquillo. Solo che non so cosa tu abbia fatto nella prima parte dell'anno e qui ci sono esercizi su quello che abbiamo svolto noi, c'è anche una piccola parte di spiegazione che ti può aiutare nel caso non avessi fatto qualcosa. - Gli consegnò una decina di fogli. - Ovviamente non sei costretto a farli, ci mancherebbe altro, dipende tutto da te. Nonostante ciò ti ho segnato quelli che potresti fare.»
«Grazie mille.» disse Louis.
«Buona giornata, Louis.» disse la prof. e uscì dalla classe.
«Signorina Finch.» rispose il ragazzo e sfogliò i fogli, si accorse che nessun esercizio era sottolineato, così fece rapidi passi alla porta, si affacciò ed esclamò: «Prof!» ma la signorina Finch non c'era.
Louis, scettico, mise i fogli nella borsa e si ripromise che quel pomeriggio avrebbe provato a fare qualche esercizio di matematica.

Dietro una porta lì vicino, la signorina Finch sorrise tra sé.

Greta suonò al campanello della porta blu con inciso il numero 53, passava di lì due volte alla settimana e se avesse potuto, l'avrebbe fatto tutti i giorni. Tutti gli impegni che una ragazza di vent'anni poteva avere, però, la costringevano ad andare a casa di Rich solo due volte.
La porta si aprì e la ragazza sorrise a una delle due gemelle, «Ciao, Rylee.»
«Greta, vieni, entra. - Mormorò la ragazza. - Mio fratello è in camera.»
«Grazie mille, come sta Renae?»
«Alla grande, è una bambina bravissima.» sorrise Rylee e andò in soggiorno.
Greta salì le scale sfiorando con le mani le pareti, lasciando segni invisibili e arrivò davanti alla porta. Bussò come sempre e attese una sua risposta che arrivò dopo un paio di secondi.
Entrò e come sempre le prese un colpo al cuore.
Non tanto per la flebo attaccata al suo braccio, nemmeno per la bandana che aveva in testa e nemmeno per il suo viso bianco cadaverico, ma bensì perché lo trovò bellissimo, come tutte le volte che lo vedeva.
Bellissimo nella sua forza meravigliosa che celava dietro la sua fragilità.
Bellissimo quel sorriso che le rivolse non appena entrò.
Bellissimo come una foglia che cade da un ramo, all'inizio dell'autunno.
Bellissimo perché non poteva essere suo e fondamentalmente a Greta andava bene così, perché se Rich fosse stato suo, lei non sarebbe andata avanti a vivere una volta che lui se ne fosse andato.
Bellissimo come l'amore che lei provava per lui, amore che scriveva nel suo diario come una sedicenne, che raccontava alle sue amiche, che dimostrava con baci sulla guancia e con piccoli regali, quali una bandana, un braccialetto, qualsiasi tipo di oggetto che poteva donargli.
«Ciao, Greta.»
«Ehi, Rich, come andiamo oggi?»
«Vorrei tanto una cazzo di sigaretta.» mormorò appoggiando sul comodino un foglio con una penna.
Greta sorrise e sfilò fuori dalle tasche un pacchetto di Camel gialle, le preferite del ragazzo.
Vide i suoi occhi, uno verde e l'altro azzurro, illuminarsi piano, come la luce che emanava una candela al buio più assoluto.
«Dio mio.» sussurrò e sorrise come non mai.
Greta si sentì morire davanti a quel sorriso meraviglioso e le sue membra si sciolsero costatando che fosse per lei.
Sorrise e disse: «Puoi?»
«Devo morire, no? Dai, aiutami ad alzarmi che facciamo quattro passi.»
Greta si avvicinò e prese Rich sotto le ascelle facendo leva sulle sue braccia, sembrava un bambino indifeso e benché il suo corpo fosse così decrepito, era caldo. Greta si beò di quel dolce calore e di quel profumo, che sapeva di coperte, sapone e un misto di medicinali. Quando si accorse di essere a un soffio dalle sue labbra, ebbe la tentazione di mollare la presa e afferrargli il viso e riempirlo di baci fino a che lei non fosse morta, ma si trattenne e alzò il ragazzo dal letto.
Rich camminava di rado, la maggior parte delle volte lo faceva in sua compagnia, per il resto del tempo se ne stava a letto.
Era ormai giunto al capolinea, però resisteva. Molte volte Greta si chiedeva perché mai vivesse ancora, cosa avesse da fare di nuovo in quella vita che ormai non poteva offrirgli più niente.
Uscirono dalla camera con la flebo a portata di mano e grazie all'aiuto di una sedia elettrica che gli faceva scendere le scale, arrivarono in cucina.
«Greta, alcune volte sei proprio un angelo. - Disse la madre del ragazzo. - Sei l'unica che lo fa uscire dal letto.»
«Sì, mamma, è il mio angelo custode, okay?»
Greta si sentì svenire a sentire quella parole, benché fossero sarcastiche.
«Lo immagino, Rich. Cosa fate, ragazzi?» disse prendendosi tra le mani la piccola Renae.
«Andiamo fuori a fumarci una meravigliosa e stupenda sigaretta.»
Gli occhi della madre passarono dal disaccordo, al terrore e alla comprensione, ovviamente, nessuna madre voleva perdere il proprio figlio.
Annuì e mormorò: «D'accordo, ragazzi.» e cercò di sorridere.
«Non pensi che gli stai facendo del male, Rich?» chiese Greta una volta usciti.
«So quanto possa essere difficile per lei, glielo leggo negli occhi ogni volta che mi vede.»
«Per questo te ne stai sempre in camera?»
«Esatto, so che le faccio del male, ma deve anche accettare la situazione.»
Erano parole ripetute più e più volte, Rich aveva accettato la sua malattia e dopo le svariate cure si era reso conto che nessuna aveva effetto sul suo corpo, l'aveva scoperta troppo tardi e ora doveva pagare con la morte.
Rich non la prendeva tanto in negativo, pensava che nonostante fosse giovane e aveva ventuno anni, aveva già vissuto abbastanza. La vita era stata clemente con lui.
Greta cercava di convincersi con le parole di Rich e alcune volte ci riusciva, ma immaginarsi una vita senza di lui le sembrava pressoché impossibile.
Forse si sarebbe resa conto che poteva andare avanti solamente una volta che lui non ci sarebbe stato più, ma quel pensiero la uccideva, quindi, cercava di passare più tempo con lui, vivendoselo alla giornata.
«Basta parlare di me, cosa mi dici?»
«Niente di che, davvero. - Rispose Greta sincera. - La vita è monotona, Rich.»
«Ognuno ha la sua monotonia del cazzo.»
Greta amava quelle frasi filosofiche ricche della bruschezza del ragazzo.
«Già. - Mormorò. - Sabato andiamo in discoteca con gli altri, Madison festeggia il compleanno.»
«Sì? Che figata.»
«Mi spiace che non puoi venire.»
«Le discoteche mi hanno quasi stancato, con tutte le stronzate che ci ho fatto lì dentro.»
Greta ridacchiò immersa nei ricordi, «La scritta nel cesso.»
«La bottiglia che mi sono versato addosso.»
«Quella povera ragazza che ti voleva!»
«Quella è proprio da dimenticare! Quando ho chiesto al dj di mettere musica vecchia e lui mi ha messo una cazzo di ballata.»
I due amici risero tra di loro, immersi nei ricordi.
E mentre Rich fumava, Greta si curava di lui.

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Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!
Volevo solo ringraziarvi per le stelline che avete lasciato nei capitoli precedenti, vi voglio bene aaaw

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A presto!
Giada.

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